UN’ETIMOLOGIA DEL NOME TIBUR (TIVOLI)
di Luigi Battisti
La prima considerazione che si presenta cercando l’etimologia di il nome Tibur è la somiglianza che esso ha con l’antico nome del fiume Tiber, in cui confluisce l’Aniene alle porte di Roma. La risposta dei filologi che tale somiglianza è fuorviante perché la parola Tiber ha la i breve, mentre Tibur ha la i lunga, non ha consistenza storica. Infatti se il rapporto fra i due nomi ci fu, certamente è all’origine della toponomastica della zona e affonda le sue ragioni nelle lingue e strutture mentali di popolazioni preistoriche che avevano tutt’altra concezione linguistica degli scrittori latini classici che hanno tramandato la differenza di lunghezza delle due i.
Che la differenza sia poco percepita dai parlanti la lingua latina ancora in epoca alto medioevale può essere arguita dal seguente passo tratto dagli annali di Romualdo (M.G.H. XIX, 410 Romoaldi Annales a. 1082 cit. da V. Pacifici [1], pg.272, nota) dove si legge: “Dux Robertus …hostes eius ab urbe propulit ac civitatem Tiberin obsedit…”, dove Tiberin è accusativo di Tibur. Si arguisce che lo scrittore medioevale del brano non distingueva nettamente le parole Tiber e Tibur.
Un altro segnale di commistione tra le due parole Tiber-Tibur può trovarsi nel nome Teverone che si dava al basso corso dell’Aniene. Una tale confusione toponomastica dà l’idea che esistesse perlomeno una sensazione di sostanziale affinità fra l’area tiburtina e l’area tiberina nelle vicinanze di Roma.
L’origine comune delle due parole, se ci fu, è da mettere in stretta relazione con il carattere di abbondanza di acque del territorio. Il Pacifici nell’opera citata (pp 12 e seg.) riporta descrizioni di Tibur di vari scrittori classici che danno la sensazione che l’aspetto principale della città fosse la bellezza e l’amenità create dai corsi e giochi d’acque che l’attraversavano: “…cascatelle gaie saltellanti tra i rigogliosi frutteti…la grande cateratta dell’Aniene rombante nella sua ampia mole.”, (Orazio);
“L’Aniene presso la città di Tivoli precipita pieno da un alto scoglio…” (Dionigi d’Alicarnasso);
“(Tivoli) è celebre per quello spaventoso getto d’acqua che l’Aniene navigabile forma precipitando dall’alto scoglio nella convalle profonda…” (Strabone).
Similmente Tibur viene descritta da Properzio, Ovidio, Stazio, Pomponio Mela e da altri.
Se si considera che oltre per il fiume Aniene, Tibur era famosa per il corso delle acque albule e per i laghetti da cui provengono, presso i quali sorsero le terme romane, è chiaro che tale abbondanza di acque doveva essere l’aspetto predominante per popolazioni preistoriche sempre in cerca di pascoli e abbeveratoi. Questo aspetto poteva ben tradursi in qualche modo nella toponomastica. Ora non è un caso che vari fiumi in Europa e nell’Asia Minore cominciassero per la sillaba ti-, non solo Tiber. Nell’Italia romana troviamo il Ticinus e il Tifernus, in Europa centrale il Tibisco affluente del Danubio, mentre in Asia minore il famoso Tigri. La paroletta “ti” aveva il significato di “acqua” nella toponomastica dell’Europa pre-indoeuropea e dell’Asia minore, un esempio evidente è il nome del mare Tirreno. Ancora nel quinto secolo a.C. nel nome e nei suoi derivati gli autori greci usavano ancora la forma “tyrsen-” che mostra chiaramente che quella attuale è dovuta al rotacismo della s . Ora se si considera che gli etruschi chiamavano se stessi Rasenna, l’interpretazione del nome è chiaramente ti-rsen = acque degli Etruschi(2).
(1) In egiziano antico ity=acqua.
(2) (Dio. Alic.., I, 30), cit. in G.e L. Bonfante [2], pg 59.
