I CAPPUCCINI A TIVOLI (1534-2005) E IL LORO SACRIFICIO NELLA PESTE DEL 1656 NELLA VALLE DELL’ANIENE

I CAPPUCCINI A TIVOLI (1534-2005)
E IL LORO SACRIFICIO NELLA PESTE DEL 1656
NELLA VALLE DELL’ANIENE

di Rinaldo Cordovani

A ripercorrere la storia dei paesi della valle dell’Aniene si hanno continue sorprese, come avviene a chi s’inoltra nella valle o s’inerpica sui colli alla fruizione dei tanti piccoli centri che vi si affacciano, testimoni che chiedono di essere interrogati per confidare i segreti del vivere, del morire e del sopravvivere, nonostante che, come dice ne “I Sepolcri” Ugo Foscolo, “involve / tutte cose l’oblio nella sua notte; / e una forza operosa le affatica/ di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe / e l’estreme sembianze e le reliquie / della terra e del ciel traveste il tempo”.
Tivoli è uno scrigno di storia antica e recente, dal quale studiosi e ricercatori tirano fuori frammenti di vita, come testimonia l’attività della Società Tiburtina di Storia e d’Arte.
Il Tempo – il dio Cronos – proprio a Tivoli, ha travolto ultimamente i frati cappuccini che hanno lasciato la custodia del Santuario della Madonna di Quintiliolo, a loro affidato nel 1888. Prima di allontanarsene, hanno calcolato che sono passati mille anni dalla nascita della chiesa e 250 dall’incoronazione dell’immagine della Madonna da parte del Capitolo Vaticano.

I conventi cappuccini a Tivoli
Ma Tivoli è a pochi chilometri da Roma, dove i cappuccini erano approdati nel 1529, un anno dopo che il Papa Clemente VII° Cybo aveva approvato la loro Riforma e sancito il distacco dagli altri francescani per il desiderio di vivere ed osservare la Regola di San Francesco, come lo era stato alle origini, o quasi. Quindi fu ovvio per loro stabilirsi anche nelle città e paesi vicini alla città papale, chiamati, per lo più dagli amministratori locali.
A Tivoli giunsero nel 1534 e, con molta probabilità, trovarono rifugio presso la chiesetta di Sant’Agnese, visibile ancora poco oltre l’attuale stazione ferroviaria. Qui visse per un certo periodo (1544-1547) il primo santo dei cappuccini, Felice Porri da Cantalice (+1587).
L’eremo era angusto, costruito con fango, canne e mattoni crudi, come prescrivevano le norme dei cappuccini del tempo. Inoltre la vicinanza del fiume rendeva il clima umido e malsano, per cui, verso il 1551 si spostarono sul Colle Paciocco, ad est della città, in località nota oggi col nome di Castellaccio, distante oltre due chilometri dal paese.
Anche in questo secondo convento vissero per un certo periodo due santi frati: Francesco Passeri da Bergamo (Roma, +1626) e Paolo da Porano (+ Orvieto, 1616).
Oggi su quel colle, divenuto rifugio per soggiorni estivi, si possono rintracciare soltanto dei ruderi del vecchio convento, abbandonato nel 1606. Della chiesa, dedicata a San Francesco, è rimasta una descrizione fatta dal Vescovo Annibale Grassi, che visitò la chiesa il 21 aprile 1581, per ordine del Papa Gregorio XIII. Vi si legge che la chiesa, dedicata a San Francesco, è di forma rettangolare, pavimentata, imbiancata e soffittata. Le finestre sono chiuse con tela cerata. Dietro l’altare c’è il coro e vi si trova un armadio “in cui si conservano due calici molto modesti, d’argento nella coppa e di bronzo nel piede”. Il Visitatore ordinò che si facesse un quadro grande con l’immagine di San Francesco ed altri santi “ quando commode facere poterunt ex eleemosinis propriae Communitatis”.
Il Vescovo, per arrivare al convento, dovette percorrere, anche lui, il sentiero scosceso e fangoso, che tuttora si vede, in mezzo ai boschi. Il percorso era così disagiato che il consiglio comunale nella seduta del 18 ottobre 1587 stabilì che si accomodasse “dalla Croce in giù […] col farci una selciata morta, quale sarà di poca spesa”. Infatti, si dice, quella strada “è guasta, et l’inverno per l’acqua et fango non si puole passare né da detti Cappuccini, né da altri viandanti”.
Il 14 aprile 1606, i cappuccini relegati su quel colle impervio, in uno stabile non più vivibile e necessario di grandi riparazioni, scesero più vicini alla città in un convento costruito sul declivio di monte Ripoli, in una posizione invidiabile ancora oggi, bella per l’esposizione al sole e per il panorama. La costruzione dello stabile, con relativa chiesa dedicata alla Santa Croce, iniziò nel 1603 e fu terminata nel 1611. Il terreno fu donato in parte dal patrizio tiburtino e vescovo di Veroli Mons. Eugenio Fucci e in parte dal Comune; i fondi furono ricavati dalla vendita del vecchio convento di Colle Paciocco, oltre che dall’aiuto continuo della città e di privati.
In questo convento i cappuccini collocarono per alcuni anni i giovani religiosi impegnati nello studio della filosofia e della teologia nel periodo di formazione alla vita religiosa e al sacerdozio. La chiesa stessa fu arricchita di opere d’arte, come la splendida tela di Francesco da Castello (Franz Van De Castele), “La Crocefissone e santi”, ancora in loco, nella quale il pittore fiammingo ritrasse, oltre ai santi, ai piedi della croce, una torre con il castello di Pio II con gli archi dell’acquedotto Rivellese, la chiesa di San Francesco e il convento dei cappuccini.

