IL PRINCIPE CAMILLO MASSIMO
E GLI “ABBELLIMENTI” NEL PALAZZO BARONALE
DI ROVIANO
di Artemio Tacchia
Gli ultimi restauri che stanno interessando il Palazzo baronale di Roviano (1) hanno ridestato curiosità ed interrogativi tra la gente e gli amministratori, soprattutto intorno al problema se “ricostruire” la merlatura del muro di via Porta Scaramuccia oppure no. Naturalmente, come per ogni questione che riguarda i monumenti e la loro conservazione, le opinioni sono tante e contrastanti. C’è chi fa pressione sui responsabili della gestione del progetto perché, in fase di sistemazione del muro, altrimenti detto “de ji Toti” (2), si ricollochino i merli “guelfi” che ricordano con nostalgia per averli visti in situ fino alla metà del XX secolo e chi, al contrario, sostiene che una tale operazione non solo rappresenterebbe un “falso storico”, come già fece il principe Camillo Carlo Massimo (3) facendo credere alla popolazione che il manufatto, in passato, era parte delle mura di cinta del castello, ma che tale intervento risulterebbe essere anche pesante dal punto di vista dell’impatto ambientale.
Il Palazzo baronale era privo di merli
E’ possibile che nel medioevo le tre torri che collegavano le mura del castello di Roviano fossero merlate. Poi, però, a partire dal Rinascimento quando tutti i castelli cominciarono ad essere trasformati in palazzi residenziali, anche in quello di Roviano le torri vennero coperte con tetti. Abbiamo diverse testimonianze in proposito. La prima è un disegno di F. Mochetti pubblicato su L’Album dell’8 agosto 1846 (4). Roviano appare formato da quattro casupole sulle quali svetta spropositato il Palazzo dei Barberini Colonna di Sciarra con le sue tre torri coperte: due della vecchia residenza fortificata (la terza a sud era stata demolita da anni) e una degli appartamenti a nord (quella con il loggiato coperto con gli archi a tutto sesto riportati alla luce dai restauri attuali).
La seconda si ricava dalla minuziosa descrizione fatta in occasione della “Consegna di fabbricati nei feudi di Roviano e Anticoli Corrado” affittati dalla principessa Carolina D’Andria Pescopagano vedova del principe Maffeo Barberini Colonna di Sciarra (seniore) a Giacinto Todini di Scarpa (Cineto Romano) avvenuta nell’ottobre 1859. In essa si legge: “Dal predetto vano (la “Piccionaia”, ndr) si passa ad una loggia coperta che è all’ interno della torre con pavimento e muri in cattivo stato che sostengono il sopraposto tetto ad una pendenza impianellato (…) In essa loggia altra scala di legno (…) ascende ad altro vano (altra piccionaia, ndr) (…) pavimento lastricato con qualche mancanza coperto a tetto impianellato con incavallatura relativa ad un lucernale senza fusto” (5).
Nella scheda n. 145060, redatta dai tecnici della Regione Militare Centrale di Roma per riportare il punto trigonometrico individuato sul Palazzo per il periodo 1871-92, è scritto che la quota alla “gronda del tetto della torre” (6) risulta ad una altezza di 531,39 metri s.l.m. e nel disegno la torre appare con il tetto e due sole finestre arcuate (oggi sono tre).
In una foto del 1888, scattata in occasione dell’inaugurazione della ferrovia Roma-Sulmona, si vedono chiaramente, anche dai colori delle pietre più bianche rispetto ai grigi del paesaggio intorno, il muro di via Porta Scaramuccia completamente alzato e rifinito solo per metà con i merli guelfi e la torre coronata con sei merli per faccia. Quest’ultima opera, però, dovette sembrare eccessiva perfino al principe Massimo se, in un’altra fotografia di fine Ottocento, presa sempre dalla stazione ferroviaria, si vede la torre principale tutta smozzicata e “nuovamente” oggetto di lavori per diminuire i merli da sei a cinque, come poi si sono conservati fino ad oggi (7).