Un altro esempio dell’antico nome ti per dire acque lo si trova nel poema babilonese “Enuma elish”. All’inizio dei tempi nulla esisteva tranne un Oceano indifferenziato; da questo caos liquido chiamato Tiamat emersero gli dei personali che combatterono e sconfissero la loro genitrice. Ora Tiamat è la traduzione accadica di una parola sumerica e il suo significato è ti-amat = acque salate (3) , contrapposto all’altra divinità delle acque Apsu, che rappresenta le acque dolci.
Ora se anche il binomio Tiber-Tibur fosse derivato da un’originaria allusione ad una regione ricca di acque con un riferimento ad un qualcosa che portasse il nome Iber oppure Ibur, anzi Ebur come si vedrà in seguito, occorrerebbe capire chi o cosa volesse significare questo nome.
A questo scopo torna utile ricordare la teoria sviluppata da Wilhelm von Humboldt (1767-1835), brillante filosofo e linguista tedesco, che propose un originale metodo d’indagine per rintracciare alcuni degli antichi abitanti d’Europa. Nell’introduzione alla sua opera “Prüfung der Untersuchungen über die Urbewohner Hispaniens vermittelst der Vaskischen Sprache“[3], indagine sui primitivi abitanti della Spagna mediante la lingua basca, egli sostenne che a tale proposito occorreva l’uso di lingue indigene che si fossero conservate in qualche parte dell’Europa occidentale fin dall’antichità. La sua attenzione si rivolse al Basco, da lui identificato come relitto dell’antica lingua degli Iberi, che egli introdusse all’attenzione dei filologi europei e studiò personalmente sul luogo. Secondo lui tale lingua fu usata per coniare i nomi geografici antichi in Spagna e altrove nell’Europa centro meridionale.
Per esempio i nomi delle località Asta, Asteguieta, Astigarraga, Astobiza, Astorga, Astulez, Asturie proverrebbero dal basco asta variante di aicha, aitza che significa roccia. Mentre da ili, iri, uri = città egli deriva l’antica Iria Flavia dei Lucensi ( Tolemeo, II 6 pg. 22), Urium dei Turduli (Plinio, I 136, 16 e Tol. II 4 pg. 39), Ulia in Baetica (Diodoro Cassio, XLIII 31). La nostra Urbino sarebbe da riconoscersi nella parola ura= acqua che assieme a
bi = due denoterebbe una “città tra due fiumi” (il Foglia e il Metauro), mentre gli Osci della Campania sono ricollegati alla radice basca eusk che ancora oggi i baschi usano per identificare se stessi (euskal dunak).
H. identificò innanzitutto i Baschi con gli antichi Iberi, tesi sostenuta fra gli altri da Hugo Schuchardt che nel 1907 analizzando le inscrizioni sulle monete iberiche poté ricostruire la declinazione iberica e mostrare le concordanze con quella basca. Quindi concluse che un tempo esisteva un singolo grande popolo iberico, parlante una lingua non indo-europea che abitava l’Europa meridionale dalla Spagna all’Italia con le grandi isole del mediterraneo occidentale, a volte in contrasto a volte in unione con l’altro grande popolo contemporaneo, i Celti. Con loro gli Iberi a volte si fusero formando i cosiddetti Celto-iberi, ma generalmente ne rimasero distinti.
A sostegno della teoria di H. c’è la diffusa somiglianza del tipo fisico rintracciabile nelle popolazioni dell’Europa occidentale del sud, nella comprovata esistenza fin da tempi neolitici di una razza, piccola di statura, dal cranio dolicocefalo, che seppelliva i morti in tombe, i cui resti si sono trovati diffusamente in Europa. Questa teoria di H. fin dall’inizio ha fatto discutere storici e filologi, oggi la posizione più accettata è che dare il nome di Iberi o mediterranei o pelasgici alle popolazioni preistoriche d’Europa è indifferente.
(3) Da questa parola probabilmente proviene il greco thalatta, di chiara origine non indoeuropea.