I cappuccini e la peste a Tivoli, Roccagiovine, Roviano e Vivaro
Nel 1656, la peste, per contagio dal Regno di Napoli, si diffuse nello Stato Pontificio; un’epidemia tristemente nota e ricorrente in quel secolo, come quella di Milano e di Venezia del 1630, descritta da Alessandro Manzoni nel romanzo “I Promessi Sposi”. I cappuccini, come sempre e dovunque, furono i primi ad essere presenti accanto alla gente per confortare i malati, consolare i sofferenti, accompagnare i moribondi e, spesso, a fare da infermieri e da medici; provvedevano anche il cibo ai bisognosi, seppellivano i morti e a spurgavano le abitazioni.
Trascrivo, da un antico manoscritto (1), quanto fecero i cappuccini a Tivoli, a Vivaro, a Roviano e a Roccagiovine in occasione di questa peste epidemica:
“…Ma se il Convento di Roma sostenne varie angustie, e restò privo di molti soggetti qualificati, per la malignità della peste, che per tutta la Città si fece sentire dolorosa e lacrimevole, non restaron liberi affatto di partecipare l’amarezza del calice gli altri Conventi della Provincia, privi degli ordinari sussidi che in altri tempi sogliono ricevere da Roma. Ma singolarmente Sezze, Velletri, in qualche particella Palestrina, e Tivoli; quei tre primi infestati nelle proprie viscere della Città dal morbo pestilenziale, e Tivoli nelle membra estrinseche dei suoi Castelli; onde fu necessario, che in ogni parte la nostra povera Riforma somministrasse operai di carità, acciò le anime dei fedeli non morissero disperate, non trovandosi chi per pietà o per mercede potesse o volesse servire.
Tivoli fu il primo, perché accesosi ardentemente il morbo nella Terra e Castelli del Vivaro, Roviano e Roccagiovine,  trovandosi in quest’ultimo luogo, portati dalla Provvidenza divina, il p. Felice Romano, Predicatore, fratello della Signora del Castello‚ ed il p. Ludovico Romano, Sacerdote, essendo mancato il Parroco, si espose con tanto fervore e spirito il p. Ludovico a servire ai bisogni del corpo e dell’anima di quelle povere pecorelle senza pastore, che non risparmiandosi fatica, né sfuggendo pericoloso incontro, in pochi giorni restò anch’esso infetto del morbo stesso, e morto “ostia di carità” e d’amore fraterno, ai 26 di Agosto, e passò al Signore per riceve con l’eterna vita, la mercede della vita temporale sacrificatagli caritativamente.
Morì nel tempo stesso, di peste, anche il p. Felice, benché per soddisfare alla sorella, che lo aveva indotto a trasferirsi colà quasi contro la volontà dei Superiori de1l’Ordine, cavando con le importune istanze l’obbedienza dal m. r. p. Provinciale.
Quasi nel tempo istesso [che la peste infuriava a Tivoli] incrudelendo il morbo nel Castello di Roviano, furono destinati colà, ad istanza dell’Em.mo Sig. Cardinale Santa Croce, due Sacerdoti cavati a sorte, perché pretendendo tutti, e ciascheduno di conseguire questa corona, e gareggiando tra loro con santa emulazione di non essere posposto ad altri, del che restò sommamente edificato quel Cardinal Prelato, si cavarono i nomi a sorte, e piacque alla D. Maestà sortissero il p. Clemente d’Orte, e p. Bonaventura da Vercelli, Sacerdoti; quali ottenuta la benedizione dal proprio Superiore, e dall’Em.mo Sig. Cardinale, con allegrezza indicibile di cuore si portorno a quel povero luogo, che pareva divenuto albergo solo di horrore, e di morte, non si trovando chi nemmeno ardisse ministrare il necessario alimento alla vita. Respirorno que’ meschini all’arrivo dei buoni Sacerdoti; quali ricevettero con quelle maggiori dimostrazioni di affetto, che venne loro permesso.
