IL COSTUME FEMMINILE DI MONTECELIO E LE VUNNÈLLE

IL COSTUME FEMMINILE DI MONTECELIO
E LE VUNNÈLLE

di Maria Sperandio

Nel  numero precedente di Aequa ci siamo occupati principalmente di illustrare i contenuti di alcuni interessantissimi documenti o assegna di dote di fine Ottocento fatti per le spose Ermina Cardoni e Giuditta Cerqua. Nell’articolo che segue, essi verranno ancora più volte citati e per confermare quanto ascoltato dai racconti orali sui costumi tradizionali e per riscontrare elementi che sono stati alla base del successo delle Vunnèlle. A Montecelio, infatti, il costume tradizionale era ancora indossato da poche anziane fino ai primi anni Sessanta del XX secolo.

L’abito usuale
L’abbigliamento quotidiano della donna monticellese era costituito da cinque capi di vestiario fondamentali: corpetto o camiciola, sottanile (vèsta, vunnèlla), busto (vustu), scialle per le spalle (corvatta, fasciaturu), grembiale (zinale o parannanzi), cui si univa all’occorrenza un fazzoletto da testa (fazzolittu ‘n capu). Il corpetto o camiciola era indossato sopra la camicia; aveva maniche lunghe con la cucitura che partiva dalla spalla e il polsino poteva essere ornato di merletti e chiuso da bottoncini di vetro o madreperla. Sul davanti i due lembi si sovrapponevano leggermente senza allacciatura. I corpetti invernali erano realizzati in panno o in vari tipi di trapuntino, fustagno operato molto diffuso nell’Ottocento. Le nostre spose ne portarono in dote da 6 a 8. Il sottanile (o vesta) era di cotone o di lana a seconda della stagione, pieghettato in vita (’ncotinatu), in genere di tessuto scuro con piccoli motivi floreali o geometrici, ma anche chiaro o bianco, come quello attestato nel corredo del 1899.
Anche se le donne sposate vestivano per lo più di scuro o comunque in modo sobrio ed austero, per andare a messa durante l’estate amavano indossare i panni da sottanili bianchi: corpetto bianco o chiaro a righine, corvatta a quadri e parannanzi bianca ricamata. Le più agiate aggiungevano al costume tradizionale qualche nota di ricercatezza (grembiale a disegni vivaci, corpetto di tessuto fine). Il busto (vustu), provvisto di spalline (spallarecce), sosteneva, oltre alla schiena, anche il seno, essendo sconosciuto l’uso del reggipetto; veniva indossato sopra la camiciola e allacciato sul retro con stringhe passanti attraverso occhielli disposti in fila sui due lati. Quello usato quotidianamente era formato da due pezzi che si allacciavano sul davanti per maggiore praticità. La struttura interna era costituita da fascetti di saggina cuciti secondo una disposizione a spina di pesce su robusta tela di canapa. Due fianchitti (rotolini di cotonina imbottiti) applicati in vita davano sostegno alle pesanti gonne. Le nostre spose ne avevano a disposizione una dozzina, alcuni dei quali, rivestiti di stoffe più robuste, erano indossati quotidianamente.
Il documento più antico, quello di Erminia Cardoni, menziona 14 fazzoletti per le spalle, 3 di lana, gli altri con merletti e ricami; quelli della sposa del 1899, Giuditta Cerqua, erano 8, fra cui 5 di lana (1). La tradizione orale ci ha consegnato il nome dello scialle triangolare da spalle indossato nella vita quotidiana, la corvatta. In paese se ne conservano alcuni esemplari del primo Novecento usati con l’abito della festa: di seta bianca con ricami intessuti e frangia, o di lanetta impreziositi da ricchi fregi floreali. Durante l’inverno le donne si coprivano con un ampio scialle di lana rettangolare, u fasciaturu, l’equivalente femminile della “mantella” (cappa) riservata agli uomini. Anche il grembiale (u zinale, ‘a parannanzi), caratteristica immancabile del costume popolare, si presenta a Montecelio in varie versioni, da quello di tutti giorni, in cotonina (pricol, percalle) stampata in vari colori, a quello di mussola bianca che accompagnava l’abito chiaro della festa.
Molto belle le parannanzi di cotone bianco decorate a punto pieno e ad intaglio, come si usava nell’Ottocento, spesso con bordi ad uncinetto (2). Le ragazze da marito le ricamavano alla scuola delle maestre, le Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue, in cui si avvicendarono per più di un secolo nutrite schiere di fanciulle impegnate a prepararsi il corredo. Nei documenti di assegna esaminati, le spose in questione ne portarono in dote una ventina, la maggior parte dei quali di cotone o percalle; il tipo bianco ricamato, infatti, è presente solo nell’elenco più recente.
Quando andavano in chiesa per le solite funzioni le donne usavano coprirsi il capo con un fazzolettino piegato a metà, di maglia fissa (tulle), ricamato e ornato di merletto, o di tela bianca ricamato a punto asola, spesso con le iniziali della proprietaria.