Tuttavia un fatto resta indiscutibile e basta leggere la mole di esempi che porta H. nel lavoro sopra citato, nonché sfogliare un atlante dettagliato d’Europa o leggere resoconti geografici di autori classici, c’è una vastità di toponimi riconducibili alla radice Iber, anzi per essere precisi a due radici, che possono considerarsi una variante dell’altra, Iber-Ebur . Per convincersene gioverà il seguente elenco:
in Spagna
il popolo degli Hiberi e il fiume Hiberus;
Aebura lungo la costa Baetica (Tol., T. Livius, Plin.),
Ripepora sempre in Baetica,
Eburobritium presso i Lusitani;
in Gallia
Eburobrica (Itin. Anton.),
Eburodunum (Itin. Anton.) sulla costa meridionale ,
Eburovices facenti parte del popolo degli Aulerci (Plin., 225, 7; De bello gallico, III,17) nel territorio dell’attuale Evreux (Normandia),
il nome Eporedirix (De bello g.,VII,62);
nelle Isole Britanniche
Eboracum or Eburacum (ora York),
le isole Hebrides;
Ibernia (Irlanda);
nell’ Europa centrale e orientale
il popolo degli Eburones (De bello g., II,4 et alii), Gallia belgica ;
Eburodunum(4), in Austria;
Eburum, in Pannonia(4);
Hebrus, fiume della Tracia;
in Italia
la città Eporedia (ora Ivrea) dei Salassi, un popolo celto-ligure prossimi ai Libici della Transpadania (T. Livius; Polibius II 17,3) ;
il popolo degli Eburini della città di Ebur (ora Eboli);
in Grecia
’/Ιβωρα nel mar del Ponto;
quindi per la variazione bu→ϕυ(5) si possiamo considerare le citt
’Eϕύρα antico nome di Corinto (Il. VI, 153, 210),
’Eϕύρα in Elis vicino al fiume Selleeis (Il. II 659; XV 531),
’Eϕύρα località della Thesprozia in Epiro (Od. I, 259; II, 328);
’/Εϕύρoι, popolo della Tessalia (Il. XIII, 301).
Una tale abbondanza di nomi geografici non può essere casuale. Potrebbe invece indicare un importante eponimo di popoli che vissero in Europa eccettuate le regioni nord-orientali i quali riconoscevano in esso una comune origine. La successiva invasione di popoli parlanti lingue indo-europee dissolse questa consapevolezza e oscurò il nome Ebur/Iber, ma il persistere di nomi che ne mantenevano la radice non può che dimostrarne l’ importanza anche in tempi storici.
(4) Mannerts, Geographie der Griecher und Römer, Nürnberg –Leipzig .
(5) Trombetti, [6] pg 155, per la concordanza dei termini geografici Ebur-’Εϕύρα .
Già la Bibbia conosce questo nome, nella Genesi si nomina tra coloro che ripopolarono la terra ‘Eber, antenato di Abraham ha-‘ibri (l’ebreo), del quale si dice: “Questa è la discendenza dei figli di Noè: Sem, Cam e Japhet…Anche a Sem, padre di tutti i figli di ‘Eber (kol-bne-‘Eber)…nacque una discendenza…A ‘Eber nacquero due figli : uno si chiamò Peleg…” (Gen. 10,1.21.25). “
L’espressione bne-‘Eber come bne-Israel (Is. 17,3), bne-‘Ammon (Is 11,14) ecc… indica un popolo con riferimento all’eponimo, ma il kol-bne-‘Eber del v. 10,21 suggerisce una pluralità di popoli, come se l’autore sacro fosse a conoscenza di una vasta diffusione di genti che facevano riferimento a ‘Eber.
Il nome Peleg figlio di ‘Eber del v. 10,25 spiegato con la glossa “perché ai suoi tempi fu divisa la terra…”, suppone che il nome provenga dal verbo falag, suddividersi, smembrarsi. Invece se si collega Peleg a Pelasgos citato dagli autori greci, il quadro d’insieme cambia drasticamente. Pelasgos secondo Pausania fu il primo uomo; egli generò i Pelasgi, venne dall’Arcadia e insegnò come costruire capanne, come nutrirsi di ghiande e a cucire tuniche di pelle suina come quelle ancora indossate dal popolo dell’ Eubea(6). Altrove Pelasgos è figlio di Foroneo che governò l’intero Peloponneso(7). Omero cita i Pelasgi di Creta (Od. XIX 178). Anche Erodoto conosce i Pelasgi e li descrive come gente che parlava una lingua non greca e che viveva nella città di Crestone (una costa vicino a Salonicco) (8). Pelasgos-Peleg sarebbe dunque il nome dei bne-‘Eber popolazione pre-greche il cui ricordo era ancora vivo in epoca classica.