Ma vedendo quei buoni Padri, che la maggior parte periva per mancamento del necessario sostegno, subito uno di loro fece ritorno alla Città di Tivoli, e lo fece a cavallo per accelerare il soccorso; e supplicò l’Em.mo Pastore a sovvenire a quelli infelici, oppressi, e dalla peste, e dalla fame; né mancò l’ottimo Prelato, con viscere di vera paterna pietà a spese proprie, spedire tutto ciò, che si stimò conveniente; ma essendo nella sua maggiore attività quel veleno, mentre i poveri Padri si affaticavano indefessamente in ministrare i Sacramenti a’ moribondi, anzi in aiutarli per quanto era loro possibile nelle corporali necessità ancora, restorno anch’essi dal veleno stesso soppressi, e morti al corpo, per vivere in eterno con lo spirito al suo Dio, a cui havevano sempre servito con molta esemplarità di costumi, e religiosità di vita; onde non ci lascian luogo dubitare, che dopo una vita religiosamente menata, e caritativamente per amore, e salute del prossimo sagrificata alla morte, non abbian ottenuto beato e felice il transito all’eternità della gloria.
Successe a questi il terzo e fu il p. Giovanni da Soresina, Predicatore, della Provincia di Milano, che impiegatosi per molti anni nell’evangelica Predicazione con molta lode, trasferitosi a Roma per alcuni affari, e quivi arrestatosi per sua consolazione, trovandosi in Tivoli di famiglia, ed intesa l’istanza dell’Ill.mo Santa Croce, ed il bisogno di quelle povere pecorelle, non fu ad alcuno inferiore o posteriore nell’offrirsi spontaneamente ad esporre la propria vita per la vita del prossimo; non essendogli sortito di essere dei primi, morti quelli, e dalla morte sentendosi più avvivato il desiderio di correre la carriera medesima, e l’ottenne.
Onde con la benedizione del suo Superiore, e dell’Em.mo Prelato, entrò generosamente a combattere contro la morte nella Terra del Vivaro ai 17 di Agosto; e lo fece, mentre durò la vita, con grandissimo spirito e carità, con non piccolo beneficio di quel Popolo, che rimasto senza Ministro dei Sacramenti, temeva di doppia morte, e da questo buon Padre aspettava duplicata la vita; e l’ottenne in molti; e molti tolti dalle fauci della morte corporale, da esso lui aiutati, provveduti, e talora anche medicati e dalle fauci della morte spirituale, da esso lui assolti dalle colpe mortali, che li guidavano al precipizio eterno. Ma mentre combatteva per altri, non poté ripara se medesimo; onde ai 4 di Settembre, ferito ed abbattuto dal morbo stesso, che gli oppresse il corpo, rese il suo spirito, purificato entro alle fiamme del fraterno, caritativo amore, al suo Dio, acciò colmo di meriti, fosse anche colmato di gloria.
Fra questo mentre l’Em.mo Santa Croce temendo che gli altri frati rimasti nel Convento non patissero qualche detrimento, per essere il Convento situato fuori della Città, e per essere il vicinato infetto pensò tirarli nella Città medesima, come effettivamente eseguì, concorrendovi il voto anche del Consiglio, per maggiore sicurezza della stessa Città; e venne loro assegnato il Convento, dove altre volte abitavano i PP. Somaschi; ed in esso furono con grandissima carità e liberalità provveduti di tutto il necessario, dalla Città, e massime dallo stesso Em.mo Santa Croce”.

