CAPISTRELLO, IL PAESE DEI MINATORI

CAPISTRELLO, IL  PAESE  DEI  MINATORI

di Gianfranco Ricci

Capita, a volte, che un paese si identifichi in un mestiere. La presenza di una industria, di una coltura specifica o lo spirito di emulazione portano un numero rilevante di persone nate in uno stesso luogo a esercitare la stessa arte (1). Quando ciò accade, è l’intera collettività che ne resta condizionata dal punto di vista economico e sociale.
Capistrello è il paese dei minatori. Si vuole che lo sia fin dalla sua fondazione, che la leggenda attribuisce agli schiavi-operai dell’imperatore Claudio impegnati nello scavo dell’Emissario del Fucino (2). Certamente lo è dalla realizzazione del nuovo Emissario, intrapresa nel 1854 da Alessandro Torlonia (3). Il nobile romano aprì infatti a Capistrello numerose cave di pietra calcarea, materiale principale dell’opera, e qui installò  gran parte degli impianti e delle opere di superficie connesse allo scavo. Vista la desolante arretratezza della Marsica dell’epoca (il cavallo era un animale raro e fabbriche di chiodi e corde dovettero essere impiantate in loco essendo inaffidabili i collegamenti viari), le maestranze specializzate arrivarono da fuori, fin dalle lontane terre romagnole e marchigiane dei Torlonia: capimastri forestieri, dunque, ma manodopera locale. Così cominciò a diffondersi un mestiere pesante e ingrato, che a distanza di più di un secolo non si sa se benedire o deprecare.
Ai lavori per l’Emissario seguirono quelli per la linea ferroviaria Avezzano – Sora. Questi furono altrettanto impegnativi dal punto di vista delle opere sotterranee. Nel tratto Capistrello – Pescocanale il grande salto di quota, dai 734 m.s.l.m. ai 630 delle due stazioni, è infatti risolto da un sinuoso percorso che perfora la montagna e fa capolino per brevi tratti, fino a costeggiare il Liri: in tutto 6 trafori, di cui uno assai lungo e tutto in curva, che passa sotto l’abitato antico di Capistrello. In quello stesso periodo, poi, furono realizzate allo sbocco dell’Emissario due piccole centrali idroelettriche, tra le prime in Italia ad entrare in funzione nel 1906. In tutto quindi, un cinquantennio pressoché ininterrotto di lavoro in galleria per i minatori e in cava per gli scalpellini.
I grandi eventi del secolo scorso arrivarono a sconvolgere anche la  Marsica; così la Grande Guerra prima e la depressione economica degli anni ’20 poi diedero il via al fenomeno che avrebbe segnato da allora la vita sociale del paese: l’emigrazione maschile. Un distacco reso necessario dalla penuria di lavoro, visto che ormai il paese da contadino quale era si era trasformato in operaio, ma senza avere industrie. Da allora il lavoro veniva svolto per lo più all’estero: in Germania, Belgio, Francia, prima che la risollevata economia italiana del dopoguerra richiamasse gli operai di Capistrello di nuovo in patria. Ma successivamente ricominciò l’emigrazione, questa volta verso paesi più lontani: il Vicino Oriente, l’Africa, il Sudamerica; luoghi dove i minatori realizzarono le opere di ingegneria che hanno dato lustro all’Italia. Così generazioni intere di figli sono cresciuti senza i padri; e anche il paese si è sviluppato male, privo dei suoi uomini migliori.
Quando gli utensili principali del minatore -  termine con cui designiamo non solo il cavatore di materiale ma anche lo scavatore sotterraneo tout-court -  erano braccia, pala e piccone nonché candelotti di esplosivo, il sacrificio fisico era ovviamente molto superiore a quello che sarebbe oggi, considerato che l’evoluzione delle macchine ha affrancato l’uomo dalle fatiche più gravi. Il tempo non ha cancellato però l’inquietudine dell’ambiente di lavoro, quel sentirsi sovrastati da una massa greve e compatta e allo stesso tempo pronta a rovinare, sommergendo tutto; né ha cancellato, seppur mitigata, l’insalubrità della galleria: un’afa stagnante, l’umidità, la polvere, il rimbombo dei mezzi meccanici.
Lo scavo di una galleria si effettua per stadi progressivi. Oggi esistono macchinari che scavano il foro-guida come talpe, ma fino a una ventina di anni fa l’incedere del cantiere era più lento. All’inizio del XX secolo, quando il foro aveva già raggiunto la dimensione voluta, si realizzava la volta in pietra e mattoni; decenni dopo si costruirà in cemento armato in modo da avere le spalle protette da eventuali frane. Davanti a questa, si avanzava (5) intaccando la parete compatta del terreno con fori trivellati all’interno dei  quali si inseriva l’esplosivo; dopo di che si facevano brillare le cariche, si asportava il materiale e si realizzava con centine armate la sezione di volta successiva. L’ultima operazione era il getto dell’arco rovescio (6).
Il ruolo più rischioso era ovviamente quello del fochino, il minatore che inseriva le cariche esplosive nei fori battendole una sull’altra. L’esplosione delle cariche inoltre poteva rompere un diaframma solido dietro il quale si nascondeva terreno sciolto, una falda acquifera o una sacca di gas. Quindi al pericolo si  sommava la fatica quando si armavano le centine o si doveva caricare il materiale di scavo a mano se la sezione del tunnel non consentiva l’ingresso di mezzi meccanici. Anno dopo anno l’operaio più capace diventava caposquadra, poi assistente e infine, quando la sua esperienza superava perfino la preparazione di tanti capo cantiere e progettisti, capo-imbocco. Diverse le mansioni, ma immutato l’ambiente di lavoro e le conseguenze sulla salute.
Sulla “Piazza del Mercato” di Capistrello, un obelisco di cemento svetta più alto della vicina colonna in pietra che celebra i caduti della Grande Guerra: questo perché è stato più alto il prezzo che il paese ha pagato al lavoro. Sono mille le Marcinelle (7) in cui gli operai di Capistrello hanno lasciato la vita o subito incidenti; ed è impossibile contare le vite spezzate dalle malattie legate alla galleria. Chi ironizza  sulle pensioni di invalidità non deve avere mai sentito il respiro di un malato di silicosi, la malattia che più di ogni altra ha segnato e stroncato la vita della maggior parte di questi operai.
Santa Barbara è la patrona dei minatori ed ogni 4 dicembre la vita nei cantieri si ferma; nelle gallerie per un giorno il rombo delle macchine lascia il posto alla preghiera e per una volta l’operaio e l’ingegnere mangiano uniti, allo stesso tavolo, sotto la stessa protezione. I grandi trafori e le autostrade italiane, i viadotti e le dighe nei luoghi più inospitali di tutto il mondo: dall’Africa al Vicino Oriente prima, nell’Est europeo e nella Cina oggi, hanno visto protagonisti questi uomini con la loro maestria e i loro sacrifici. Quelli che sono tornati (e tornati in salute) lo devono alla fortuna, al caso e anche alla Santa dei minatori. Chiedeteglielo e magari vi risponderanno di no: ma se volete bestemmiarla in loro presenza, preparatevi alla fuga!