I greci tramandano questo ricordo con un palese senso di disprezzo, come se si trattasse di gente rozza, di cui si è tentati di vedere popolazioni estremamente arretrate, ma ben si conosce il contegno dei greci verso i barbari. In realtà la colpa di queste popolazioni era sicuramente quella di essere genti che praticavano una qualche forma di nomadismo, per cui non avevano sviluppato quelle istituzioni e quegli stili di vita che aveva inventato la polis e nei loro riguardi un greco non poteva che provare la stessa sensazione del cittadino di una grande città che si trovi a contatto con gli abitanti di un piccolo borgo rurale.
Anche i nomadi però hanno le proprie istituzioni e la loro Weltanshauung e un interessante aiuto alla conoscenza di quella degli Iberi ci viene indirettamente proprio dalla Spagna.
Nel tredicesimo secolo fu re di Castiglia e di León, Alfonso X detto “el Sabio” (Toledo 1221-Sivilla 1284), uno dei principi più illuminati dell’epoca, animatore del risveglio del movimento intellettuale spagnolo. Egli promosse una raccolta di storie e tradizioni spagnole che condussero alla pubblicazione dell’opera “Crònica general”[5]. La cosa più interessante di questo lavoro storico in spagnolo medioevale è l’importanza che si dà alla figura di Ercole. Nel paragrafo 3 si parla di come l’Europa fu popolata dai figli di Jafet, l’insieme dei popoli a cui viene associato il racconto biblico è molto fantasioso, ad esempio gli spagnoli vengono detti provenire dal quinto figlio di Jafet, Thubal, da cui per varie associazioni deriverebbe il nome dei Celtiberi. Aldilà però delle interpretazioni e invenzioni tipicamente medioevali, colpisce il riferimento ad Ercole come colui che dà il nome alla Lusitania “Otra tierra y ouo que llamaron Luzenna…algunos cuentan que este nombre ouo por trebeios que mando y fazer Hercules quando ouo uencido a Gerion” , un’altra terra ci fu che chiamarono
(6) Pausania VIII 1,2 cit. in [7],1d .
(7) Igino Fabulae 143 e 274; Apollodoro II 1,1; Pausania I 39,4-6; II 15,5; IV 40,5 cit. in [7],57a .
(8) Erodoto, Historiae I 57,1 .
Lusitania…alcuni narrano che ebbe questo nome a causa delle fatiche che dovette compiere Ercole dopo aver vinto Gerione.
A tutti è noto il racconto della decima fatica di Ercole quando dovette impossessarsi in Erizia, un’isola presso il fiume Oceano, del bestiame di Gerione re di Tartesso in Spagna. La leggenda dice come Ercole nel suo viaggio attraverso l’Europa uccidesse molte belve feroci e giunto a Tartesso, eresse un paio di colonne, sulle due rive dello stretto. Certo la leggenda doveva avere la sua importanza se, dopo che Tartesso scomparve nel V secolo, forse ad opera dei Cartaginesi, che fondarono nelle sue vicinanze Cadice, in questa nuova città fu dedicato un tempio ad Ercole. Ma la “Crònica general” va avanti e narra di come ci fossero stati ben tre Ercoli nella storia “tres Hercules ouo que fueron muy connombrados por el mundo…”, il primo si ebbe al tempo di Mosé , ma nacque prima di lui “e fue de tierra de Grecia a la parte que es contra Persia”. Quindi si ebbe un secondo Ercole che fu soprannominato Sanao e infine il terzo e più importante che operò le grandi imprese di cui tutto il mondo parla, e visse al tempo del giudice Gedeone:”en tempo deste Gedeon fue Hercules, aquel que fizo muchas marauillas por el mundo e sennaladamientre en Espanna…”, nel tempo di questo Gedeone ci fu Ercole, che fece molte meraviglie per il mondo e in special modo in Spagna. Fondò Cadice, passando dall’Africa in Spagna, fece una torre molto grande e vi pose un’immagine di rame rivolta ad oriente che teneva nella mano destra una grande chiave nell’atto di aprire una porta, mentre la mano sinistra stava alzata e tesa verso oriente e c’era scritto sulla palma: questi sono i confini di Ercole. Poi Ercole salpò e arrivò al luogo dov’è ora Siviglia, e chiese all’indovino Allas se poteva fondarvi una città, ma quegli disse che un altro (Giulio Cesare) l’avrebbe fondata e sarebbe stata grande.
