di Nicola Cariello
Papi e Normanni
I rapporti del papato con i Normanni ed i loro eredi non erano stati sempre idilliaci. Le loro mire espansionistiche in Italia costituivano sostanzialmente una minaccia alla stessa sopravvivenza del dominio pontificio nella penisola. Nel 1059 con il concordato di Melfi era stato trovato un compromesso: papa Nicolò II aveva riconosciuto i loro possessi nell’Italia meridionale, nominandoli però suoi vassalli, obbligati a prestargli giuramento di fedeltà e di sottomissione e a riconoscere il diritto eminente della Chiesa sulle loro terre. Più difficili in seguito erano stati i rapporti con il potente imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), scomunicato due volte e i cui domini si estendevano pericolosamente dalla Germania alla Sicilia.
Alla morte di Federico II, perciò, i papi si erano adoperati per insediare sul trono di Sicilia un candidato che fosse meno indocile e del quale ci si potesse fidare senz’ altro. Nel frattempo, però, in Sicilia regnava per conto di Corradino, nipote minorenne di Federico II, un figlio illegittimo di quest’ ultimo, Manfredi, tutt’ altro che disposto a rinunciare al suo regno. Anzi, molte città nell’Italia settentrionale e centrale, contrarie alla politica pontificia, prendevano apertamente le sue parti e perfino a Roma scoppiavano tumulti popolari che costringevano il papa ad allontanarsi dalla città. Scomparso nel 1261 il pontefice Alessandro IV, il nuovo papa Urbano IV, l’energico francese Jacques Pantaléon di Troyes, che intendeva risolvere al più presto la “questione siciliana”, prese accordi con il re di Francia Luigi IX proponendo la corona di re di Sicilia al di lui fratello Carlo d’ Angiò. Prima, però, sco municò Manfredi, dichiarandolo decaduto dal trono. Nel 1263 iniziarono le trattative per cui Carlo, fratello di Luigi IX, veniva nominato re di Sicilia. Il censo, ovvero la somma annuale che egli avrebbe dovuto versare alla sede pontificia per quell’investitura, fu fissata dapprima in 10.000 once d’ oro con l’ impegno di un ulteriore esborso di 50.000 sterline una tantum al momento dell’ insediamento. Successivamente la somma fu ridotta a 8.000 once d’ oro cui si aggiungevano altri oneri annuali. La morte improvvisa di papa Urbano IV nel 1264 e la successiva elezione di un altro francese, Guy Folques, che prese il nome di Clemente IV, non interruppe la transazione. Fra l’altro fu stabilito che Carlo sarebbe stato nominato per tre anni senatore di Roma. Senza indugio, il 21 maggio 1265 Carlo d’Angiò, con 40 navi e 1500 uomini, sbarcò ad Ostia e un mese dopo riceveva a Roma la bolla d’investitura che lo autorizzava a firmarsi Karolus Dei gratia Rex Siciliae Ducatus Apuliae et Principatus Capuae, almae Urbis Senator, Andegavii Provinciae et Folcalquerii Comes (1).
Non appena ricevuta la bolla d’investitura, il 28 giugno 1265, il nuovo sovrano iniziò immediatamente a legiferare, come dimostrano i registri della Cancelleria Angioina fortunosamente pervenutici (2). I primi atti erano diretti ad assicurarsi il trono di Sicilia e, pertanto, miravano alla preparazione della spedizione militare contro l’armata di Manfredi di Svevia, il quale in un primo momento aveva già tentato di impedire l’ingresso di Carlo nella Città Eterna e, non essendoci riuscito, aveva poi inviato un proclama ai Romani esortandoli invano a sollevarsi contro l’angioino. Secondo il Gregorovius, inoltre, “assoldava truppe saracene in Africa e mercenari persino in Germania, fortificava le piazzeforti della Campania per schierarsi lungo i confini del Lazio allo scopo di tenere Roma sotto la minaccia del proprio esercito”. Poi, a detta dello stesso storico, Manfredi “stabilì di calare su Tivoli passando dall’ Abruzzo; in luglio era a Celle, l’odierna Carsoli … le truppe dei due avversari si scontrarono per la prima volta sulle alture di Tivoli, ma il tentativo di entrare in questa città fallì e lo scontro si risolse in qualche scaramuccia di nessuna importanza”. Comunque “le sue truppe e i ghibellini romani … avevano occupato il castello di Vicovaro, il punto chiave della via Valeria, mentre altri, nei loro castelli, aspettavano l’ occasione propizia per entrare a Roma … (3)”.