Nel Registro della “Casa Massimo, feudi di Roviano ed Anticoli Corrado”, infine, che si conserva nell’Archivio comunale, nella parte dove vengono riportate le notizie generali si legge: “Negli ultimi tempi fu dal principe Massimo merlata la torre” (8).
Tutti questi documenti dovrebbero bastare a confutare l’opinione che “i merli guelfi” c’erano da sempre sulla torre e sul muro de “Ji Toti”.
Ad inventarsi “l’abbellimento” per necessità, in quanto non riusciva a dimostrarne il possesso, fu il principe Massimo che lo scrive di proprio pugno il 31 maggio 1878 in una lettera indirizzata al suo procuratore Guglielmi di Tivoli, al quale capziosamente suggerisce: “Bisogna (…) pensare che quell’arco (Porta Scaramuccia, ndr) non era costruito per porta di entrata del paese, ma bensì faceva parte del giro delle mura di cinta del Castello di cui erano un’appendice” (9).
Ma questo muro non c’era e per renderlo “un’appendice” unitamente alla Porta Scaramuccia, che in quel momento era materia di contenzioso con il Comune, aveva bisogno di farlo costruire ex-novo. Così, visto che ci doveva mettere le mani e i soldi, tanto valeva trasformare tutto il Palazzo baronale e renderlo un poco somigliante all’altra sua residenza principale di Arsoli.
Come era tendenza nella aristocrazia romana di allora, il principe Massimo, nella speranza di “riproporre l’immagine di un potere feudale, in realtà in completa decomposizione” , aveva tentato con i numerosi lavori e abbellimenti di “ricostruire un ambiente allusivo della storia del castello dal medioevo al cinquecento, mai esistito prima, tuttavia carico di simbolismi feudali, materializzati nel baldacchino, con le insegne della famiglia” (10).
La ricostruzione di Porta Scaramuccia
Nessuno si sarebbe mai sognato di erigere un muro merlato sul lato a nord-ovest del Palazzo se, prima, non ci fosse stata l’incauta e provocatoria demolizione dell’arco della Porta Scaramuccia ordinata dal sindaco Giuseppe Scacchi la mattina del 3 gennaio 1878 con il pretesto di allargare la strada (11). Fino ad allora, il terreno roccioso tra il castello e la via era scosceso ed in basso lo spazio era utilizzato ad orto e delimitato da un piccolo muro di cinta con piccoli ambienti rustici. Anzi questo “orto fuor di Porta Scaramuccia”, che era la metà dell’attuale giardino pensile (l’altra metà apparteneva ai Parisi), ospitava alcuni “pozzi neri” e fungeva anche da “immondezzaio”. Quest’ultimo si prolungava tra le stalle e gli orti (tra i quali quello della chiesa) fino alla strada denominata “del Borgo”, oggi via Trento (12).
La vicenda della demolizione di Porta Scaramuccia si inserisce in un contesto di duro scontro politico che, a pochi anni dalla “presa di Roma”, vedeva in lotta due fazioni: il partito “guelfo” del principe, con in testa i Nardoni (affittuari dei suoi beni e sostenuti dal fratello arciprete) e il partito “laico” o “municipale” che era capeggiato dal sindaco Giuseppe Scacchi e dai Tiritante. In mezzo gli altri piccoli possidenti locali che si schieravano, a seconda delle convenienze, ora con l’uno ora con l’altro. La vera materia del contendere, in verità, era l’opposizione dei contadini e dei piccoli proprietari alla pretesa del principe Massimo di esigere ancora le corrisposte prediali (l’ottava dei prodotti lavorati sulle terre di Roviano) e il pagamento di vari canoni, di origine feudale (13).
Il sindaco ed il mastro muratore Francesco Grisanti, comunque, uscirono indenni dal procedimento penale (“non farsi luogo a procedere per inesistenza di reato”) per aver agito a salvaguardia della pubblica incolumità, mentre il principe Massimo, non potendo provare in alcun modo i diritti di possesso sulla Porta, barattò col Comune il riconoscimento della proprietà in cambio di soldi per la costruzione del cimitero e dell’impegno a ricostruire l’arco a proprie spese.
