LA CALECARA, OVVERO LA CAMA, LA PIETRA,
IL FUOCO E L’ACQUA A RIOFREDDO
di Paola Elisabetta Simeoni
“Il ricordo è un impressione: l’impressione che resta nella memoria” (Littré cit. da M. Augé)
“L’amore, la morte e il fuoco sono uniti in uno stesso istante” (G. Bachelard)
Sui terreni della famiglia Sebastiani Del Grande, grossi proprietari locali, lungo la strada per Vallinfreda, dove si trovava l’aia e dove oggi è la casa di Moroli, nei caldi giorni di agosto dopo il duro lavoro della mietitura e della trebbiatura, si faceva la calecara nella grande fornace a pozzo costruita in mattoni (1).
L’analisi della operazione completa, che portava la pietra della montagna a diventare calce da costruzione, attinge a due diversi tipi di documentazione, legati alla memoria orale: quello dell’addetto alla calcara (2), uno degli ultimi contadini a fare questo mestiere, e la testimonianza, molto diversa per estrazione culturale, di un villeggiante (3), che sin da bambino, passa le sue vacanze a Riofreddo. Questi ha scritto recentemente un romanzo di memorie, nel quale si avverte l’insopprimibile necessità di narrare le suggestioni legate alla sua esperienza riofreddana, per ricordare e testimoniare, tramite l’immaginazione poetica, memorie di un tempo speciale vissuto tra realtà, fantasticherie e risonanze emotive scatenate dall’esplorazione di una realtà culturale “altra” (4).
Le due fonti documentarie trovano punti di convergenza, ma riportano anche informazioni diverse; si esprimono soprattutto con linguaggi e “visioni del mondo” differenti. Elementi comuni sono: la percezione emotiva di una operazione straordinaria, ai limiti tra realtà e quotidiano, il coinvolgimento emotivo di fronte al grande fuoco che divora e trasforma, la bellezza delle fiamme, la sensazione forte e avvolgente del calore, l’eccezionalità degli incontri sociali intorno al fuoco della fornace.
Nei ricordi dell’addetto alla calcara ritorna, accanto alla gioia del momento fantastico, la realtà del duro lavoro contadino; nei ricordi del villeggiante, invece, memoria dei periodi trascorsi in villeggiatura a Riofreddo che vengono elaborati in una dimensione poetica e fantastica, queste ultime divengono lo spunto per evocare dimensioni mitiche e archetipiche dei fondamenti culturali e inconsci dell’esistenza umana.
La “cama”, la fornace, la pietra
Con lo scarto del grano, dice Federico Conti, la cama, cioè la pula, “la pulla, la rischia del grano, il cocchietto che acchiappa…quella che se la metti in bocca non riesce…cammina, i pezzetti di paglia che rimanevano con la cama”… Tutto questo materiale veniva ammucchiato sì da formare una specie di grande covone “si andava su, si andava su, si andava su… diventava un camone”.
Dal racconto di Piero Marietti questo “camone” era : “Un monte di cascame e di pula alto circa quattro metri e con una base dimensionata di conseguenza, che era il divertimento di tutti i ragazzi. Divertimento in realtà osteggiato dai genitori, i quali dovevano poi ripulire corpi e i vestiti dei figli di un numero interminabile di pagliuzze attaccate e intruse fino a livelli insospettabili durante i salti e le affondate” (5).
Con quello scarto si alimentava la calecara per fare i “sassi cotti”, che servivano a loro volta a fare la calce per l’edilizia locale. Negli anni ’50 del secolo scorso Federico Conti lavorava con altri tre compagni, Vincenzo Rainaldi, detto “Siracchio”, Amedeo Ciotti e Davide Portieri, detto “Faina” (6). La prima operazione consisteva nell’andare a raccogliere i sassi sulla montagna, sulla strada verso Vallinfreda, “quando si prende quel pezzo di pianura, prima di prendere la costa…lì [la pietra] era bonissima”. Si prendeva con la gravina, con ju piccone, con la mazza rompevi le pietre più grandi. Era una terra, quella, dove si lavorava il grano e i sassi venivano accatastati; oppure “si andava [anche] alla cava degli scalpellini”.