Anche il Runciman (4) presenta una versione pressoché simile: “Manfredi s’accorse che le parole non bastavano più. Condusse allora il suo esercito fuori del regno nella valle dell’ Aniene, dopo aver attraversato gli Abruzzi e superato il lago di Fucino …”. A sua volta “Carlo uscì (da Roma) … e s’attestò su forti posizioni sulle alture nei pressi di Tivoli. Manfredi avanzò su Arsoli, sull’ Aniene, a circa quindici miglia di distanza; ma poiché le sue spie gli riferirono che non avrebbe tro- vato appoggi nell’ Agro, non osò attaccare il campo di Carlo. Dopo qualche scaramuccia nella vallata, si ritirò ….”.
La guerra vera e propria con grossi scontri frontali pertanto non era ancora iniziata. Gli avversari stavano ancora studiando reciprocamente le loro mosse tramite spie e confidenti mentre si formavano i fronti degli alleati: si poteva assistere al consueto mercanteggiamento con lo scambio di promesse ed il passaggio di personaggi da un campo all’altro, come nel caso clamoroso di quel Pietro di Vico, acceso sostenitore di Manfredi, presto divenuto alleato di Carlo d’ Angiò. Il papa nel frattempo inviava messaggi alla cristianità esortando i fedeli ad unirsi sotto le bandiere dell’ angioino carissimum in Christo filium nostrum Carolum regem Siciliae illustrem contro Manfredi, il quale profanavit sacra, religiosa foedavit, destruxit ecclesias, afflixit viros ecclesisticos … Sarracenis et aliis inimicis Ecclesiae … se amicitia copulavit e soprattutto regnum Siciliae ad Romanam Ecclesiam pertinens, ut de aliis taceamus, invadens, ac regnicolas perfidia inhumana contractans … turbet Italiam (5).
Carlo d’Angiò e Arsoli
Intanto l’estemporanea marcia di Manfredi su Arsoli, cui accenna il Runciman, rende comprensibile l’ intervento di Carlo d’Angiò elencato fra i pochissimi documenti superstiti del “Registro unico del primo anno di regno di Carlo I (15 luglio 1265 ind. VIII-1 aprile 1266 ind. IX)”. Ecco il testo integrale:
Karolus etc. Radulpho de Zandino, Castellano Arcis de Arsulis salutem et dilectionem sinceram. Mandamus tibi quatenus castrum arcis de Arsulis cuius custodiam commisimus quamdiu nobis placuerit dilecto nostro Guillelmo Carpentario latori presencium tradas et deliberes predicto Guillelmo cum municione et armis existentibus in arce predicta. In tradicionis et deliberacionis predicte arcis ipsi Guillelmo sic facte testimonium et cautelam presentes nostras patentes licteras penes te retinendo. Te etiam per presentes licteras constituimus Comestabulem Servientium et gentium nostrarum burgi et castri predicti quamdiu de nostra processerit voluntate. Datum Rome XXIII Sep tembris Indictionis Regni nostri anno 1.
Item Karolus etc. Omnibus Servientibus et gentibus in Castro et Burgo de Arsulis commorantibus salutem et omnem bonum. Cum Radulphum de Zandino Comestabulem vestrum duximus constituendum vobis mandamus quatenus eidem Radulpho tamquam Comestabuli obedire curetis. Datum ut supra.
