IL MESTIERE DEL “CASARO” DALLA VALLE DEL SALTO ALLA SARDEGNA

IL MESTIERE DEL “CASARO”
DALLA VALLE DEL SALTO ALLA SARDEGNA

di Ilaria Candeloro

Classe 1930. Sono ormai settantenni gli ultimi della Valle del Salto che trovarono la loro strada professionale in Sardegna fin da giovanissimi. Facevano il mestiere di “casaro” e lo hanno fatto così bene da aver formato una scuola, quella dei continentali, maestri dei Sardi stessi nella lavorazione del formaggio. Il flusso migratorio dalla Valle del Salto in Sardegna, verso i maggiori centri di produzione casearia, è un fenomeno peculiare della provincia di Rieti, sorto un po’ per caso già agli inizi del XX secolo, quando una società cooperativa romana (che operava nella Campagna Romana) decise di impiantare una filiale in Sardegna, dove era abbondante la produzione di latte. Fu così che portò con sé dei lavoranti dalla provincia di Rieti che già operavano nella ditta. Successe poi che questi si affermarono con la loro bravura a tal punto da far spargere la fama di “casari doc”, della cui presenza ogni ditta sarda avrebbe voluto fregiarsi. In breve tempo il fenomeno si diffuse a macchia d’olio. Ognuno che andava anche una sola stagione a lavorare in Sardegna guadagnava un posto per qualche altro parente o compaesano e così lungo l’arco del secolo tutta la popolazione maschile della valle del Salto, si può dire, ha prestato la sua manodopera nell’industria casearia sarda, chi per una stagione chi per molti anni.

I racconti dei “casari”
Così uno dei “casari” (1) ora in pensione narra l’inizio di questo fenomeno:
- Si è creato con ditte continentali. Perché è la Società romana, perché il nome stesso…è una società di Roma, che è andata in Sardegna e allora conosceva qualche pastore, mi ricordo Berardo Speranza  uno dei primi, che sapevano fa’ il formaggio e allora l’hanno portato lì. Questi poi uno ha portato questo e così via.
- Come si chiamava questo signore?
- Sarà morto 100 anni fa. Questo è il primo che è andato in Sardegna: Berardo Speranza.
Il racconto si colora di toni mitologici, così come nel nome del capostipite, una speranza per tutti coloro che poi, grazie a lui, poterono nel corso di tante generazioni usufruire di un lavoro ben pagato con cui mettere sù altrettante famiglie. Questo racconto di fondazione, tuttavia, non è più nei ricordi di tutti quelli che sono partiti, perché l’episodio si perde nella notte dei tempi e molti delle generazioni più recenti non si sono mai chiesti chi avesse iniziato: andavano perché qualcun altro a sua volta li aveva portati.
Così un altro “casaro” in pensione (cognato del precedente) racconta dei suoi esordi:
- Mio padre già era vecchio di Sardegna. La prima volta gli è stato fatto il posto in Sardegna, mio padre era ‘cieco’, non conosceva niente, ci hanno scritto una lettera come si doveva comportare, come fare il formaggio, doveva prima il latte metterlo in caldaia, poi scaldarlo, tutto il procedimento, e poi cagliarlo, squagliarlo, tutto scritto. Poi è andato là ci si è trovato bene, poi piano piano ha cominciato con poco lavoro, poi c’era anche un manovale pratico che lavora sempre nei caseifici, e il formaggio lo faceva fare a quello, e “dai, tu sei giovane, più di me, dai” e guardava, s’è imparato mio padre con quel ragazzo. Dopo mi ha portato pure a me, ma erano parecchi anni che già stava lì, poi siamo stati in una ditta Moretti, e mio padre faceva il capogiro, il controllo, a tutti i suoi  caseifici, 12-14 caseifici. La sera tornava al caseificio mio, alla sera ritornava alla sede, alla mattina ripartiva con la corriera, con la macchina, andava a un altro caseificio…

