I CARBONAI DI CAPPADOCIA
di Mario Cosciotti
Molte volte camminando tra i boschi di Cappadocia ho notato alcune piazzole ricoperte di terriccio nero misto a cenere, dove un tempo vi si faceva il carbone. Per conoscere come si praticava quella attività lavorativa, mi sono recato da mio cugino Rinaldo D’Innocenzo, oggi sessantaduenne, che da giovane ha fatto per molti anni il mestiere di “carbonaro”. Appena gli ho accennato che volevo mi parlasse dei carbonai, gli occhi gli si sono illuminati e davanti ad un piatto di prosciutto appena tagliato e ad un buon bicchiere di vino rosso, ha iniziato a parlarmi del suo vecchio mestiere.
Il lavoro iniziava all’alba e finiva al tramonto
Il “carbonaro” era un lavoro che s’imparava sul terreno, con l’esperienza; si apprendeva sin da bambino aiutando il padre, seguendo tradizioni e tecniche antiche. Erano tempi molto duri, quelli! Ogni anno, da giugno fino a settembre, il Comune di Cappadocia, coadiuvato dalle guardie forestali che già avevano provveduto a marcare con vernice rossa tutte le piante da tagliare, assegnava il cosiddetto “taglio”. Una volta saputo quale fosse stato il bosco da tagliare, insieme ad altre cinque persone appartenenti allo stesso nucleo familiare (tante ne occorrevano per far funzionare bene una carbonaia) si portavano sul posto e costruivano con frasche, foglie e terriccio, una capanna, che diventava la loro dimora per alcuni mesi. “ Per illuminarla – racconta D’Innocenzo – usavamo la “cantilena” (1) e le candele. Una volta la settimana, di solito la domenica, ci raggiungeva dal paese portandoci i viveri (2) qualche familiare, così potevamo passare almeno una giornata in tranquillità in quanto la domenica non lavoravamo, anche se c’era sempre da prestare molta attenzione alla piazza fumante. Fatto un giro di ricognizione in mezzo al bosco, sceglievamo la piazza (3) sopra la quale in seguito avremmo accatastata tutta la legna; la piazza doveva essere piana e di forma rotonda con un diametro di almeno 12 metri, ed è chiaro che era importantissima la sua posizione, perché in base alla distanza, voleva dire faticare molto o poco per trasportarvi la legna”.
Altra cosa importantissima erano gli attrezzi da lavoro. Le accette dovevano essere di ottima qualità e affilatissime; il “segone” (4) era indispensabile per segare i grandi tronchi; utilissime erano le “ronche” (5) usate per tagliare i rami degli alberi abbattuti; molto usata era poi la mazza di ferro con le zeppe per spaccare i grossi tronchi ed infine si usavano altri attrezzi, come: grosse zappe, badili, forcine a quattro punte, rastrelli e seghe più piccole.
Il lavoro iniziava all’alba e finiva al tramonto, quasi dodici ore di duro lavoro. Si cominciava con il primo grande albero di faggio (6), si sceglieva il punto dove farlo cadere e con l’accetta si cominciava a colpire il tronco alla base. Con i primi violenti colpi di scure che risuonavano tutt’intorno, la pace del bosco veniva così interrotta. Si doveva in questo modo raggiungere la profondità di circa 15 cm per tutta la larghezza del tronco, per poi passare alla fase successiva, che consisteva nel segare l’albero all’altezza del solco fatto con le scuri (7) utilizzando un grosso segone. Giunti a metà del tronco, quando il segone incominciava ad incastrarsi, si faceva una “zeppa” di legno che veniva infilata nella fessura fatta dal segone, quindi battendovi sopra con la mazza di ferro, si faceva penetrare nel tronco quel tanto che serviva per non far schiacciare il segone dal peso dell’albero. Si riprendeva quindi a segare finché l’albero non cominciava ad ondeggiare ed a scricchiolare, a quel punto era fatta, si davano ancora alcuni colpi con la mazza di ferro sulla zeppa e l’albero si abbatteva al suolo facendo un fracasso assordante. Da qui il detto: “Fa più rumore un albero che cade che 1.000 alberi che crescono”.
Abbattuto l’albero, mentre due persone continuavano a segare il grosso tronco in vari pezzi tutti lunghi un metro, gli altri carbonari, prese accette, “ronche” e seghe più piccole, tagliavano tutti i rami, facendo vari mucchi di legna. “Ma – precisa D’Innocenzo – non era finita. I grossi tronchi segati venivano tutti spaccati in quattro o sei parti a seconda la grandezza del pezzo, con mazze di ferro e zeppe. Ma pure questo lavoro aveva le sue difficoltà specialmente quando i tronchi erano pieni di nodi. In un giorno tre persone riuscivano ad abbattere fino a tre grossi alberi. Avevamo vent’anni, muscoli d’acciaio e molta forza! Per tagliare 500 quintali di legna, tanti ce ne occorrevano per fare una carbonaia, impiegavamo 15 giorni di lavoro”.