Da questo atto, datato da Roma il 23 settembre 1265 (6), apprendiamo che re Carlo d’Angiò inviò a Radulfo de Zandino, castellano di Arsoli, un suo fido, Guglielmo Carpentario, latore di un ordine sovrano (lettere patenti) che imponeva al castellano di consegnare formalmente al suddetto Carpentario la rocca di Arsoli con le armi e le munizioni che vi si trovavano. Con lo stesso provvedimento Radulfo de Zandino veniva nominato conestabile (7) degli armigeri e degli abitanti che popolavano la rocca di Arsoli. Re Carlo, inoltre, si rivolgeva agli armigeri nonché a tutti coloro che risiedevano ad Arsoli perché ubbidissero al loro conestabile Radulfo de Zandino. In quel momento, perciò, è certo che il castello di Arsoli era una vera e propria fortezza militare con una sua guarnigione armata. Carlo d’Angiò agiva in veste di Senatore di Roma e di comandante in capo dell’esercito al servizio della Santa Sede.
La sfortunata e breve scorreria di Manfredi nel mese di luglio aveva probabilmente attirato l’ attenzione del comando militare pontificio sul labile confine tra domini ecclesiastici e regno siciliano nel punto in cui veniva attraversato dalla via Valeria. D’altronde il castello di Arsoli, edificato verso la fine del X secolo, proprio per la sua collocazione alla frontiera poteva svolgere allo stesso tempo importanti funzioni di difesa e di vedetta. Per cui il governo pontificio, benché sul territorio di quella comunità vantasse diritti l’ abbazia sublacense (8), intendeva comunque fare della rocca di Arsoli un caposaldo governato da uomini fidati. A Radulfo o Radolfo di Zandino Carlo d’Angiò donò nel 1270 il casale di Colopacio in terra d’ Otranto (attuale Collepasso in provincia di Lecce) e nello stesso anno Guglielmo Carpentario o Carpentiero ebbe la custodia del castello di Mesiano in Calabria dopo aver servito come castellano del castello di Pimonte nel ducato di Amalfi.
Quelle prese per la rocca di Arsoli erano solo misure precauzionali perché in realtà l’anno dopo, seguito dal suo esercito che dal Piemonte l’aveva raggiunto a Roma, Carlo d’Angiò decideva di attaccare il suo avversario evitando la via Valeria per dirigersi invece a sud lungo la via Latina. È noto che il 26 febbraio del 1266 nei pressi di Benevento ottenne la vittoria grazie anche al tradimento delle truppe dei nobili italiani che abbandonarono il campo di battaglia lasciando che Manfredi vi trovasse la morte insieme con i suoi fidi. D’altronde due anni dopo un ulteriore tradimento avrebbe condannato a morte Corradino di Svevia anche lui sconfitto da Carlo d’Angiò nella battaglia detta di Tagliacozzo il 22 agosto 1268 e consegnato ai nemici tra l’8 e il 9 settembre da Giovanni Frangipane, già sostenitore di Federico II ma convinto dal versamento di una grossa somma a dimenticare il senso dell’onore. Carlo I d’Angiò seguì fino alla fine dei suoi giorni una politica bellicosa riuscendo a controllare un territorio che andava dalla Francia all’Italia fino al Peloponneso ma, per ironia della sorte, proprio il titolo di re di Sicilia alla fine per lui rimase privo di senso perché la rivolta nota come Vespri Siciliani scoppiata nel 1282 gli tolse per sempre l’isola.
Per la penisola non era un buon momento: l’Italia dell’epoca, corrotta, dilaniata da fazioni estreme, politiche dissennate ed egoismi, percorsa da condottieri stranieri e priva di una guida sicura veniva definita senza mezzi termini “nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!” dal sommo poeta che viveva proprio in quegli anni burrascosi.v
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1 – CARLO D’ANGIÒ però fu nominato ufficialmente re di Sicilia il 6 gennaio 1266 in Laterano. La carica di Senatore di Roma, al quale spettava la rappresentanza della città, era la più alta magistratura cittadina. Esercitava funzioni che variarono nel tempo e comportavano a seconda dei casi la titolarità di poteri più o meno estesi in campo amministrativo, giudiziario e militare. Carlo, inoltre, era conte di Provenza e Folcaquier poiché aveva sposato Beatrice, la quale dal 1245 era l’erede del conte di Provenza Raimondo Berengario IV.