Il capogiro e gli spuntini
In questo racconto ci sono gli elementi della carriera-tipo cui si poteva andare incontro: si veniva per lo più chiamati da un parente, si andava e si faceva un praticantato e poi negli anni se c’era la costanza del lavoro, l’impegno e l’attitudine si diventava capogiro, cioè controllore del lavoro degli altri. Il capogiro godeva di maggior prestigio, rischiava ancora meno degli altri di perdere il lavoro, poteva scegliere le persone nuove da reclutare e quindi vantava un potere “sindacale”, anche presso la comunità locale perché è evidente che dal paese d’origine senza l’appoggio del capogiro non si andava da nessuna parte.
Nella valle del Salto diverse furono negli anni queste figure, dotate di spiccata personalità e carisma che molti, anche tra la popolazione comune, ricordano ancora oggi. Spicca fra tutti Giuseppe Picconi, mitico capogiro, che della Sardegna assimilò usi e costumi, tanto da scegliere lì la donna da sposare e da tornare sempre meno nella terra d’origine.
La storia di Picconi mette in luce due aspetti interessanti all’interno del fenomeno migratorio che interessò la valle del Salto: uno riguarda le dinamiche dei flussi che hanno comportato assimilazioni e integrazioni culturali di diverso grado, l’altro riguarda il ruolo della donna, lo “scambio delle mogli”, si direbbe nel linguaggio antropologico, che ha comportato anche qui diverse forme di acculturazione.
Da una prima ricognizione delle fonti orali ancora esistenti (tanti purtroppo non ci sono più) emerge come il flusso migratorio abbia conosciuto due forme tipologiche: stagionale e stanziale. Il primo, più frequente, ha riguardato un gran numero di maschi soprattutto in età giovane, che partivano dal loro paese verso novembre-dicembre e vi facevano ritorno dopo circa sei mesi, per l’estate. Questo tipo di emigrazione era anche funzionale all’economia locale, in quanto il lavoro della terra era fermo durante i mesi invernali e quindi l’arrotondamento mediante il lavoro in Sardegna era assai ben visto. Fra questi giovani non tutti facevano poi ritorno gli anni successivi. Per lo più a tutti capitava di fare un paio di stagioni, ma coloro che scelsero di dedicare l’intera vita lavorativa a questo lavoro stagionale, rendendolo così non più un arrotondamento ma il lavoro principale, furono molti di meno, anche perché il tipo di lavoro era molto pesante. Un secondo tipo di emigrazione riguardò quelle persone che si trasferirono stanziali in Sardegna, portando con sé la famiglia, o in qualche caso, formandola sul posto. In questo caso si trattò di impieghi fissi in ruoli anche di responsabilità soprattutto presso aziende importanti, come la Galbani, che aveva i suoi stabilimenti a Chilivani (SS).
- Sì 13 anni. Allora ero fisso. Prima andavamo, perché è così: prima. Dunque io mi so’ congedato nel ’49, 46, 48, ho cominciato andare in Sardegna però allora andavamo stagionali, ce ne andavamo tanti da Lucoli, però andavamo in piccoli caseifici come si faceva allora.
Nell’esperienza di questo pensionato di Fiamignano hanno convissuto entrambi i tipi di lavoro con vantaggi e svantaggi in entrambi i casi. Il lavoro stagionale allontanava dalla famiglia, ma nello stesso tempo era un’occasione di libertà e di ritrovo con amici e compagni della stessa avventura. Di questa “goliardia” rimangono testimonianza i ricordi dei cosiddetti “spuntini”, come li chiamavano i Sardi, appuntamenti gastronomici fra i vari “casari” a fine giornata (che a volte percorrevano anche 100 chilometri per parteciparvi) con ogni ben di Dio da mangiare.
- La Sardegna pure io tante volte, non se ne può parlare, perché in una zona si usa così in un’altra così, per esempio in tanti posti fanno il maialetto sottoterra, arrostito, non lo so, però si fanno degli spuntini, io ne ho fatti parecchi, che uno non ne ha l’idea. La sera magari a quei tempi come dicevo noi in ogni paese stavano dei paesani perché tutti venivano in Sardegna. Una sera ci ha invitati Giggi il Cantatore, a Ogliena a Nuoro […] una sera andavano da un amico una sera da un altro. – - Uno va lì e trova delle cose nuove, avevano fatto un muro a pietra, la brace, ci stavano degli spiedi, tre quattro maialetti, un castrato, la sera perché tutti lavoravamo di giorno, magari facevamo 100 kilometri […]…per esempio ci invitava il casaro di Fiamignano, ci invitava no? E lui insieme ai suoi padroni, i suoi amici trovavamo ‘sta festa, carne, vino, guarda certi spuntini…
Nel lavoro stanziale c’è il ritrovarsi con l’intera famiglia, uno scambio maggiore di rapporti coi locali, un radicamento maggiore nella Sardegna, dove si mettono radici, a volte anche affettive, e l’ambiente lavorativo e domestico si cerca di  “addomesticarlo” e di renderlo più dolce, più ospitale:
- Qui eravamo appena arrivati, ciavevamo piantato le rose, perché lì era tutto un deserto…
- Quindi avevate anche un po’ di terra?
- Ciavevamo l’orto…
- Poi a me mi piaceva l’uva avevo piantato l’uva…
- Alla fine facevamo pure il vino…
- Perché avevo piantato parecchie viti…
- Per esempio, i vostri vicini di casa erano amici, vi frequentavate?
- Sì però poi questi vicini dopo sono andati in congedo, hanno dovute lasciare le case sono venuti altri che non…
- Questo è un matrimonio che mio figlio ha fatto da testimone al matrimonio di quella ragazzetta che sta a Chieti…