La carbonaia
Terminata l’operazione del taglio degli alberi, i boscaioli cominciavano a portare la legna sullo spiazzo. Per quella minuta si usava “jo cavajo” (8), che riempito si metteva a spalla e si trasportava verso la piazza; i tronchi più grossi, invece, venivano portati da due persone. Quindi si dava inizio alla preparazione della piazza di carbone, attività che richiedeva altri 15 giorni di lavoro.
- Tirata indietro la terra – ricorda D’Innocenzo – e fatto un solco circolare sulla piazza, nel mezzo piantavamo un paletto di riferimento e tutt’ intorno alzavamo in piedi i tronchi spaccati mettendovi sotto dei sassi in modo tale che gli stessi, sollevati da terra, potevano bruciare bene anche alla base. Al centro lasciavamo un’ apertura di 35 cm che riempivamo con “frasche” insieme a dell’altra legna secca, così che, al momento dell’accensione, sarebbe stato molto facile accendere il castello di legna; quest’ apertura serviva poi per alimentare il fuoco durante la cottura del carbone. Tronco sopra tronco, metro sopra metro, la “castellina” cresceva non solo in altezza ma anche in larghezza, perché tutt’ intorno ad essa veniva appoggiata altra legna in piedi, in modo che tutti gli spazi fossero riempiti, e alla fine la carbonaia sembrava come una cupola che s’innalzava verso il cielo. Finito l’accatastamento si passava alla copertura; riempivamo sacchi di foglie secche e felci, poi con una scaletta salivamo sulla cima della carbonaia, rovesciavamo il tutto sopra la legna composta e tappavamo tutti i buchi. Quindi passavamo alla copertura con zolle erbose di terra umida, con la parte erbosa rivolta all’interno e con terra fine per circa 10 cm, in modo che foglie e terra facessero una copertura impermeabile tanto alle piogge che ai fumi che tentavano di uscire dall’interno della carbonaia. Quando avevamo finito, sembrava proprio di stare davanti ad un piccolo vulcano spento, anche se ancora per poco. A questo punto, si prendevano le braci da un fuoco preparato a parte, si saliva con una scala sulla cima della cupola e dal foro lasciato aperto le gettavamo giù sul fondo, finché la piazza non si fosse accesa”.
Per i primi quattro giorni il buco veniva riempito fino a metà, perché l’accensione doveva avvenire a “foco morto” (9). Una volta accesasi bene, il buco della carbonaia veniva riempito per intero gettandovi dentro cesti di “mozzi” (10) e “schiappe” (11); quindi si tappava con una grossa zolla di terra per non lasciar brillare la fiamma. Questa operazione i carbonai la ripetevano mattina e sera, per 15 giorni, soprattutto se nella carbonaia erano composti 500 quintali di legna. Ogni volta si prendeva un palo s’infilava dentro il buco per liberarlo da qualche ostruzione e poi di nuovo si riempiva coi “mozzi”. Appena la carbonaia era partita, i boscaioli prendevano un bastone, lo appuntivano e all’altezza di due metri tutt’intorno le facevano i “fumaroli”: dei buchi, dall’alto verso il basso, uno ogni 60 centimetri.
La combustione era il momento più delicato perché la legna doveva cuocere lentamente e qui entrava in gioco la massima abilità del carbonaio. I fori servivano perché l’aerazione all’interno della “carbonara” fosse sempre adeguata alle esigenze del momento. Bisognava regolare i fori di sfiato e il flusso d’aria all’interno della catasta seguendo i movimenti del fuoco e osservando i colori del fumo: grigio-bianco all’inizio, quando la legna emetteva ancora acqua; blu-azzurro, quando la temperatura saliva al massimo; cessavano invece quando la carbonizzazione era terminata. Anche il colore della terra in base al calore cambiava. I lavoranti dovevano seguire anche il mutamento del vento, per questo dovevano costruire, sempre con frasche e rami, dei paravento alti due metri e lunghi tre, da mettere a protezione della carbonaia, per prevenire il pericolo di incendi, cosa che se fosse accaduta, avrebbe mandato letteralmente “in fumo” tutto il lavoro di un mese. “Ma questo – precisa con orgoglio il nostro carbonaio – a noi non è accaduto mai!”