Il grande forno della calecara, 4 metri circa di altezza per 2 m – 2,5 metri di diametro, si trovava, come abbiamo detto, presso l’aia dei Sebastiani Del Grande, loro l’avevano costruita ed era quindi di loro proprietà, così come il terreno da cui traevano le pietre e il camion con il quale trasportavano i sassi da “cuocere” (7). Il forno era un grande pozzo cilindrico ricoperto di mattoni, in gran parte scavato nel terreno della montagna, una parte esterna, a muro. Nella parte frontale, alla base del forno, due aperture per l’alimentazione, una più in alto per introdurre la cama, l’altra posta più in basso per estrarre la cenere; l’interno era vuoto e doveva essere riempito dalle pietre di cottura.
Occorreva una grande abilità per sistemare le pietre da cuocere: esse andavano disposte in tondo facendole sporgere leggermente in maniera da formare una “cupola” di forma conica: “mano mano si accomodavano i sassi, quelli più piccoli quelli più grandi, venivano tutti incrociati… bè per non farla spallà”. In questo modo si veniva a formare alla base del pozzo uno spazio vuoto, per un mezzo metro circa. Più in basso il pozzo finiva nel terreno a forma di cono rovesciato rispetto al primo, all’interno del quale si infilava la cama per alimentare il fuoco. Lo spazio non occupato dalla zona di alimentazione veniva successivamente colmato da altre pietre fino a riempire tutto il forno. Si faceva quindi della malta con la terra e in cima al forno, sopra gli ultimi sassi, si metteva prima la paglia poi questa malta, lasciando di proposito tanti piccoli fori, le bocchette, per fare uscire il fumo prima e poi il fuoco: con il calore la paglia bruciava e la malta si seccava aderendo alle pietre. Il forno rimaneva così coperto da tutti i suoi lati: malta e mattoni non permettevano al calore di uscire.
Così lo descrive Marietti: “Una gran buca scavata nella parte posteriore dell’aia comunitaria, laddove il terreno cominciava a salire invitato dal prepotente pendio del Monte Aguzzo, peraltro ancora lontano. Nella buca abitava, come calato dall’alto a misura, un grosso trullo ricoperto poi di terra, quasi a volerlo mimetizzare. Solo la parte del trullo che si affacciava verso la discesa rimaneva scoperta e, a un osservatore occasionale, sarebbe sembrata una delle tante macere che contenevano e circondavano i campi intorno al paese. L’apertura della calecara, un archetto di stile romanico alto al culmine un mezzo metro, veniva attraversata incessantemente da una pala col manico di ferro lunghissimo con la quale u calecalaro riponeva in quell’infernetto i rimasugli spezzettati della trebbiatura” (8).
Federico e i suoi tre compagni vendevano le pietre cotte, il cui ricavato era diviso a metà con il padrone, come era consuetudine a quei tempi a Riofreddo. Ogni calecara produceva circa 100 quintali di calce e la differenza dipendeva da come veniva la cupola: “se facevi uscire meno i sassi per fare il giro si alzava di più”.
In una estate si arrivavano a fare fino a cinque calecare, producendo cioè circa 500 quintali di sassi cotti: “stavamo 15 giorni a brucia’ minimo e 15 notti, 24 ore su 24 se faceva foco”… “Tre dì e tre notti a fa’ foco, una dì a sforna’, un giorno a fa’ sassi, a volte anche due giorni secondo come ti incontravi, un giorno a portarli, e un giorno a comporla… erano 7 giorni.. anche 8 giorni”. Per fare cinque calcare occorreva quindi anche più di un mese. Così calcola Federico la quantità di lavoro, che lui ricorda relativamente ben pagato rispetto ad altri lavori del mondo contadino, e, mentre fa il computo dei giorni, si accorge che, in realtà, non aveva calcolato le notti e che, quindi, in fondo, il lavoro della calcara non era affatto ben retribuito: “era forse qualche lira di più, si lavorava di più, però ci dovevi contare pure la notte, perché se ci metti la notte, non era neanche una lira al giorno”.