In seguito l’eroe ebbe piacere di vedere tutta la terra chiamata Esperia, così risalì la costa e giunse dov’è oggi Lisbona, quindi fu richiesto dalla popolazione angariata dal re Gerione, che venisse in loro soccorso: “cuando sopieron que Hercules uinie, enuiaron le dezir,…que el accorresse a ellos, e que darien toda la tierra.” Quando seppero che Ercole veniva, gli mandarono a dire…che accorresse in loro aiuto, e che gli avrebbero dato tutta la terra.
Allora Ercole sfidò il re Gerione e l’uccise tagliandogli la testa, che pose sotto le fondamenta di una torre, per simboleggiare che la città che sorgerà su quel luogo sarà capitale di tutto il regno.
Fin qui la “Crònica general”, ascoltiamo invece quanto riferisce su questa leggenda Apollodoro(9):”[Ercole] arrivò a Eriteia e si sistemò sul monte Abante. Il cane Ortro lo scorse e si avventó contro di lui, che lo colpì con la sua clava. Quando il pastore Eurizione venne a salvare il cane, Ercole uccise anche lui. Un altro pastore chiamato Menete che pascolava il gregge di Ade in quel luogo, raccontò a Gerione l’accaduto. Gerione sorprese Ercole nelle vicinanze del fiume Antemo, nel preciso momento in cui prendeva il gregge. Ercole lottò con lui e lo uccise.”
Gli elementi fusi in questa storia sono molti, alcuni pur se fantasiosi possono ricondursi a fatti reali e identificabili, ad esempio la torre di Ercole. A La Coruña esiste un monumento molto antico conosciuto come la torre di Ercole. Si tratta di un faro certamente di epoca romana (c. II d.C.) la cui origene potrebbe risalire ai tempi in cui c’era un porto scalo per il commercio tartesio (c. X-V a. C.) con le remote regioni della Bretagna francese, l’Irlanda e l’Inghilterra. A la Coruña esso era conosciuto durante l’epoca romana con il nome di Farum o Farum Brigantium. Le colonne di Ercole invece, certo un riferimento mitico ai promontori di Ceuta e di Gibilterra detti in spagnolo “el monte Calpe” e “la roca de Abila”, hanno un
(9) Apollodoro II 5,10, cit. in [7] 132a.
evidente riferimento ai limiti del mondo. E’ chiaro che oltre quei confini non poteva che esserci il regno dell’aldilà, per questo Ercole nella sua avventura viene scorto e denunciato dal pastore del gregge di Ade. L’impresa di Ercole è una sfida ai confini del mondo tenebroso e in quanto tale ha un’affinità profonda col viaggio di Gilgamesh fino all’isola funebre al di là del Mare della Morte raccontata nella XI tavoletta (10).
Però una cosa rimane oscura, una tale leggenda poteva avere senso per un greco, che vedeva nella Spagna e in particolare nell’Andalusia il limite del mondo conosciuto e conoscibile, ma doveva lasciare completamente indifferente chi quelle terre abitava e non vi scorgeva né una fine né alcunché di tenebroso. Invece il culto di Ercole è talmente radicato nella zona che oltre alla torre di Ercole a La Coruña, al tempio di Ercole a Cadice, troviamo a Siviglia due colonne di marmo situate nell’Alameda de Hércules, provenienti da un tempio romano del secondo secolo a.C. localizzato nella via Mármoles, dove ancora ci sono i resti di questo tempio, monumento più antico della città. La Crònica General, ampiamente riportata, testimonia come l’importanza di tale personaggio per la storia spagnola fosse considerata ancora ne XIII° secolo.
