di Gerardo Rosci
Quando vedo ragazzini che vanno a scuola alla guida di piccole autovetture o di motorini ultimo tipo, mi ritornano spesso alla mente i mezzi di locomozione che utilizzavamo noi, studenti di allora, e gli enormi disagi che dovevamo affrontare per andare a scuola a Tagliacozzo. Erano gli anni fine quaranta, primi cinquanta.
Eravamo un piccolo gruppo di studenti che frequentavamo la scuola di avviamento professionale di tipo industriale. Eravamo due di Petrella, tre di Cappadocia ed uno di Verrecchie. Noi di Petrella e due di Cappadocia prendevamo la corriera; un terzo andava in bicicletta. Scendere a Tagliacozzo in bicicletta, a quel tempo, richiedeva molta prudenza, perché la strada era bianca, stretta, piena di curve e con un brecciolino insidioso. Tuttavia non era un grosso problema scendere; lo era tornando su, con quel fondo stradale, con quelle rampe e con biciclette senza rapporti.
Io frequentai l’avviamento solo per un anno; poi passai alle medie. Devo dire, comunque, che l’aver frequentato quella scuola, anche se per un solo anno, mi è servito molto nella vita, avendo potuto acquisire quel minimo di manualità necessaria a risolvere tanti problemi pratici nel vivere quotidiano. Avevo imparato a lavorare il legno e il ferro, in numerose ore di laboratorio.
La corriera partiva da Cappadocia e andava tre giorni a settimana a Roma, mentre gli altri giorni limitava la corsa a Tagliacozzo. Nel primo caso la partenza era alle cinque e un quarto da Cappadocia; alle cinque e mezzo ripartiva da Petrella per arrivare a Tagliacozzo intorno alle sei e qualcosa.
Il compagno di Verrecchie si faceva tutti i santi giorni Verrecchie-Tagliacozzo-Verrecchie a piedi, con qualsiasi condizione di tempo. Solo nei giorni invernali, quelli veramente brutti, si concedeva il lusso di prendere la corriera; però doveva, comunque, farsi a piedi la strada fino al bivio con la provinciale (allora ancora strada comunale e non asfaltata), perché a quel tempo la corriera non deviava per Verrecchie; d’altra parte la strada era piuttosto stretta, tortuosa e naturalmente non asfaltata, anzi con il fondo piuttosto malandato. Sulla corriera ci s’incontrava e si faceva il tragitto insieme fino a Tagliacozzo. Si scendeva davanti al Bar Moroni, come allora si chiamava, di fronte ai giardini, vicino al municipio.
Mia madre mi svegliava alle cinque del mattino. Lei era una donna molto mattiniera; non era gran sacrificio per lei alzarsi a quell’ora, ma certamente lo era per me. Io mi vestivo di corsa e correvo in cucina a lavarmi il viso; d’inverno andavo direttamente in cucina con i vestiti in mano, per poter indossare al caldo quei vestiti così freddi da sembrare bagnati, davanti al camino, dove un bel fuoco scoppiettava già da un po’. Prendevo con le molle un tocco di brace accesa, la mettevo dentro gli scarponi, quelli che usavamo allora, con la suola chiodata e li agitavo per scaldarli dentro, prima di calzarli.
Intanto, sul tavolo trovavo già pronta la mia grossa tazza di caffè e latte bello caldo. Seduto davanti al camino, me la mettevo tra le ginocchia e v’inzuppavo dentro un paio di fette di pane che tostavo lì, sulle molle adagiate sulla brace. Quando era tempo di castagne, mia madre, oltre al caffè e latte, mi faceva trovare una “ristera” di caldarroste; mentre ne mangiavo lei me ne sbucciava altre che mettevo in tasca, calde calde, per mangiarle strada facendo o a scuola, dove più di qualche compagno me le implorava: “Eroh! Non me lle da’ ddu remmonnèlle?”. Così a Tagliacozzo chiamano le caldarroste sbucciate, che da noi si chiamano “varole”.
In una grossa cartella di fibra, una specie di piccola valigia dove tenevo i libri, mamma mi sistemava il mio pranzo che normalmente consisteva in due belle fette di quel pane fatto in casa da lei; in mezzo ci metteva del prosciutto od una salsiccia del nostro maiale, oppure la frittata fatta con le uova delle nostre galline. Molto spesso mi faceva una “panontella” con la ventresca, così buona se mangiata calda, appena fatta, ma meno gradevole se mangiata fredda, con il grasso che si era rappreso nel pane. A volte mi ci metteva del formaggio fresco (cascitto frisco) che allora si produceva in casa; avevamo, infatti, cinque o sei pecore e due capre che il capraio del paese conduceva al pascolo ogni giorno sul monte Arunzo.