Di fatto questo lavoro veniva considerato un’opera straordinaria, trasformazione della materia prima con il fuoco in un momento centrale del periodo segnato dall’abbondanza, dal cibo, dal lavoro collettivo della mietitura e della trebbiatura, e per questo la sensazione di Federico è che fosse meglio retribuito degli altri. Era comunque un lavoro al quale si attribuiva un grande valore sociale contraddistinto da un carattere fantastico, meraviglioso, magico. Sollevava inoltre sicuramente la curiosità dei forestieri, numerosi in quel periodo dell’anno, come testimonia Piero Marietti.
La particolarità di questo momento è regolarmente punteggiata dal “leit motiv” del ricordo, “erano tempacci…[ma] si stava meglio”. Infatti era una loro straordinaria specificità che altri paesi non avevano: era “bella da vede’…se ci fossero stati i mezzi di oggi, le cineprese”, dice Teresa, moglie di Federico.
La calecara, più di altri momenti della vita lavorativa contadina, era al centro della vita paesana. Sin dalle mie prime indagini sul terreno a Riofreddo, la calecara, realtà visibilmente centrale nella rappresentazione del identità del paese, è stato uno dei temi preferiti. La spettacolarità e specificità dell’operazione, l’originalità del processo lavorativo rispetto agli altri paesi: venivano dai paesi vicini a comprare i sassi cotti, da Vallinfreda, da Vivaro, da Orvinio, da Oricola (dove sembra però se ne trovasse un’altra sempre di proprietà dei Sebastiani Del Grande), da Carsoli.
La compagnia, la cenere, il cibo
Perché di più il complesso lavoro di trasformazione dalla materia con il fuoco, che noi sappiamo in tutti i tempi e in diverse culture essere momento e argomento di riflessioni filosofiche, scientifiche, parascientifiche e magiche, è creatore di immagini mitiche e simboliche dai profondi significati archetipici.
Tanti mi hanno raccontato che, in quei giorni e in quelle notti dedicate alla calecara, durante i quali Federico e i suoi compagni si alternavano al lavoro “due ore due, due ore due altri”…mentre “uno infornava e l’altro avvicinava la cama, oppure uno mandava la cama dentro, l’altro tirava fuori la cenere con una zappa” (9), il luogo era frequentato di giorno e soprattutto di notte da visitatori, che venivano a tenere compagnia, a chiacchierare, ma soprattutto a mangiare le patate cotte nelle cenere e a bere un bicchiere di vino.“Prima la gioventù…ce stéa la fame…la notte se le andéa a robba’ a quelli che le avevano seminate…se le mangiava a loco e se bevéa”. “Io – continua Federico – prendevo due testi de latta, allora spaccavo le patane, ci mettevo u sale, il peperoncino e poi mettevo l’altro testo sopra e lo mettevo nella cenere, oppure le mettevo sane sane dentro la cinìce” (10).
“Era un piacere risolvere il dopo cena intorno alla bocca della calecara,…accanto al calecalaro”, racconta Piero Marietti e, proseguendo, scrive: “Si sedette sulla paglia asciutta tenuta asciutta dal continuo flusso di luce e si dispose a osservare i movimenti che adagiavano le patate nel letto di cenere bollente ricoprendole con altra cenere. In fin dei conti le patate dovevano gradire quel modo di essere cotte: erano abituate per nascita e crescita alle oscurità sotterranee” (11).
L’uomo della calecara era un personaggio che possedeva il fascino dell’alchimista, proprietario di conoscenze arcane. “Vi è un dominio (o signoria) sul fuoco, come espressione di potenza magica e dimostrazione del raggiungimento di condizioni superiori alla normalità” (12), così scrive ancora Marietti: “U calecalaru sembrava un’entità intrinsecamente legata alla sua funzione e forse la sua sapienza gli veniva in realtà dall’essere un non-esistente, nel senso che gli umani generalmente danno all’esistenza… Figlio della necessità e del ritmo delle stagioni era stato partorito già uomo e sempre immutabile… ad ogni fine di trebbiatura … era l’artefice imprescindibile dell’ultima trasformazione necessaria a chiudere il povero ciclo economico della montagna contadina… Temperature, tempi, modi e atmosfere erano sottratti alle regole della chimico-fisica e affidati al solo controllo del calecalaro” (13).
Sembra fargli eco Federico: “La calce sono millenni che si adopra e resiste, mentre, chi lo sa col cemento dopo che so passati altri 50 o 60 anni…roba chimica; la calce non è chimica” (sic).
