L’ORGANETTO E PALLANGÚLU A PESCOROCCHIANO
di Ivo Di Matteo
Credo si possa sostenere tranquillamente che l’organetto discenda dalla zampogna. Infatti è un aerofono, ha un contenitore per l’aria trattenuta da una valvola ed il suono è generato dalla vibrazione dell’ancia al passaggio dell’aria.
Dalla prima metà dell’Ottocento, per circa cento anni, in tutta Europa si è vissuto il fermento dello strumento aerofono. Il primo documento che si conosce sembra fosse il brevetto austriaco del 1829 per uno strumento in grado di suonare fino a quattro accordi, che guarda caso fu chiamato “Accordeon”. Qualche anno dopo a Londra, un costruttore di strumenti musicali, ottenne il brevetto per uno strumento che emetteva suoni singoli, nasceva la “Concertina”; qualcun’altro costruì l’Harmoniette, quindi l’Harminflute e così via.
L’Organetto , il jue-box dei nostri nonni.
Per quanto riguarda l’Italia, le prime notizie che si hanno sono legate ad una leggenda. Si racconta che nel 1863 un contadino di Castelfidardo, in provincia di Ancona, certo Antonio Soprani, desse ospitalità ad un pellegrino austriaco che tornava dal Santuario della Madonna di Loreto, il quale portava con sé uno strano strumento musicale fino ad allora mai visto.
Paolo, il figlio di Antonio, incuriosito dall’oggetto, durante la notte, mentre il viandante dormiva, lo smontò, lo studiò nei particolari e prese appunti perché aveva deciso di costruirne uno anch’egli.
Sfruttando il suo innato ingegno, Paolo un ragazzo di circa venti anni, iniziò ad impegnarsi alla realizzazione del nuovo strumento, così, modificando la meccanica, integrando o togliendo congegni, aumentando ance, in meno di un anno realizzò il suo primo organetto.
Fu un successo, l’interesse per questo strumento fu subito grande perché non richiedeva conoscenze musicali né particolari studi e risultava abbastanza facile il suo apprendimento. Il crescente entusiasmo dilagò in breve in tutta l’Italia contadina e gli organetti diventarono i protagonisti delle feste, una specie di jue-box. Non c’era festa patronale, fiera, serata estiva o matrimonio che non venisse allietata dal suono dell’organetto.
Le richieste di questo strumento musicale erano talmente tante che indussero Paolo ad intensificarne la costruzione e con l’aiuto del fratello Settimio lavorarono alacremente nella cantina paterna trasformata in laboratorio. Dopo pochi anni si dovettero trasferire in un casolare vicino dove assunsero anche del personale dando così il via ad una vera e propria fabbrica di organetti.
La richiesta continuava ad aumentare e ben presto sorsero molte altre fabbriche e non solo nelle Marche (dove ancora oggi ce ne sono tante e molto quotate), ma anche in Piemonte, in Lombardia, in Abruzzo, in Calabria sono state tutte molto attive fino a dopo la seconda guerra mondiale. Per molte di queste, negli anni Sessanta, anziché il boom economico iniziò il declino.
Dalle esigenze dei committenti, sempre più attenti e sofisticati, e dalla genialità dei costruttori, sempre più raffinati, scaturivano strumenti diatonici, semidiatonici, cromatici; alcuni costruttori elaboravano lo strumento fino al punto di sconvolgerlo, inventandone di nuovi, come: il Symphonium, il Bandoneon, la Phisarmonike, da cui il nome italiano di fisarmonica.
Molti strumenti hanno avuto successi effimeri o destinati solo a pochi estimatori, altri, come l’organetto in Italia e nell’Europa centrale, il bandoneon in America, la concertina nei paesi Anglosassoni e la fisarmonica nel mondo, ancora oggi hanno molti acquirenti.
L’ultimo suonatore di organetto a Pescorocchiano
Purtroppo è deceduto una quindicina di anni fa. Me lo ricordo poco Berardo De Luca, conosciuto in paese esclusivamente col soprannome di Pallangúlu, chissà perché.
Fui invitato a Pescorocchiano da alcuni parenti che festeggiavano non ricordo quale ricorrenza, e per l’occasione avevano anche “missu u ballu”. Ad animare la festa c’era Pallangúlu con il suo organetto a “ddu botte”, tipico organetto abruzzese a due bassi che, a dire il vero, era ridotto abbastanza male. Funzionava ancora con qualche toppa al mantice ed un paio di bottoni da giacca in sostituzione dei tasti perduti e il suono che ne usciva era gradevole ed accattivante. Saltarelli, mazurche e polche riscuotevano grande successo a giudicare dalle persone che ballavano.
Mi interessava parlare con Berardo; per rompere il ghiaccio gli chiesi in che tonalità stesse suonando. Pronto mi rispose: – A mì me pare quella giusta e po’ sse cóse io non le saccio. A mì basta che me ha n’ atru picchieru ‘ e vinu e te resòno pure meglio dde prima. Giustamente, cosa poteva sapere di tonalità se aveva imparato a suonare da solo mentre custodiva il gregge al pascolo?
Pallangúlu era l’amico di tutti e a chiunque andasse a chiedergli di suonare, non gli rifiutava mai la suonata. Per quella sera lo lasciai in pace rimanendo ad ascoltarlo, ma lo incontrai di nuovo successivamente e mi raccontò molti aneddoti della sua vita privata, di quando andava a vangare ai Castelli Romani o in Sabina per la raccolta delle olive e altri ancora legati sopratutto alla sua capacità di suonare che spesso gli consentiva di andare a giornata non per faticare ma per allietare e spronare al lavoro i mietitori. Questi lavoravano cantando e col suono del suo organetto si scambiavano stornelli del tipo:
“O metetore della Pelarina
famme rappianà ‘na barzarola
che io te manno ghijò ‘na legarina”.
A Pescorocchiano, la sera al ritorno dai campi si ballava per ore al suono dell’organetto di Pallangúlu.