Noi ci chiediamo perché un iberico doveva trovare interessante un eroe di una cultura lontana da sé, che viene nella sua terra per un’impresa che nei suoi termini simbolici rappresenta tale terra come il confine del mondo e l’inizio del regno della morte?
Le cose si spiegano meglio se proviamo a leggere in un altro modo la storia, a considerare Ercole, almeno quello della decima impresa, se non pure quello dell’undicesima, la conquista dei pomi delle Esperidi, come un eroe più antico, assimilato per l’importanza che aveva e per la profondità della simbologia all’eroe classico. Se guardiamo le cose da questo punto di vista, si capisce perché l’Ercole classico dopo avere soppiantato l’eroe più antico, ne abbia assorbito la centralità. L’eroe originale doveva avere le caratteristiche dell’eponimo di genti nomadi, dedite alla pastorizia, che s’identificano con un personaggio forte e coraggioso come deve essere un pastore che migrando incontra di tutto e deve affrontare ogni situazione con energia e decisione. Questo eroe vagabondo ha un qualche legame con il mondo dell’aldilà e così continua quelle tradizioni preistoriche che sono alla base della cultura del megalitico, il culto delle pietre testimoniato dai numerosi dolmen e menhir diffusi per tutta l’Europa e che secondo alcuni studiosi ha origine proprio nella penisola iberica. Ecco cosa dice a proposito il professor D. J. Wölfel ([8] pag. 200):”..ci fu una religione dei megalitici, quantunque con i pochi frammenti dell’archeologia si possa dimostrare poco più che l’unitarietà delle esigenze religiose diffuse su tutta l’Europa occidentale e, mediante l’architettura e le offerte sepolcrali, nonostante alcune deviazioni, l’unitarietà delle soluzioni con cui quelle esigenze vennero soddisfatte…il fatto che i morti vengono immessi nell’orbita dei vivi e che mantengono la loro importanza per i vivi, e che questi cercano di catturarsene la benevolenza per mezzo di sacrifici e di cerimonie di culto…” .
Il culto dei morti che soggiace ai dolmen e ai menhir, è rimasto anonimo, dacché l’aspetto essenziale della cultura megalitica, per rimanere solo nella penisola iberica, è che “…non si trova alcuna immagine di culto…non menzionano nessuna figura di divinità indigena…Ciò si accorda con la notizia dataci da Strabone…che i Celtiberi veneravano «un dio senza nome»…” [8] pag. 180 . Se però si associa l’eroe vagabondo, le cui avventure i Greci assorbirono nel ciclo di Ercole, alla cultura megalitica, allora ci deve essere una traccia nella toponomastica dei luoghi in cui abbondano le costruzioni di pietra che ci possa restituire
(10) vedi [7] 132, nota 1 .
almeno il nome di tale personaggio. Ora una delle aree dove si trova gran copia di dolmen e menhir è il dipartimento di Eure in Normandia, il cui capoluogo è Évreux . Questa cittadina è rimasta famosa perché Giulio Cesare nel “De bello gallico” ne descrive gli abitanti di allora come appartenenti ad una delle tribù degli Aulerci, quella degli Eburovici, da cui essa ha derivato il proprio nome. Ora è abbastanza evidente che Eburovici in latino vuol dire quelli che abitano il vicus(11) di Ebur, dando per inteso che tale riferimento è chiaro e significativo. Che cosa poteva dare all’area il nome di vicus di Ebur se non l’abbondanza di monumenti megalitici che vi si trovano, e chi poteva essere venerato fra quelle pietre se non l’eponimo della cultura che esse rappresentavano (12)?