La Porta venne restaurata un paio d’anni dopo e il principe, oltre a ricollocarci la sua arma gentilizia, vi inserì la memoria marmorea in latino che tuttora, così tradotta, si legge: “Camillo Massimo, Signore di Arsoli Roviano e Anticoli, ripristina l’arco di antica costruzione, dal volgo detto Porta Scaramuccia, rovinante e spaccato, a sue spese per decoro e ornamento del castello. Anno 1880 ”.
Già qualche anno prima, però, si era messa mano alla Porta. Stando a quanto si legge dal resoconto di un intervento dell’assessore Luigi Nardoni nel Consiglio comunale del 22 ottobre 1878, parrebbe che nell’ottobre del 1877 (e il sindaco lo aveva lasciato fare) lo stesso Massimo “fu quegli che ristaurò l’Arco, facendovi li merli” e mettendoci la propria arma gentilizia (14). Probabilmente il principe, nell’ambito dei vari lavori intrapresi nel Palazzo, in occasione della collocazione dell’arma gentilizia aveva creato dei piccoli merli, tanto che nel progetto di ripristino redatto dall’ing. Giuseppe Tosi si parla di creare un “aumento del rustico” e “della merlatura”, cosa poi realizzata anche per far posto alla memoria suddetta.
Comunque, ottenuta la Porta, il principe Massimo proseguì nell’attuazione di un progetto impegnativo (anche se poi non riuscirà a portarlo tutto a termine) che investì, con lavori di restauro, rifacimento e abbellimento che durarono fino alla fine dell’Ottocento, non solo il muro a nord-ovest ma l’intero Palazzo baronale, modificandolo in maniera significativa (15).
“Innovazioni ed abbellimenti”
In un voluminoso Registro appartenuto alla “Casa Massimo” riguardante i possedimenti nei “Feudi di Roviano ed Anticoli Corrado” ed ora conservato nell’Archivio comunale, particolarmente utili tornano le pagine 288-289 scritte, insieme agli “Appunti estimativi”, dall’Ing. Salvatore Passeri nel 1896, in quanto elencano tutta una serie di “Innovazioni ed abbellimenti fatti in Roviano dal P.pe Camillo Carlo Massimo” a partire dal 1875.
“ Sul Portone del Castello – scrive il Passeri – fu posto uno stemma dell’Ecc.ma Casa ricavato in terra cotta da quel bellissimo in stucco rilevato esistente nel 2° cortile del Palazzo delle Colonne in Roma, e questo di Roviano è semplicemente sormontato da un amorino in piedi, senza il serto di fiori intorno. Nell’interno del Cortile sulla porta di faccia (oggi è l’entrata del Museo, ndr) che dà accesso al piano Nobile fu collocata una Madonna col S. Bambino contornata da fiori, e frutti, bassorilievo in terra cotta colorata, lavorata in Bologna alla fabrica Minghetti sullo stile del Luca della Robbia. La contigua scala che mette al piano superiore venne ricoperta di tettoia (…)”.
Il 3 novembre 1875 il principe fece collocare nella summenzionata camera “un gran Baldacchino in panno rosso trinato giallo, sormontato da 4 gigli intagliati in legno celeste, e oro, con suo bancone, e dassello colle Armi di Casa Massimo, e Lucchesi Palli, esistente in Roma, e poi destinato per Arsoli: il fusto però era quello di un altro Baldacchino, che stava in Arsoli nella Sala dei Zuccari e che venne disfatto per vecchiezza”. L’antica Spezieria pubblica, già esistente nel Seicento, che all’epoca era situata “in una stanza terrena sotto la Casa Pretoriale”, in Piazza S. Giovanni, fu trasportata “in un ambiente del Palazzo” e accresciuta “di molti vasi antichi” (16).
