di Marcello Proietti
Dalla seconda metà dell’800 fino ai primi anni ‘50 del secolo successivo, gli abitanti di Saracinesco di allora, per i quali “lavorare sotto padrone” aveva sempre rappresentato una sorta di limitazione della libertà personale, iniziarono la loro emigrazione verso Roma. Un’emigrazione un po’ strana che spiega il carattere di quella gente. Partivano dopo la semina, tornavano per il raccolto. Durante la loro permanenza in Città dovevano trovare un lavoro dalle caratteristiche ben definite: poco faticoso, ben retribuito e, soprattutto, ad orario molto flessibile.
Un’occupazione che rispondesse a questi requisiti la trovarono, e vi riuscirono conciliando due mestieri che apparentemente non avevano nulla in comune. Nacque la figura del modello-fioraio. Le donne posavano in particolare per i pittori, mentre gli uomini per gli scultori. Questi ultimi, sia per la loro prestanza fisica che per i caratteristici tratti somatici (spesso dai loro corpi e dai volti venivano ricavati calchi in gesso) erano considerati più adatti, a differenza delle donne, a posare per opere scultoree, mentre le donne venivano preferite dai pittori per le figure femminili dei loro dipinti.
Piazza di Spagna, via Condotti, via Margutta, via del Babuino, via della Croce costituivano la meta della dolce vita romana d’allora e le fioraie di Saracinesco facevano a gara “a ficcà ‘mbétto”, cioè ad infilare i fiori nelle audaci scollature delle signore, obbligando così i loro cavalieri a laute offerte. Era in quelle occasioni che i numerosi pittori di via Margutta, colpiti dalla loro genuina bellezza, le trasformavano in modelle per i loro quadri. Augusto Jandolo, lo scrittore romano che in questa via di Roma visse quotidianamente la vita dei modelli, nel suo ultimo libro “Studi e modelli di via Margutta” così li descrive: “le più belle creature di Saracinesco e di Anticoli Corrado, nei loro caratteristici e vistosi costumi, si davano convegno in via Margutta”. E più oltre prosegue: “I modelli di Anticoli si distinguevano da quelli di Saracinesco per l’allacciatura delle ciocie, i primi se le stringevano ai piedi con strette corrégge i secondi con i lacci”, in dialetto spa(s)ci, cioè spaghi.
Molto tempo è passato da allora. A Saracinesco le ciocie non le porta più nessuno, i pittori non vanno più alla ricerca di volti per i loro quadri, i caratteristici vestiti sono spariti, sostituiti da capi griffati che ostentano vistose etichette scritte, per lo più in lingua inglese, dal significato spesso ignoto anche a chi l’indossa.
Un ricordo, però, che il trascorrere del tempo non riesce a cancellare, resta a testimoniare l’eccezionale contributo che “quelle fioraie’’ hanno dato all’emancipazione delle donne di Saracinesco e alla trasformazione dei loro mariti in “uomini”, anticipando i tempi delle rivendicazioni femministe. Noi le ricordiamo con immenso affetto e gratitudine per quanto sono state capaci di donarci non solo come sostegno materiale, ma soprattutto come insegnamento, trasmettendoci la loro medesima forza d’animo nell’affrontare l’accidentato percorso della vita.
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‘E fiorare saracinescare
Nùn ve vedete più pè lle feremàte ‘e gli tranvi. Nù zé sènde più «vòle signò, vòle».
’E guardie, Nasone, Dendidoro, nùn vé scàppanu più apprésso pé ’lle vie ‘e Piazza Vittorio.
’E vignaròle nùn v’abbùscanu più ì spurtini pìni ‘e fiori sotto agli banghi. Quande vòte vàu sarvàtu dalla cammorétta.
Chièlle và a ficcà ‘mbetto pé via ‘e ‘lla Croce, Piazza ‘e Spagna, o fòre a Costanzi.
Pé lle macchie più chièlle và pé rùschi. I varzìtti nù ‘nvìlanu più ‘e palline cò lla gulùsia ‘e gliù cinema.
I sicchiu sé jutéa quanno i cinema era chiusu. Sempre accuscì.
Alle ville e lle vigne ‘e Tivuri ‘a cipullina mo sé fràcia. Andachìndi puzzéa. A vedella era bèlla! Vùi la vennèste pé mughétto salevàticu.
Màngu tinda cò ll’anillina addoréa. Sete sparite tutte una appei allatra.
Au cagnàtu pùru i fiori che ssé trovanu tutti i mici, chindi i pummidori. Tutti ardi uguali, chindi se gl’èsse fatti un zartu, unu ‘e vigli che fàu gl’abbitùcci pé vélle femméne secche, secche.
Nù ‘nzé chiamanu più chindi epprima. I trumbuni gli chiamano “i fiori del dottor Zivago”; i cuccùri, ciclamini; i taratufuli, girasoli; i crisantemi, margherite olandesi.
E’ meglio che nun gé stete più, vé resparagnéte tande arrabbiature.
Pianu, pianu vénne sete ite tutte, c’ète lassàtu a commàtte co’ stì matti. Càgnanu rùgnu agli cristiani, rattaccanu mani e péi, dé ‘nà pecora né fàu doa, mmìschianu ‘e piande, cagnanu i culuri agli fiori, cà ddì farràu addorà pùru a cipullina.
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Il brano è tratto da: Marcello Proietti, Saracinesco. Ricordi, Immagini, Dialetto. Ed. Tiburis Artistica, 2004.
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