Le donne dei “casari”
Qui entra in gioco anche il ruolo della donna, preziosa mediatrice fra il maschio lavoratore e la realtà locale. Nelle interviste ai “casari” in pensione è discreta, ma indispensabile la presenza della donna, che riporta aspetti importanti di queste vicende. La donna era il centro organizzativo della casa, colei attraverso cui  si giocano i rapporti col vicinato e che spesso interveniva anche direttamente nel lavoro del marito con una prestazione d’opera occasionale che consentiva alla famiglia di arrotondare il già buono stipendio principale che spettava all’uomo. Le mansioni che riguardavano le donne erano certamente meno faticose, ma non meno estenuanti: si trattava di lavori come confezionare i cesti di ricotta, cucire i teli da inserire nelle forme del formaggio, pulire le caldaie. Mentre il lavoro dell’uomo era stagionale o fisso, quello della donna andava “a cottimo”, a giornata ed era sempre conseguente a quello del marito, mai autonomo rispetto a esso.
- Allora, mo’ ti dico una cosa pure io. Quando lavoravo  pure io, ci alzavamo alle 5 di mattina, dalle 5 alle 5 del pomeriggio. La mattina quando che ci alzavamo – c’era pure mio fratello – alle 5 si doveva incartare la ricotta, che potevano essere 700-800 ricotte, minimo, e ci dovevamo sbrigare perché passava la Galbani e si dovevano preparare i cesti con le bolle, fatta questa ricotta si dovevano lavare i cestini…alle caldaie
- Faceva lavori diversi la signora?
- Sì non faceva lavori pesanti perché poi c’ero io che rappresentavo perché altrimenti non l’avrei mandata.
- Dopo lavati i cestini cominciava a rientrare il latte, tutta la giornata non bastava…
- Quindi lei lavorava alla Galbani?
- Con le ditte, con mio marito, dove lavorava lui lavoravo io.
Dai racconti delle donne si coglie anche meglio il tipo di rapporto che si veniva a creare con i locali e certamente questo doveva essere migliore con i capi che non fra pari, proprio per la miglior fama di cui godevano i Reatini rispetto ai Sardi
- Non c’era invidia per il fatto che voi…
- Pure le donne…però…Io ciavevo una qualifica…
- L’operaio qui non poteva partire se non era qualificato…
- E come si otteneva la qualifica?
- La qualifica la dà la ditta dove si lavorava. Il giorno del licenziamento, essendo fatto un buon comportamento sul lavoro allora dava la qualifica. C’era la I, la II, la III era ancora più grande, ma bastava avere la I o la II che queste donne che diceva mia moglie non potevano protestare, protestavano lo stesso, ma non avevano la qualifica, non potevano lavorare.