L’acqua, la calce
L’opposto del fuoco, l’acqua, è protagonista delle ultime fasi della lavorazione della calce. Dopo tre giorni di cottura il fuoco che usciva dalle bocchette diventava violetto e dal colore si capiva che le pietre erano cotte. Si faceva un controllo sulla cima del forno tirando fuori un sasso e controllando il suo stato. Si smetteva di alimentare il fuoco e si facevano raffreddare le pietre, per un giorno e una notte o anche due giorni; si levava quindi la malta e si incominciavano a levare i sassi raffreddati.
Paesani e forestieri venivano a comprarsi le pietre. “Se il sasso crudo faceva un quintale, cotto ne faceva mezzo, ma pure di meno. Un sasso di un chilo, tre o quattro etti poteva pesare. Si metteva alla bascula e si pesava”. Poi “ognuno se la smorzava per conto suo”. I riofreddani li mettevano nel fosso Bagnatore e scavavano delle buche più o meno grandi secondo la quantità di calce. La calce era poi conservata sotto terra, “a ju puzzu”, a volte si faceva il pozzo vicino al fiume, ma anche in cantina. “Io vicino a casa l’ammassavo, ciavevo un pozzetto fatto a muro proprio alla cantina, la buttavo là, ce mettevo l’acqua; si doveva smorza’ diveniva come burro, l’acqua non gliela dovevi fa’ manca’ però. Quando me servéa andavo là ne prendevo un po’…”. “Quando la tenevi fuori sotto terra, pioveva e l’acqua ci andava sopra; se la tenevi dentro, ogni tanto ce dovevi mettere l’acqua se no se rasciugava, diventava gialla e non si scioglieva bene, e dopo l’adopravi”. Poi “ si faceva la calce con la zappa, si faceva il tondo con la pozzolana (14) si metteva la calce dentro poi si metteva l’acqua”.
Fuoco – acqua. Riflessioni conclusive
“La coscienza non si limita a proiettare significati affettivi sul mondo che la circonda: vive il mondo nuovo che ha costituito” (J. P. Sartre, Idee per una teoria delle emozioni)
“Le coppie degli opposti rientrano nella fenomenologia… della totalità dell’uomo. Per questo motivo il loro simbolismo attinge espressioni di natura cosmica come cielo-terra. L’intensità dell’opposizione si esprime in simboli come fuoco-acqua, alto-basso, vita-morte” (15).
Nella calcara sembra infatti svolgersi una operazione alchemica, non chimica (vedi sopra), di unione e trasformazione, che congiunge gli estremi e che connota la totalità cosmica. “L’alchimia parlava di un’acqua e di una terra alimentate dal fuoco; di una materia generata dallo zolfo”, osserva a sua volta Bachelard, mentre sostiene che “il fuoco è un elemento che desta risonanze sessuali” (16). Il simbolismo sessuale è sempre legato miticamente e simbolicamente ai temi fondamentali della vita e della morte e dal punto di vista alchemico alle opere di trasformazione della materia.
Ci viene in aiuto Marietti. L’uomo del fuoco, “immergendo la lunga pala nell’immenso sesso ardente della donna… ne cavò ripetutamente la cenere, luminosa e occhieggiante, finché rimaneva nei paraggi del grande fuoco, grigia e appagata, ma ancora calda, come percorsa sotterraneamente dal flusso del sangue di quel parto reiterato… Quindi alimentò la fornace con palate di paglia votata al sacrificio e il fremere grato di quell’utero infernale si riversò, attraverso la vagina di pietra, nel limitato intorno ai due astanti, illuminandolo con singulti e contrazioni di bagliore che, dapprima marcati e frequenti, si andarono smorzando di forza, ripetendosi a fatica a misura che veniva raggiunto il nuovo regime” (17).
