Non c’è più sangue
a lordare la scala dei Signuritti,
né lame affilate né agguati
a lacerare sete e damaschi,
a vendicare amori traditi.
Nel Palazzo
salgono padroni i contadini
con le ciocie e le zappe,
con gli aratri e le vanghe,
con le falci e i sarìcchi,
con le còppe e i cavajji.
Anche il pozzo di Maffeo è secco.
Se ne sta appartato nella corte,
intimorito,
piegato dall’esagerato mastio
- colpo di coda di un Massimo odiato –
guarnito di archi e di bifora
i cui merli
pesano persino al cielo.
La corte ri-selciata di bianco,
prigioniera eterna del vento,
è sempre
mezza di luce e mezza d’ombra.
Ci cammina – segreta – una giovane donna,
sangue di vecchio carpentiere.
Le chiavi nelle mani di novella castellana
aprono,
dove un tempo crepavano i carcerati,
un Museo
di memorie e di stanze.
Il sole
da Occidente appena ce la fa a rischiarare
negli affreschi cinquecenteschi
la testa mozzata
d’Oloferne.
Sta il vincente guerriero nel sangue
da Giuditta e dal vino
tradito.
La sua tenda è questa stanza
buia di morte, di trionfi e di cariatidi
dove i Colonna tenevano i libri
contabili
e i Brancaccio, ultimi padroni
di un Palazzo fatiscente,
si inginocchiavano
magnanimi.
Artemio Tacchia, 2006