Gli scambi
A parte le inevitabili invidie del caso, lo scambio fra Sardi e Reatini sembra non aver mai prodotto spiacevoli conseguenze, anzi: i Reatini hanno buoni ricordi dei Sardi e viceversa. Anche le poche donne sarde sposate dai Reatini si integrarono bene nella realtà locale apportando, seppur con molta discrezione, i loro usi e costumi all’interno della comunità.  Forse su questo punto resta ancora da indagare perché da fuori ci si aspetterebbe un maggior interscambio, ma è come se al di là di un gran rispetto reciproco non ci sia stato molto mescolamento di tradizioni: quanti dolci o ricette sarde è possibile riscontrare fra i paesi della valle del Salto? Forse è più diffusa la presenza dei tessuti ricamati nelle case dei “casari” in pensione, ma le donne reatine quanto hanno realmente riportato dalla Sardegna? E quanto le donne sarde sposate da Reatini hanno importato qui del loro paese?
Sugli scambi di donne anche qualche racconto “piccante” emerge dai ricordi degli anziani, come quello relativo a  quella donna sarda che capitò in un paese della valle del Salto a ricercare il maschio che l’aveva sedotta durante il suo soggiorno in Sardegna: la donna pretendeva di essere sposata, ma l’uomo qui aveva già famiglia, così lei venne “rispedita” in Sardegna e lui in Sardegna non poté più mettervi piede. Certamente di storie così ne dovettero capitare più d’una, visto che stare sei mesi fuori dal paese riguardò molti e molti uomini. Da questo punto di vista il lavoro stanziale garantiva alla donna sposata una migliore posizione sociale, potendo lei più facilmente seguire in Sardegna il marito a cui veniva assegnata una casa nei pressi dell’azienda casearia.

Il cambiamento
Col mutamento delle tecnologie anche il lavoro in Sardegna ha conosciuto inevitabili cambiamenti: la lavorazione manuale del formaggio è stata completamente sostituita dalle macchine, molte aziende hanno chiuso perché il lavoro viene centralizzato in pochi centri produttivi, magari non in Sardegna, e così a partire dalla fine degli anni ottanta anche il flusso migratorio dei Reatini si è indebolito fino a interrompersi del tutto. Gli anziani “casari” in pensione non attribuiscono però a questo il mancato reclutamento dei giovani d’oggi nell’industria casearia, ma alla scarsa volontà di questi ultimi a impegnarsi in un lavoro che solo il forte bisogno economico spinge ad accettare: è un lavoro durissimo, che non ammette vacanze, malattia, assenze, che non permette uno stile di vita normale, ma impone ritmi durissimi con sveglia alle 2 di notte e lavoro ininterrotto fino alle 5 del pomeriggio; tutte le fasi di lavorazione del formaggio, dalla pulitura del latte alla cagliata alla cottura sono incastrate in  un catena che non si può arrestare e solo dedicandovisi senza sosta si riesce a mantenere il ritmo produttivo. Perciò, dicono gli anziani, i giovani oggi non partono più: ancora i Sardi li aspetterebbero a braccia aperte, ma per fortuna la povertà di un tempo che spingeva gli uomini a partire non c’è più e gli uomini del 2000 possono permettersi lavori migliori, forse meno retribuiti ma più dignitosi nella qualità di vita.
- Adesso non c’è più nessuno che viene da qui?
- No, ora sono tutti Sardi.
- La gente… noi anziani non siamo più andati e i giovani…
- Io o lui o un altro, di lavorare lì non ci vanno..
- Lei che lavoro fa?
- Io lavoro all’autostrada, al traforo del Gran Sasso.
- Quindi vuol dire che qua si trova più lavoro rispetto a prima.
- Sì, ma non è solo il lavoro, è perché è un lavoro insopportabile.

1- Al presente lavoro ha collaborato il prof. Vincenzo Scasciafratti nell’ambito del “Progetto Archivio della Memoria” promosso dall’Amministrazione provinciale di Rieti. Dei  “casari” e delle loro mogli intervistate, che ringrazio sentitamente, riportiamo solo le iniziali dei nomi: S. P., C. F., F. A., G. C.