Le soppressioni
Ma per i Cappuccini vennero tempi tristi e furono travolti. Furono espulsi dal convento di Santa Croce una prima volta nel 1798 dall’effimera Repubblica Romana e il convento “fu “spogliato in tutto”; una seconda nel 1810 per opera del Bonaparte. Vi poterono tornare nel 1837. Lo trovarono devastato e depredato, anche questa volta. Lo ricostituirono nelle mura e nell’arredo. Nello stesso anno, Tivoli – assieme a Roma, Albano, Subiaco e Civitavecchia – fu colpito dal “morbo colera” e, come nella peste del 1656, i cappuccini furono accanto ai sofferenti nel corpo e nell’anima. Una lapide, ancora in loco, ricorda la consacrazione della chiesa nell’anno del colera: “Templum hoc per adversa tempora profanis usibus deformatum post annos XXVI aliena pietate redemptum atque instauratum…consecratum est anno colerae pestilitatis MDCCCXXXVII…”
Intanto l’esercito piemontese aveva posto fine allo Stato pontificio e dopo la presa di Roma, il 9 giugno 1873, aveva esteso anche nel Lazio la legge del 1866 che sopprimeva tutte le congregazioni religiose.
“La legge di soppressione si verificò nel Convento di Tivoli il giorno 5 luglio 1875”, scrivono gli Annali Manoscritti citati (2), i quali, per ben tre pagine, seguitano raccontando le vicende incredibili della cosa fino all’espulsione violenta dei cappuccini – costretti ad abbandonare anche il loro saio – alle 2 pomeridiane del 18 gennaio 1879. Tutto fu depredato e venduto all’asta. I Cappuccini furono ospitati per alcuni mesi nel Collegio irlandese o “Villa Greci”, dopo di che furono accolti nel convento presso la Chiesa della Carità per interessamento dell’omonima confraternita.
Nello stabile in seguito trovò posto una “Casa di custodia” o “Riformatorio”. Oggi è occupato dalla scuola professionale “Rosmini”, dalla succursale del Liceo Classico e da alcuni uffici della A.S.L.; la chiesa è divenuta parrocchia con il titolo di Santa Maria della Fiducia.
Il 19 ottobre 1888 si trasferirono nel Santuario di Santa Maria di Quintiliolo, dove sono rimasti fino alla soglia del 2006, quando hanno lasciato definitivamente la città di Tivoli.
Anche loro, dopo tanti secoli di storia in questa ridente cittadina della valle dell’Aniene, hanno dovuto sperimentare che “l’uomo e le sue tombe/ e l’estreme sembianze e le reliquie/ della terra e del ciel traveste il tempo”.

1- Archivio Provinciale dei Cappuccini, Annali Manoscritti della Provincia Romana, Vol. II, pp. 589-591. L’archivio è collocato nel convento dei Cappuccini a Roma, Via V. Veneto, 27.
2- Idem.

Per saperne di più, si possono consultare:
- De Meio Graziella-Pierattini Camillo, La Parrocchia della Madonna della Fiducia in Tivoli, Tivoli 1988, pp. 75.
- Ottavio da Alatri, I FF. MM. Cappuccini in Tivoli e il Santuario di S. Maria in Quintiliolo, Roma, Libreria Editrice “L’Italia Francescana”, 1938, pp.258.
- Sciarretta Franco, Viaggio a Tivoli, Natale di Tivoli 2001, pp. 488, 31 Tavole a colori fuori testo.
- Sinibaldi Mario, Il Santuario di Quintiliolo, Tiburis Artistica, Tivoli 2005, pp. 112, 19 Tavole a colori fuori testo.