Sòle rànena e pennecchie

V. PERUZZI. Sòle rànena e pennecchie
Associazione Culturale di Varia Umanità e Musica Vivarium, pp. 672 (cm 12 x 23), 2010 Tip. Fabreschi Subiaco, Testo originale a fronte. Traduzione e note di G. Moglioni. S.i.p.

Il “Fiore azzurro” dei Romantici Heinrich von Hardenberg “Novalis” ha scritto ne I discepoli di Sais: un’anima hanno le cose e sta al poeta svelarle, sicché poetare è una sorta di innerweltliche Askese, di ascetica (descetica) intramontana. E l’Imaginifico in Maia: l’arte sforza il mondo a esistere. Ad ambedue i compiti, più impegnativo certo il secondo per l’implicito rimando al poeta come poietès, facitore di significati e di cose, di cose come sensi e di sensi come cose, vera azione di creazione ex nihilo sui et subiecti, divina creazione dunque, assolve magnificamente, nei limiti delle sue scelte di tempo e di spazio e della loro linguistica veicolazione, Vittorio Peruzzi, delle cose vivaresi svelando l’anima e dilatandone gli ambiti, e perciò liricamente reinventandole ed ontologicamente arricchendole fino a farle nuove (ecce nova facio omnia). Il dialetto (dialégomai, parlo, discorro) come primitivo dirsi, svelarsi, delle cose, porsi sotto l’aspetto della loro sonorità, è dunque in grado, tale è anzi la sua specificità, di attinger l’essenza e di consentire, mediante l’atto della sua allegorizzazione alla seconda potenza che è la poesia, di creuser le ciel (s’estende qui alla poesia quanto Baudelaire riferisce esplicitamente alla musica), di scavare dentro l’essenza, di sondarla, penetrarla, scandagliarla, di udirne e liberarne l’Urklang, il primigenio suono.
Ecco, a noi pare che il “dialettare” di Peruzzi davvero risponda a tali esigenze approssimandosi così agli apici della più nota produzione consimile; operazione di scavo, traverso lo strumento della poesia, della vivaresità, per attingere nelle sue ctonie profondità sì le proprie radici, ma le stesse radicazioni dell’universo e di Dio. Come Anteo il Peruzzi torna a ricaricarsi sui suoi monti, nella sua valle, sul cuore della Madre, viresque resumit in nuda tellure iacens, per poi riprendere il volo verso il mondo che sa essere oltre i suoi monti, oltre la sua valle.
Tra la produzione poetica dialettale del Peruzzi e la consimile dei naïfs vivaresi e dei paesi circostanti esiste un abisso, non solo dal punto di vista linguistico ma soprattutto da quello dei contenuti. Non sono essi le solite descrizioni da quadretto rusticano della terra e della gente, realizzato con strumenti rudimentali e con scarsa o nulla capacità di scandaglio emotivo. Siamo qui di fronte ad una descrizione della Terra e della Gente in cui il lirismo or bucolico or comico or tragico or nostalgico ora addirittura epico raggiunge vertici che son raramente non solo nella poesia dialettale ma anche in quella in lingua raggiunti. Una notevolissima ricchezza di pensiero e di riflessione, oltre che di emozioni destinate a suscitare ben altro che un puro e semplice ébranlement nerveux (Marcel), fanno della poesia del Peruzzi una denkende Dichtung (Heidegger), una poesia pensante ed un pensiero poetante, allineandola, pur nella sua apparente carica nostalgica, carattere strutturale di ogni poesia dialettale che con la “lengua antica” rimpiange anche i mondi che per essa si espressero (facendo di ogni lagnoso versificatore un laudator temporis acti), alla più avanzata fase della poetica contemporanea addirittura avanguardistica nella quale l’ambito del “sentire con animo commosso” è chiamato sempre più a dilatarsi in quello del “riflettere con mente pura” (Vico), fino alla loro perfetta fusione.