L’abito della festa
L’abito di gala o vunnèlla costituisce per Montecelio l’eredità del passato più conosciuta all’esterno. La vunnèlla non era un semplice abito festivo, ma quello indossato il giorno delle nozze e poi in tutte le ricorrenze più solenni della vita sociale e familiare. Nella ristretta società paesana esso emergeva come tangibile simbolo dello stato sociale in cui la famiglia si collocava e ancora oggi i capi più antichi e belli sono riconosciuti da tutti come segno distintivo di una floridezza storicamente acquisita.
Nella sua versione più antica la vunnèlla era formata dagli stessi capi che si portavano quotidianamente, con modifiche che interessavano il tipo di tessuto e la presenza di ricami e acconciature particolarmente curati e di pregio. Il capo più importante, che oggi dà il nome all’intero abito e a chi lo indossa, era, dunque, la vunnèlla, designata in entrambi i documenti, esaminati nel numero precedente di Aequa, come vèsta di seta; quello più antico ci fa sapere che Erminia ne possedeva una color di rosa. Il tessuto, per lo più seta variopinta o broccato intessuto con fili d’oro e d’argento, era confezionato a piegoline come il sottanile. La ricca gonna era portata sopra tre vèste bianche dall’orlo ricamato, e sorretta dal busto quasi sempre foderato della stessa stoffa e arricchito sul davanti da passamanerie dorate. Sul davanti si legava la parannanzi di maglia fissa, ricamata in bianco e smerlata tutt’intorno, la cui ricchezza era messa in rilievo dai colori vivaci della vunnèlla.
Nei mesi estivi si indossava un corpetto di stoffa bianca (trapuntino o picchè), in inverno la camiciola rossa di scarlatto, menzionata nella lista più antica, quella di Erminia. L’indumento era di panno rosso  rifinito con sottile passamaneria dorata intorno al collo e con applicazioni più vistose lungo gli spacchi delle maniche (FOTO 2, 3). La scollatura lasciata in vista dalla camiciola, priva di allacciatura sul davanti, era coperta dalla pettina, un piccolo quadrato di stoffa bianca, ricamata e ornata con uno smerlo lungo il lato superiore, l’unico visibile. Sotto lo smerlo si intravedeva il merletto della sottopettina. Le spalle erano ricoperte da un fazzoletto triangolare di maglia fissa (pannu ‘n cóllu), impreziosito da ricami in bianco e da merletti pieghettati cuciti lungo i bordi.
Intorno ai capelli raccolti in una crocchia sulla nuca si appoggiava la cartonella, cerchio di cartone ricoperto esternamente con un nastro di seta pieghettato e abbellito con  fiori di stoffa, fissato alla chioma con uno spillone d’argento (màula). La presenza di ben 7 cartonelle nel corredo di Erminia, particolarmente ricco di capi eleganti, è indizio di una certa agiatezza.
In chiesa le donne sposate portavano in testa un fazzoletto di maglia fissa piegato a rettangolo (pannu ‘n capu), coordinato a quello che ornava le spalle, assicurato alla cartonella con uno spillone, per poterlo togliere quando uscivano. L’importanza dei fazzoletti di maglia fissa, che sottolineavano con le loro trasparenze la grazia della figura, si può dedurre dalla varietà e dalla finezza dei ricami, eseguiti quasi sempre dalle stesse fanciulle (3).
La ricchezza delle parannanzi di maglia fissa, tulle finemente ricamato in bianco e smerlato tutt’intorno, era messa in rilievo dai colori vivaci delle vunnèlle su cui venivano portate. Lo stesso tipo di nastro che ornava la cartonella era usato anche per la cinta, che copriva il punto di vita e si incrociava sul davanti, sopra lo zinale, dove era fissata da una spilla.

Gli ornamenti e i gioielli
I gioielli nominati nei documenti dotali esaminati in precedenza non sono molti, ma bisogna pensare che secondo la tradizione era compito dello sposo portare in regalo alla moglie una cospicua quantità di gioie.
Il pezzo più importante fra quelli menzionati è il collino (girocollo di maglia ritorta), a cui si appendeva un ciondolo d’oro (pannantiffe), accompagnato da catenine d’argento, orecchini lunghi di corallo o perle (bóccule) e corde di coralli, fra cui una, probabilmente ornata di un Crocifisso (4), era denominata rosario.
Spilloni d’argento grandi e piccoli davano una nota preziosa alle acconciature delle nostre antenate. La màula, germoglio di malva con foglie in filigrana ornato al centro da un fiore collegato allo stelo da una molla oscillante, abbelliva con la sua solennità l’abito da sposa ed era poi indossata solo nelle feste patronali. Spilloni più piccoli, con guarnizioni di corallo (5), come quello portato in dote da Erminia, o con la capocchia raffigurante una ghianda (per questo chiamati jannette), sorreggevano i capelli e il fazzoletto da testa nella vita quotidiana (6).
Il ventaglio costituiva un’insolita raffinatezza per poche fortunate (non se ne fa menzione nei documenti dotali più volte citati), ma spesso lo si trova in mano alle Vunnèlle in fotografie scattate negli anni Trenta (7).   (FOTO 4 VUNNELLE)