Riferimenti bibliografici
M. Augé, Le forme dell’oblio. Dimenticare per vivere, Milano Il Saggiatore, 2000 (ed.or. Les formes de l’oubli, Editions Payot & Rivages, Paris, 1998)
G. Bachelard, L’intuizione dell’istante. La psicoanalisi del fuoco, Bari, Dedalo, 1973 (ed. or. L’intuition de l’instant, Paris, Gonthier, 1966 e La psychanalyse du feu, Paris, Gallimard, 1967)
Collezione dell’Enciclopedia (di Diderot e di D’Alembert), “L’agricoltura” (a cura di Andrea Menzione), Milano, Mazzotta, 1982
A. Di Nola, Enciclopedia delle religioni, vol. 2, 1970, voce “Fuoco e focolare”, pp.1659-1668
Enciclopedia della scienza e della tecnica, Milano, Mondadori, vol. II, voce “Calce”, 1963 (ed.or. Mc -Graw-Hill Encyclopedia of Science and Technology, 1960)
F. Fedeli Bernardini – P.E. Simeoni, Ricerca e territorio. Lavoro, storia, religiosità nella valle dell’Aniene, Roma, Leonardo-De Luca, 1991.
C. G. Jung, Opere, 14, Mysterium coniunctionis. Ricerche sulla separazione e composizione degli opposti psichici dell’alchimia, Bollati Boringhieri, 1991 (1 edizione 1989) (ed. or. Mysterium coniunctionis. Untersuchungen über die Trennung und Zusammensetzung der seelischen Gegensätze in der Alchemie, Olten, Walter-Verlag,1971).
Lueger, Enciclopedia della tecnica (a cura di Herman Franke), vol.10, “Tecnica delle costruzioni” (a cura di Dimitrov N. e Henninger O.), Roma, PEM s.p.a., 1970.
P. Marietti, Il tesoro di Nonio. Il destino nel suono di un nome, Roma, Gangemi, 2001
J. P. Sartre, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Milano, Bompiani, 1962 (ed.or. L’imagination, Paris, Presses Universitaires de France, 1936 e Esquisse d’une théorie des émotions, Paris, Editions Scientifiques Hermann, 1939)
1 – Questo articolo, qui in una versione ridotta, è stato presentato al secondo incontro “Tra Arno e Tevere. Il fuoco rituale. Documenti del folclore religioso e del lavoro”, organizzato dal Gruppo Interdisciplinare per lo studio della cultura tradizionale dell’Alto Lazio, presso il Museo delle Tradizioni Popolari di Canepina (VT). È stato in seguito pubblicato, nella sua versione integrale con il titolo “Lo straordinario quotidiano a Riofreddo: la “cama”, la pietra, il fuoco e l’acqua” nel volume a cura di Assunta Achilli e Laura Galli, “Il fuoco rituale”, EDUP, Roma, 2003. Si ringrazia il Prof. Quirino Galli per aver permesso questa pubblicazione.
2 – Federico Conti, intervista svolta il 25.11.2000 con la collaborazione di Emilio Di Fazio, Archivio sonoro del Museo delle culture “Villa Garibaldi” Riofreddo (RM).
3 – Piero Marietti. Riofreddo è sin dalla seconda metà del XIX secolo luogo di villeggiatura.
4 – Piero Marietti, Il tesoro di Ntonio. Il destino nel suono di un nome, Roma, Gangemi, 2001.
5 – P. Marietti, op.cit., p.51.
6 – Conti sostiene che gli uomini che lavoravano alla calcara sono sempre stati quattro. Marietti parla di un solo uomo che lavorava alla calcara.
7 – Un tempo le pietre si trasportavano con il carretto a due ruote e si facevano da 4 a 6 viaggi.
8 – P. Marietti, op.cit., pp. 53-54. Il termine “calecalaro” non è stato riscontrato durante le ricerche sul campo come parola usata dai paesani.
9 – I due uomini che non lavoravano, si “buttavano per terra alla ‘cama’, un ‘cappottacciu’” o una vecchia coperta addosso per riposare.
10 – Le patate si mangiavano tradizionalmente con tutta la buccia.
11 – P. Marietti, op.cit., p.53.
12 – A. Di Nola, Enciclopedia delle Religioni, vol. 2, 1970, p.1666.
13 – P. Marietti, op.cit., pp.53-54.
14 – La pozzolana si acquistava a Vicovaro, a Savona o anche a Roma.
15 – C.G. Jung, op. cit., pp.13-14.
16 – G. Bachelard, op. cit. p.175.
17 – P. Marietti, op.cit., p.55.