In Grecia appena arrivati in Epiro sbarcando ad Igoumenitsa, percorrendo un centinaio di chilometri verso Prèveza, si arriva ad una collina vicino al villaggio di Messopòtamo in cima alla quale c’è il Nekromanteion, un santuario composto da una serie di gallerie e di camere ipogee, esistente fin da epoca micenea. Qui venne Ulisse ad interrogare l’ombra di Tiresia, per conoscere le vicissitudini che lo attendevano lungo il viaggio di ritorno ad Itaca. Ulisse fece sgozzare alcune pecore e versò il sangue in una fossa perché l’ombra dell’indovino potesse berne e quindi vaticinare. Questo rituale doveva essere antichissimo, i greci e forse prima di loro popolazioni pregreche vennero ad interrogare i morti in questa località, che allora si chiamava ’Eϕύρα che come detto sopra è l’equivalente greco di Ebur. La vallata sottostante si chiama Acherousia, era una zona paludosa, oggi bonificata, da cui promanavano vapori infernali, oltre i quali si apre il corso del fiume Acheronte. Acque gelidissime sono quelle del fiume, che scaturisce da grotte inaccessibili o sgorga da anfratti fra le rocce, ma ancora oggi i greci vengono qui a fare il bagno in queste acque potabili e a riposare sotto i salici e i pioppi. Oggi il turista fatica ad immaginare qualcosa d’infernale in questo piccolo paradiso dell’Epiro, niente può giustificare proprio lì l’ingresso al mondo dei morti e guardandosi attorno le impressioni sono tutt’altro che tenebrose .
Una spiegazione che può proporsi per interpretare questa contraddizione è che ci fosse anticamente un rituale associato al nome Ebur, un rituale di vicinanza con il regno dei morti che prevedeva tre condizioni:
un fiume che scorre fra grotte inaccessibili e suggestive;
una collina ricca di grotte ramificate dove poter collocare un santuario per la divinazione;
un’ ampia valle ricca di acque e di verde dove migliaia di capi di bestiame potessero abbeverarsi.
Immaginiamo il raduno dei pastori nomadi accampati con migliaia di capi di bestiame, un grande festival, dedicato a Ebur, a cui si offrivano sacrifici di bestiame, il cui sangue veniva versato in fosse scavate nella collina sovrastante. Attorno alle fosse indovini simili ai celtici druidi interrogavano i morti in una Weltanschauung che prevedeva la perenne vicinanza dei morti con i vivi e che considerava con esaltazione l’occasione in cui si poteva palesare
(11) la parola vicus come il greco (w)oikos, il russo –vic che ormai è divenuto il suffisso del patronimico, oltre ai corrispondenti iranico e indiano, derivano da un antichissimo uso indo-europeo per la classificazione dell’appartenenza sociale (cfr. [9] pag. 227).
(12) Il nome Ebur latinizzato è importante e diffuso nel mondo celtico, in Irlanda al tempo di Santa Brigida troviamo un vescovo Eburius e ancora il vescovo Eborius di Eburacum (York) partecipante al concilio di Arles del 314. (da Acta Sanctorum Hiberniae, Edimburgo 1888, cit. in Cambridge, “Storia del mondo medievale, vol II, pag.315 , alla stessa pagina anche il secondo vescovo).
questa immanenza dell’aldilà. Niente di tenebroso nell’Acheronte quindi, come in effetti si sperimenta anche oggi, ma il ricordo di rituali il cui significato era andato perso nella Grecia classica.
Anche Ti-Ebur aveva le tre caratteristiche sopra elencate, come è noto a chi abbia mai visitato l’attuale Villa Gregoriana. Il fiume scendeva tumultuando fra i dirupi scavati nella pietra di marna calcarea; le grotte di Nettuno e della Sibilla, la valle degli inferi, nonché i cunicoli sotterranei che si ramificano sotto l’Acropoli fornivano gli ambienti suggestivi di cui abbisognava il culto di Ebur. La divinazione doveva svolgersi probabilmente nella stessa area dove sorgerà il culto della Sibilla, che ne immortalò la tradizione in epoca classica. Infine tutto il fondovalle dell’Aniene era ricco di acque e di pascoli per consentire il raduno dei pastori bne-‘Eber nei giorni del grande festival.