Nel 1879, come abbiamo visto, il principe Massimo si accordò con maestranze arsolane per far ricostruire l’arco di Porta Scaramuccia. “In questa occasione venne anche merlata la torre quadrata più eminente del Palazzo: i tetti del quale furono restaurati sulla fine del 1889 impiegandovi circa 500 canali presi a Petescia”.
Nel medesimo periodo della ricostruzione di Porta Scaramuccia, con gli stessi muratori arsolani Luigi Alfani e Ulisse Giordani, “venne rialzato il muro di cinta verso il Palazzo che congiunge coll’Arco stesso e sull’alzamento vennero piantati dei merli, e questo lavoro venne combinato per Lire seicento (£ 600)” (17).
Tuttavia, malgrado tutti questi lavori esterni e gli indubbi “abbellimenti”, anche con la messa in opera della finestra bifora sulla facciata est che dà sulla corte, il Palazzo nelle mani degli affittuari, ai quali fu consegnato nel 1880 già “nello stato inservibile e inaffittabile”, continuava ad andare in rovina. “Lo stato generale è deplorevole…l’abbandono è generale e quasi può dirsi della massima parte inabitabile…La vecchia cisterna o serbatoio è ricolmo di immondizie e si sospetta anche che perda… è necessario o assolutamente demolire per non pagare le imposte o restaurare per non perdere il reddito che potrebbe dare”- scriveva il Passeri, sollecitando un deciso intervento più sulle strutture interne che esterne. Così, “ nel 1896 fu fatta una verifica generale di tutti i vani del Palazzo di Roviano fino alle cucine sotterranee per farvi i restauri più necessari, specialmente agli infissi, mattonati (…) dovendosi però servire in gran parte delle persiane, e delle finestre tolte dal 1° piano del Palazzo d’Arsoli in occasione che vi furono fatte le mostre di finestre bifore in pietra. Fra questi restauri fu pure compreso di togliere un tramezzo nella stanza al 1° piano (ove a tempo di Sciarra avevano formata la Cappella) e così restituire la camera come era in origine, ed è la camera antecedente al Salone grande”. Furono fatti altri lavori: sostituzione di travi, tinta alle pareti, pittura dei soffitti al 1° piano “da affidarsi a qualche discreto pittore che sappia imitare lo stile antico”, raccomandava allora il Passeri. Probabilmente in quegli anni fu dipinta la stanza al primo piano, dove oggi vi è la sezione dell’olivicoltura e della viticoltura del Museo, e fu spostata la cappella nella stanza degli affreschi cinquecenteschi.
Conclusione
E’ passato oltre un secolo dagli interventi edilizi e architettonici del principe Massimo. I merli del 1880 appiccicati lungo il muro sono rimasti in piedi appena cinquant’anni, lesionati anche dalle forti sollecitazioni del terremoto del 1915. Riproporli oggi non ha alcun senso, anzi, se proprio ci fossero i soldi e la voglia di intervenire sul Palazzo bisognerebbe ripristinare la loggia e il tetto del mastio e pensare seriamente alla protezione delle facciate.
1- Gli interventi progettati nel “Piano di Recupero Integrato” approvato dal Comune e finanziato dalla Regione Lazio, oltre a prevedere l’abbattimento di edifici non compatibili nel Centro Storico, il rifacimento con sampietrini bianchi delle strade, dei giardini e delle piazze, l’acquisizione e il restauro di abitazioni private fatiscenti, comprende anche il restauro e il recupero residenziale dell’ala del Palazzo baronale a nord-ovest e la sistemazione di tutto il giardino pensile, compreso il muro de “Ji Toti”. Con finanziamenti della Comunità Europea, invece, per ospitare il “Museo della Civiltà contadina Valle dell’Aniene” è stato restaurato tutto il Palazzo baronale, compresa la torre.
2- La strada, prima di chiamarsi “via di Porta Scaramuccia”, era intitolata al patriota Enrico Toti.