L’inconscio neopaganesimo lirico del Peruzzi trova in un dialetto che è esso stesso un neo-dialetto, che nulla peraltro perde dei suoi suoni e della sua natura ma degli inattesi ne acquista, nuova originale espressione che l’attuale abitante di Vivaro avrà forse difficoltà in un primo momento ad intendere ma che ad una lettura approfondita gli si rivelerà piacevolissimamente familiare. “A lengua juarana” di Vittorio è quella di un “collenarese” (abitante della zona alta di Collenaru – come in ogni luogo anche a Vivaro è sempre esistito ed esiste quello che chiamano “dialetto sociologico”, cioè variante, nel vocabolario e nella cadenza, a seconda della zona, dello stato sociale, dell’attività esercitata) ma per taluni aspetti più comprensibile per un “palaterrano” vissuto al riparo dai venti e dalle tramontane soprattutto metaforiche che spazzarono la “Pischèra” ed i luoghi ad essa contigui. Palaterra, abitata in passato per lo più da contadini butteri e pastori, per natura e cultura i più prossimi a cogliere l’afflato divino che dalle zolle le pietre i fossi le selve spira, e depositari del più stretto dialetto, (quello in cui, tra una colta e dotta “vittorizzazione” e l’altra questa raccolta è scritta) potrà più di Collenaru godere delle ri-evocazioni del Peruzzi e vedere con lui, e panicamente farsi, i luoghi, pressoché tutti evocati, e le persone, pressoché in ogni loro tipologia, fisica e psicologica, con somma precisione individuate e fissate. Ma tutti, collenaresi e palaterrani, vedranno luoghi e persone animarsi, ripercorreranno antichi tratturi, carrarecce, mulattiere risuonanti di belati o muggiti e delle voci or carezzevoli or minacciose or sacranti dei loro pastori, saranno presi alla gola dalla nostalgia assassina. A tutti sulluzzerà u còre a revee’ u Juaru, sobbalzerà il cuore al riveder Vivaro, e si dilaterà l’anima nella contemplazione ‘ella Villina innevata, dell’Altipiano e dell’alta chiostra che gli fa corona, tutti la magia possederà di una Juna ‘nnamorata (il sonetto che la riguarda è di una bellezza e forza tali che al confronto davvero … impallidiscono tutte le lune della letteratura, ivi compresa quella di un pastore errante per l’Asia). Il sonetto non è l’unica forma in cui si esprime il Poeta, certamente la cornice più adatta a contenere l’impressionistico quadro che è per lo più la versificazione del sentire e dell’ esprimersi dialettale. Si incontrano ritmi quinari in cui mo’ di filastrocca si autocullano le emozioni, lunghe liriche di endecasillabi e settenari sciolti, con rima ad libitum e più di una volta interna, d’argomento per lo più memorialistico dagli accenti epici cui le immagini si adeguano assumendo forma e sensi di somma icasticità (U sole s’aza e careca a jumera / ‘e cataste e puticci que a migliora / recomposte so’ a ‘n puzzu ‘e carecara, sorge il sole e carica la sua luce di quella di miriadi di scopigli ardenti accatastati nel pozzo di una fornace), o bucolici che alla discesa delle mucche all’abbeveratoio stimolate dal vaccarégliu che le fua e le bràa de reto (le stimola e pungola di dietro) ed al loro ritorno al pascolo conferiscono quel tanto di solennità e di agreste sacralità che li magnifica in veri e propri riti, o descrittivi di luoghi che surrealisticamente, oniricamente, si trasformano in luoghi dell’anima, trapassano ad uno stato meta-fisico ove cielo e terra tenzonano (se palluttìanu) per poi ‘ncacchiarsi (possedersi quasi coitando) e nel loro seno cose ed animali accolgono, caldo vivente stazzo. E non mancano combinazioni di ritmi brevi ed originali, adatte per l’idillio, il lamento, l’epigramma, sia esso d’ironia, di sarcasmo o di vera e propria invettiva, in cui gli accenti e i rimandi cólti son più evidenti. Ogni luogo ogni evento ogni cosa ha in Sòle rànena e pennecchie la sua giusta collocazione e la sua adeguata veste metrica.
La liricità del Peruzzi sa espandersi nel componimento di vasto respiro o contrarsi nell’essenzialità di una sorta di aiku. È con uno di questi che a me piace concludere le mie divagazioni, poiché il più alto messaggio mi appare che intenda il Poeta confidare al lettore nel suo congedarsi: Ràcama ‘u cantu / ju fionna a gliu véntu / scia allegru e tantu! Ricama il canto / lancialo al vento / e sia allegro e pieno! (Giulio Sforza)