L’area dell’acropoli era considerata sacra, come registra la presenza dei due templi, rotondo e rettangolare di cui a detta del prof. C.F. Giuliani è ancora dubbia l’attribuzione. ”Essi di volta in volta sono stati assegnati senza alcuna ragione alla Sibilla Albunea, a Tiburno, a Vesta…Il Cluverius riferisce che alcuni vi vedevano il tempio di Ercole…”([10] pag. 122). Nelle vicinanze dei templi si trovava l’area sacra di Vesta attraversata dal diverticolo che era una via alternativa per il tempio d’Ercole. Questo tempio fu costruito nel I secolo e tanta celebrità dette alla città per tutto l’impero, il Pacifici [1] pag. 40 scrive che Giovenale lo citò come termine di irraggiungibile bellezza. Il tempio fu costruito sicuramente su un recinto sacro più antico dedicato ad una divinità anteriore a Ercole, i cui resti sono ancora da scavare nell’area adiacente al teatro. Più in basso c’è la località detta Acquoria dove nel 1925 si rinvennero alcuni oggetti votivi provenienti da una ricca stipe riferibile ad un locale santuario arcaico ([11] pag 113) . Si può perciò assegnare anche l’area della nostra città e tutto il fondovalle al culto dell’eroe e al corrispondente festival di quegli antichi pastori che la Bibbia chiamava bne-‘Eber.
In questa prospettiva non solo la nostra città, ma tutta l’area dell’Aniene che scende a Roma doveva essere dedicata a Ebur e portarne necessariamente il nome. La variante Iber che si riscontra in Tiber, doveva dipendere da funzioni grammaticali. Il grande filologo Trombetti nelle conclusioni del lavoro già citato, sostiene che la lingua degli antichi Iberi, di cui il basco è l’attuale erede, era imparentata con le lingue caucasiche e camitosemitiche ([6] pag. 151-156). Possiamo quindi riferire l’origine di questa parola alla radice semito-camitica ‘abar =passare (ebraico) o afar =esser libero, vagare (voce dànkali) che designa chiaramente l’azione del pastore. Siccome in queste lingue nella coniugazione verbale si mutano le vocali tematiche, la variante Iber/Ebur che si registra dovunque in Europa occidentale potrebbe trarre la sua origine da una ragione grammaticale che ci sfugge. Più tardi popoli parlanti lingue indo-europee irruppero in occidente ed Ercole sostituì Ebur , il festival in suo nome scomparve lasciando solo una traccia incomprensibile nella toponomastica.
Dell’incontro tra questi diversi popoli d’Europa un’informazione ci rimane su come quelli del nord di carnagione chiara, considerassero le genti che stiamo trattando.
I romani adottarono l’aggettivo maurus per designare dal loro nome il colore della pelle dei berberi del nord-Africa e ugualmente avvenne per niger a causa degli abitanti da loro conosciuti dell’Africa subsahariana.
Così devono aver fatto gli invasori dei territori abitati dai nostri bne-‘Eber. La parola russa buryj=bruno è imparentata alla radice germanica occidentale *bero = “animale bruno” , infatti provengono dalla radice indo-europea *bheros=bruno che dette origine a entrambe [12] . Questo aggettivo poté ben essere derivato dal nome Ebur e assunto a definire il colore della pelle degli abitanti che s’identificavano con tale eponimo.
BIBLIOGRAFIA
[1] V. Pacifici , “Tivoli nel Medioevo”.
[2] G.e L. Bonfante, La lingua etrusca. Un’introduzione, Manch.1983 .
[3] W. Humboldt, Prüfung der Untersuchungen über die Urbewohner Hispaniens vermittels der Vaskischen Sprachen, in W. V. H.s gesammelte Schriften (Preuss. Ak. D. Wiss.), Berlin 1903.
[5] Alfonso el Sabio, Crónica General, ed. by Ramón Menéndez Pidal, Primera Crónica General, 1906.
[6] Trombetti, Le origini della lingua basca
[7] R. Graves, I miti greci.
[8] “Cristo e le religioni nel mondo”, Storia comparata delle religioni, a cura del Card. Prof. F. König, ed. Marietti 1962, le citazioni fanno riferimento alla sezione “Le religioni dell’Europa pre-indoeuropea” del prof. D.J. Wölfel.
[9] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, ed. Einaudi 1976.
[10] C.F. Giuliani, “Forma Italiae, Tibur, pars prima”, Unione accademica nazionale, Roma 1970.
[11] Z. Mari, Forma Italiae, Tibur, pars quarta”, Università “La Sapienza”, CNR, Unione accademica nazionale, Roma 1991.
[12] J. Ayto, Dictionary of word origin, Arcade Publishing Inc., New York 1991.