1 – Basti ricordare i cuochi di Villa Santa Maria, i ceramisti di Castelli o gli orafi di Valenza Po; ma anche i cavatori di Carrara, anche se nei centri maggiori probabilmente l’impatto sociale del singolo mestiere diminuisce.
2 – Ipotesi non suffragata dalle fonti storiche, che citano un solo alloggio per gli operai, posto sul versante fucense. La logica vuole però che le maestranze fossero dislocate nel territorio di Capistrello, lungo il quale si sviluppa per il 90% la galleria sotterranea. Da ciò l’ottocentesco motto comunale “Caput castrorum” (Il più grande degli accampamenti), da cui si vuole far discendere il toponimo. Che però, molto più semplicemente, potrebbe essere legato all’orografia del territorio: Capistrello è posto sul fianco sinistro della valle del Liri in una stretta gola: un “Capistrum”, appunto.
3 – La bibliografia sul prosciugamento del Fucino, una delle maggiori opere di ingegneria dell’antichità e dell’Italia post-unitaria, è vastissima. Un utile compendio, arricchito da bellissime illustrazioni e mappe, si può leggere in: AA.VV., Il Fucino e il suo emissario, Chieti, Carsa, 1994.
4 – Capistrello passò dai 2.400 abitanti circa del 1850 ai 6.000 del 1921. Un’espansione rapidissima, dovuta anche all’affermarsi dell’industria della pietra: gli scalpellini del paese si sarebbero fatti conoscere in tutta la regione e anche a Roma, fino a proporre la dura pietra locale per la realizzazione del Vittoriano (dove peraltro vinse il concorso il più candido e friabile Botticino). L’ultima cava è stata chiusa nel 1974, quando ormai le case del paese l’avevano raggiunta e le continue esplosioni delle mine rappresentavano un serio pericolo. Chiuse le cave, è morta pian piano ogni tradizione artigiana in loco. Eppure, ad aprire le  attivissime cave di Coreno Ausonio (FR) è stato ancora un cavatore di Capistrello.
5 – Di qui il termine avanzamento, che indica la parte più lontana dall’imbocco.
6 – L’arco rovescio è la parte della galleria che noi non vediamo, quella per intenderci sulla quale viene impostato il piano stradale, ma che ha una funzione statica importantissima: il tunnel può resistere alla pressione creata dalla massa di terreno solo perché ha la forma di un “tubo” chiuso.
7 – Nel maggio del 1957 nella miniera di Marcinelle, in Belgio, per un crollo morirono 240 operai.

Nella fotografia che accompagna questo articolo, scattata da Luigi Ricci nel 1959, l’ingresso di una “finestra”
in Val d’Ultimo. La “finestra” è una galleria secondaria, di servizio; si notino le armature ancora in legno.