La fortuna della vunnèlla
Le cause della prosperità economica che ha concesso ai monticellesi di modificare in modo così fastoso il costume femminile vanno ricercate nella sua storia.
Come ricorda Jean Coste (8), fin dall’epoca dei Borghese (1678-1809), “Monticelli occupa una posizione particolare, poiché la maggior parte del territorio è di proprietà del Comune, mentre i Borghese ne hanno meno del 6%. Dopo il 1809, soppresso l’ordine feudale, Monticelli si libera dalle corrisposte legate a quest’ultimo. Nel corso dell’Ottocento anche le proprietà dirette dei Borghese vengono cedute progressivamente agli abitanti”.
Per la sua ricchezza e per la grazia delle donne che lo indossavano la vunnèlla meritò di essere raffigurata da Bartolomeo Pinelli in quattro diverse acqueforti, una delle quali diede a don Celestino Piccolini, storico di Montecelio, lo spunto per l’articolo “Una incisione del Pinelli sul vestito delle donne di Monte-Celio”, apparso nel 1957 (9). Un’altra bella immagine ottocentesca, opera del pittore tedesco E. L. Schweinfurt, è stata utilizzata dalla Pro Loco per un pieghevole sulla sfilata delle Vunnèlle nell’ultima domenica di settembre, che è attualmente la principale attrattiva folcloristica del paese.
Non si contano le testimonianze fotografiche che ci tramandano i particolari del costume e il bel portamento di chi lo indossava, dalle più antiche (1860-70) agli anni ’60, ma esistono anche alcuni pregevoli ritratti conservati da privati da cui possiamo intuire quali fossero i valori che si legavano a quel tipo di società.
Le stampe ottocentesche e i ritratti più antichi ci presentano un abito leggermente diverso da quello che ci è stato tramandato: è del tutto sparito, ad esempio, il busto “di nobiltà”, con le maniche staccate e collegate alle bretelle con delle fettucce, documentato nelle stampe ottocentesche e ancora presente nella dote di Erminia Cardoni, ma tutto sommato Montecelio può contare su un notevole numero di capi antichi gelosamente conservati e oggetto delle amorose cure da parte di chi ha la fortuna di possederne.
Grazie al ritorno di fiamma dei monticellesi per la loro tradizione più bella, avvenuto a partire dal 1970 dopo decenni di relativo oblio, si è formata un’abile schiera di rifinite sarte e ricamatrici, per lo più allieve delle suore-maestre, che continuano a produrre copie perfette degli originali, sia per moltiplicare la versione più ricca, prima appannaggio di poche famiglie, sia per sostituire i capi danneggiati. Così anche nel nuovo millennio ogni anno, l’ultima domenica di settembre, più di 200 donne e fanciulle fanno a gara per uscire di casa indossando gli abiti delle loro antenate, segno che il filo che ci unisce al passato non si è del tutto interrotto.

1- Cnfr m. sperandio, …………………………….Aequa n. 24, gennaio 2006, pp. …………………
2- Nella mostra tenutasi il 25 settembre 2005 presso l’Antiquarium di Montecelio è stata esposta una parannanzi bianca finemente ricamata da Vincenza Sozzi nel 1899, all’età di soli 12 anni.
3- Quelli indossati nella sfilata di settembre a Montecelio sono quasi tutti originali e risalgono alla seconda metà dell’Ottocento.
4- Cfr. p. ciambelli, Collane, in AA. VV., “L’ornamento prezioso. Una raccolta di oreficeria popolare italiana ai primi del secolo”, Roma-Milano 1986, tav. 23, nn. 94, 99, pp. 152-153.
5- Sugli ornamenti da testa cfr. p.guida, Ornamenti da testa, ibid., pp. 160-164, tav. 29, n 166 (màula), tav. 68, n 328 (spillone con corallo).
6- Il nome jannetta è attestato da un documento ottocentesco dell’Archivio Comunale di Montecelio, che racconta come una ragazza cadesse senza conseguenze nella cisterna (pozzo) comunale perché si era sporta troppo per afferrare la jannetta che le stava cadendo dai capelli mentre attingeva l’acqua. Ho potuto documentare questo tipo di spillone presso la famiglia Currà, che ne conserva alcuni.
7- Ne possiedo uno della seconda metà dell’Ottocento, purtroppo in cattivo stato, appartenuto a mia nonna, Maria Balestrieri. E’ formato da due fogli di carta che rivestono stecche d’osso, intagliate e incise sul lato principale, dove sono stampate scene di corteggiamento, mentre il retro è abbellito da fregi con dorature in rilievo.
8- j. coste  in M. T. Petrara, M. Sperandio, Montecelio ieri e oggi, Montecelio 1990, p. 6.
9-Vedi in Atti e  Memorie della Società Tiburtina di Storia e d’Arte, XXX-XXXI (1957-58), pp. 91-95. Un cenno alla vunnèlla è in v. salviani, Immagini e Memoria. Iconografia dei costumi popolari della Valle dell’Aniene e dintorni, Tivoli 2001, p. 17, Tav. XIII, 2.