2 – L’archivio della Cancelleria Angioina di Napoli, che conteneva importanti documenti relativi al periodo 1265- 1435, subì gravissime perdite nel corso del tempo. Infine, ben pochi degli oltre 500.000 atti di cui era ancora ricco si salvarono dall’incendio che il 30 settembre 1943 il comando germanico dette ordine di appiccare alla Villa Montesano di Napoli, dove era custodito. Singoli studiosi ed istituzioni concorsero poi a ricostruire, per quanto possibile, un tale patrimonio. Cfr. ACCADEMIA PONTANIANA, I registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri con la collaborazione degli archivisti napoletani, presso l’Accademia, Napoli 1963, II edizione, vol. I (1265-1269).
3 – FERDINAND GREGOROVIUS, Storia di Roma nel medioevo, Newton Compton Editori, Roma 1972, vol. III, libro X, pp. 363 e 370; cfr. anche GIUSEPPE DEL GIUDICE, Codice diplomatico del Regno di Carlo I e II d’Angiò ossia collezione di leggi statuti e privilegi ecc. dal 1265 al 1309, Stamperia della R. Università, Napoli 1863, pp. 45 segg. (XIII, Anno 1265, Agosto 25, Indizione VIII, Perugia, papa Clemente IV: Dilecto filio O. Sancti Adriani diacono cardinali apostolicae sedis legato … Venerat Manfredus Ecclesiae persecutor usque ad Cellas, et aliquandiu fuit ibi cum exercitu copioso, ad civitatem anhelans, quam sperabat sibi proditionaliter reddi ...).
4 – Cfr. STEVEN RUNCIMAN, I Vespri siciliani, Storia del mondo mediterraneo alla fine del tredicesimo secolo, edizioni Dedalo SpA, Bari 1986, p. 117.
5 – Cfr. GIUSEPPE DEL GIUDICE, Codice diplomatico del Regno di Carlo I e II d’Angiò, ecc., cit., pp. 50 segg. (XVI, Anno 1265, settembre, Indizione IX, Perugia: Clemens episcopus servus servorum Dei dilecto filio Simoni tituli S. Ceciliae presbytero cardinali apostolicae sedis legato salutem et apostolicam benedictionem).
6 – Riportato interamente in GIUSEPPE DEL GIUDICE, Codice diplomatico del Regno di Carlo I e II d’Angiò ecc., cit., pp. 54-55; parzialmente in ACCADEMIA PONTANIANA, I registri della Cancelleria Angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri, ecc., cit., p. 7, numero 18; riassunto in italiano in CAMILLO MINIERI RICCIO, Alcuni fatti riguardanti Carlo I di Angiò dal 6 agosto 1252 al 30 dicembre 1270 tratti dall’Archivio Angioino di Napoli, Tipografia R. Rinaldi e G. Sellitto, Napoli 1874, p. 6, numero 23.
7 – Dal francese conestable, a sua volta derivato dal tardo latino comes stabuli, soprintendente alle stalle imperiali e perciò alla cavalleria. Qui è da intendersi come comandante militare del castello.
8 – Cfr. FRANCESCO LIVERANI (a c. di), Spicilegium Liberianum, Firenze 1863, lettera di papa ONORIO III del 1216 a GIOVANNI abate del monastero di Subiaco, p. 713 e lettera di papa GREGORIO IX del 1231 a LANDO abate dello stesso monastero, p. 659, in cui si conferma al monastero sublacense il possesso del territorio di Arsulae. V. anche PAOLO ROSATI, I confini del possesso del monastero sublacense nel medioevo (secolo X-XIII), in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, vol. 135 (2012), pp. 60-62. Nel 1255, fra l’altro, papa ALESSANDRO IV aveva confermato la giurisdizione del monastero sublacense sulla chiesa di s. Maria de Arsulis (cfr. CHERUBINO MIRZIO, Cronaca sublacense, Roma 1885, p. 319).