La carbonizzazione durava circa 30 giorni, a seconda del tipo e della quantità di legna, e durante questo periodo, a turno i carbonai montavano di guardia per controllare che tutto andasse per il meglio. Arrampicati sulla scala, sopra quel vulcano fumante, avvolti dal fumo, era un continuo aprire e tappare buchi affinché la carbonizzazione avvenisse in modo corretto. Per ottenere questo era indispensabile che il calore si diffondesse in modo univoco verso tutte le parti del cumulo di legna. “Era una dura lotta, fra noi – racconta ancora D’Innocenzo – che operavamo al di fuori e il fuoco che bruciava all’interno della carbonaia.
Finita la distillazione, quando la carbonaia cessava di fumare, si lasciava raffreddare per 24 ore. Poi si partiva dal basso, si scostava la terra con badili e rastrelli, e aperta una falla si estraeva il carbone che si accatastava attorno alla piazza, lasciandolo raffreddare bene. “Subito, però, dovevamo ricoprire la falla aperta per evitare che il carbone rimasto dentro si riaccendesse. Poi, finalmente, potevamo ammirare quella piccola montagna di carbone rimasta miracolosamente intatta come l’avevamo sotterrata, frutto del nostro duro lavoro”- ricorda soddisfatto D’Innocenzo. “Durante l’estrazione del carbone, portavamo ai piedi soltanto zoccoli di legno, per evitare le bruciature prodotte dai pezzetti di carbone ardente. Altra cosa terribile era la polvere nera e finissima, ti entrava dappertutto e non c’era verso di togliersela di dosso; diventavamo così neri che solo i denti ci restavano bianchi.”
Gli scarti della piazza si chiamavano “tizzi” (12) e venivano riutilizzati o per alimentare un’altra carbonaia o per cucinare dentro la capanna. La resa del carbone era di un quintale ogni cinque quintali di legna. Una volta raffreddato, il carbone veniva messo dentro sacchi di iuta con la “vaglia” (13) e chiusi con i “randoli” (14). Per estrarre tutto il carbone si impiegavano cinque giorni, condizionati anche dai “mujari” (15), che facevano un solo viaggio al giorno. I vetturini riempivamo 10 balle (cinque some, una soma erano due balle) e appena i muli erano carichi ripartivano alla volta del paese.
A Cappadocia il carbone veniva venduto agli abitanti, che ne facevano vari usi; lo mettevano nelle “fornacelle” (16), che si usavano per poggiarvi sopra “tigami” (17) e “pignate” (18) quando si cucinava, oppure lo usavano per scaldarsi con i bracieri o per metterlo nei vecchi ferri da stiro.
Conclusione
Il mestiere del “carbonaro” oggi, con l’avvento delle nuove risorse energetiche, gas in bombole, metano, energia elettrica, è scomparso, ma di tutti i mestieri, penso che questo sia stato uno dei lavori più massacranti che l’uomo abbia mai fatto. Oggi in commercio troviamo solo la carbonella che mettiamo nei nostri Barbecue, ed anche se è di ottima qualità, viene però prodotta tutta a livello industriale.
1-Lume a carburo.
2-Pane, formaggio, salsicce, farina di polenta, uova, ventresca.
3-Luogo piano senza sassi.
4-Una sega lunga quasi 2 metri.
5-Roncole.
6-I nostri boschi sono quasi tutti ricoperti da faggi e proprio dal legno di faggio insieme a quello di quercia, detti legni nobili, si ricavava il carbone più pregiato e più richiesto.
7-Si raccontava di due carbonai che, mentre segavano i tronchi, anziché lavorare scherzavano, dicendo: “A me – a te, a me – a te , a me – a te reposimoce na cria (riposiamoci un poco)”. Un giorno il padrone sentì le loro voci e, avvicinatosi, vide in che modo lavoravano quei due. Senza dir loro nulla, alla fine del mese, quando si presentarono per ritirare la paga, prese il cassetto dove erano i soldi e facendolo scorrere su e giù disse loro: “A me – a te , a me – a te , a me – a te reposimone na cria”. I due si guardarono in faccia e capirono che il padrone aveva visto in che modo lavoravano e senza dire una parola uscirono con la paga dimezzata.
8-Una specie di forca di legno con una tavoletta di legno legata sopra.
9-Lentamente senza mai sviluppare la fiamma.
10-Pezzetti di ramo secco di 10 cm.
11-Quelle prodotte dalla scure quando si taglia un albero.
12-Legno bruciato solo in parte.
13-Paletta di legno con due manici ai bordi.
14-Due bastoncini che si attorcigliavano agli angoli del sacco per chiuderlo.
15-I vetturini che con i muli trasportavano le balle di carbone.
16-Piccole vaschette di ghisa bucate sotto per far uscire la cenere.
17-Tegami di coccio.
18-Pentole, di coccio anch’esse.