3- Il feudo di Roviano venne acquistato il 3 luglio del 1872 dal principe Don Camillo Massimo che di battesimo si chiamava Carlo. Nella famiglia Massimo è Camillo X, secondo quanto stabilito da Camillo di Ascanio Massimo nell’istituzione della primogenitura (1640). Cfr. T. Passeri, Il principe D. Camillo al battesimo Carlo Massimo e la sua presa di possesso in Arsoli, 1874 Roma.
4- Il disegno illustra l’articolo di V. Anivitti, Le ruine di S. Maria dell’Oliva sulla via Sublacense al miglio XXXIII, in L’Album, pp. 191-192, Roma 1846.
5- Documento in fotocopia presso archivio privato.
6- idem.
7- archivio privato e A. Mannucci – G. Mezzetti, Il fumo della vaporiera. 1879-1976, p. 143, Tivoli 1976. Anche nel dipinto-invito alla corsa-prova per l’agibilità della ferrovia (11.7.1888), tronco Cineto – Colli di Monte Bove, il Palazzo baronale di Roviano è ancora rappresentato con le torri coperte da tetti, cfr A. Mannucci, Centenario della ferrovia Roma-Sulmona, p. 62, 1988 Tivoli.
8- archivio Comunale, Appunti estimativi dell’ing. Salvatore Passeri, feudi di Roviano ed Anticoli Corrado, 1896.
9- a. tacchia, Porta Scaramuccia, 1982, Tipografia Tambro Pomezia, p. 22.
10- E. parisi, Il castello di Roviano: centro e immagine del potere baronale e declino feudale, pp. 35-40, in Ricerca e territorio. Lavoro, storia, religiosità nella valle dell’Aniene, a cura di F. F. Bernardini e P. E. Simeoni, 1991, Leonardo De Luca Editori.
11- Sulla Porta Scaramuccia ed in particolare sulla vertenza tra il principe Massimo e il Comune di Roviano vedi a. tacchia, op. cit..
12- Vedi pianta del Catasto Gregoriano (1816-19) e, soprattutto, il Cabreo redatto dal Mucci per conto dei Colonna Barberini di Sciarra (1862 ?) pubblicato in aggiunta alle “Memorie principali della Terra di Roviano” di don Bartolomeo Sebastiani a cura dell’Associazione “La Marzella”, Roviano 1998. Ancora nel 1912, secondo una pianta redatta da Enrico Marchionne, la porzione dell’area più a nord, denominata “giardino” era dei Parisi (per questo documento ringrazio l’ingegnere Vincenzo Marchionne). Il muro fu costruito tutto dal principe Massimo in cambio di “aiuti” nella vertenza da parte di Giuseppe Parisi, segretario comunale e proprietario dell’orto-giardino?
13- I contrasti con il principe Massimo dureranno, comunque, fino alla fine del secolo. Si risolveranno solo con transazioni e convenzioni firmate con altri sindaci più “vicini” a lui e la vendita del feudo ai Brancaccio nel 1902, con i quali, comunque, erano imparentati.
14- Cfr A. tacchia, op. cit., p. 23 e nota 25 e documenti in Appendice.
15- Il principe voleva rivestire, come ad Arsoli, tutte le finestre del Palazzo che danno sulla corte con le bifore. Il progetto non fu portato a termine e queste, in grande quantità, sono rimaste ammonticchiate in una stanza al pian terreno fino ai primi anni Ottanta. Iniziati i restauri, sono sparite.
16- Ad oggi, è rimasto sul portone d’ingresso al Palazzo solo lo stemma in terracotta; tutto il resto forse ha preso la via prima per Arsoli, quando i Massimo vendettero ai Brancaccio, e poi per S. Gregorio da Sassola prima del 1979, anno in cui la principessa Donna Ceccarelli ved. Brancaccio vendette il castello al Comune di Roviano.
17- Archivio privato, Relazione anonima, Roviano, Arco di Porta Scaramuccia.