Ricordo con tanta nostalgia quelle fette di prosciutto un po’ grosse, tagliate alla svelta da mia madre. Eppure, allora, quel prosciutto così buono e genuino, mi sembrava che avesse un sapore sempre uguale, sempre lo stesso; come lo avrei cambiato volentieri con delle belle fette di tenera e profumata mortadella! Quella che alcune volte avevo acquistato, eccezionalmente, a Tagliacozzo per un panino extra. Quella buona mortadella che ogni tanto ci riportavano le zie da Roma quando venivano d’estate a villeggiare. Ma le zie di Roma non ammazzavano il maiale e non avevano le provviste per l’inverno come le avevamo noi in paese. La voglia di cambiare, però, di provare cose nuove era tanta per noi ragazzi che, tra le nostre montagne, di cose ne conoscevamo poche; ma quelle poche, comunque, le conoscevamo molto bene. E poi la mortadella bisognava acquistarla dal salumiere, giù a Tagliacozzo (su da noi non esisteva) e questo sarebbe stato un lusso, quasi un capriccio. I capricci erano una cosa quasi sconosciuta; anzi, ci si rinunciava in partenza perché di difficile soddisfazione. A quei tempi la cosa importante era avere il pane con qualcosa in mezzo che fosse disponibile; la mortadella era un bene voluttuario.
Mamma avvolgeva il tutto con un foglio di carta; allora non c’era molta disponibilità di carta, e spesso si utilizzava quella gialla usata dal macellaio. “Cerca di riportarmi indietro la carta per la prossima volta” mi diceva, ed io, dopo mangiato, me la ripiegavo con cura, mezza unta com’era; in quel mondo semplice e pulito non vi era neppure la benché minima idea di che cosa fosse la tecnologia del confezionamento e dell’imballaggio dei nostri giorni; si conosceva e si praticava moltissimo il riciclaggio, quello vero ed onesto; lo spreco era considerato un peccato, uno schiaffo alla miseria, e a quei tempi di miseria ce ne era ancora tanta, ma riservata e dignitosa. “Non sprecate il pane!” ci dicevano gli adulti. Se facevamo cadere delle molliche del pane che stavamo mangiando, i vecchi ci riprendevano, prospettandoci una specie di legge del contrappasso nell’altro mondo, dicendo: “tutte quelle molliche le dovrai raccogliere una a una e mangiarle, in purgatorio”.
Per ovviare alla mancanza di carta e per maggiore praticità, mia madre, abilissima nel cucito, mi fece un piccolo sacchetto di stoffa di cotone, ricavato forse da vecchie lenzuola, e mi ci sistemava il pranzo. Quel sacchetto, nel suo piccolo, ricordava la “musarola” dove i mulattieri e i contadini tenevano il loro pranzo (“mmotìna”).
Prendevo la cartella e, via di corsa, ché la corriera stava arrivando da Cappadocia, strombazzando ad ogni curva. Arrivavo spesso giusto in tempo, lì alla piazza davanti al negozio di Scrocchino. Salivo e mi sedevo vicino agli altri amici. C’era sempre quel forte odore di nafta, di fumo di sigarette e di aliti. Il tragitto era piuttosto lungo e accidentato. La strada bianca era stretta e piena di curve che a me, che soffrivo un po’ di mal d’auto, accentuavano quel malessere procurato da quegli odori; poi, con il tempo ci feci l’abitudine. Con occhio sdegnato, implorante ma rassegnato, guardavo quegli uomini con il toscano in bocca o con quelle terribili Alfa o, ancor peggio con quelle sigarette arrotolate con il trinciato forte che odoravano di tutto fuorché di tabacco; li avrei presi a schiaffi, se avessi potuto, ma i ragazzi allora non potevano quasi nulla e, d’altra parte, era normale fumare in autobus; lo faceva anche il conducente.
Eppure, all’interno delle corriere lungo i portapacchi, c’erano tante belle targhette rettangolari, smaltate bianche, con le scritte in nero: “Vietato fumare”, “Non parlare al conducente”, “Vietato sputare”; si, c’era anche la scritta “Vietato sputare”; non era raro il caso in cui il bravo paesano, fumando il sigaro o la pipa caricata con un mozzicone di toscano, drenava la sua salivazione direttamente sul pavimento, tra uno scarpone e l’altro.
Capitava molto spesso che qualcuno, sentendosi lo stomaco in subbuglio per il mal d’auto, andasse a mettersi nei primi sedili vicino al finestrino dove il fastidio era più sopportabile; ma a volte arrivava il momento cruciale: un conato irrefrenabile, ed allora tirava fuori la testa dal finestrino e…uah….; i finestrini dietro, se erano aperti, venivano rapidamente richiusi dagli altri viaggiatori. Le fiancate di quelle corriere erano molto spesso decorate da lunghe comete.
Finalmente si arrivava; il bigliettaio saliva sul tetto della corriera dalla scaletta posteriore, per tirare giù dal portabagagli merce di ogni genere: qualche valigia, una bicicletta, qualche sacco di canapa mezzo pieno, un basto o un mazzo di ferri da mulo; a volte anche una gabbia con dentro le galline che la famiglia di qualche mulattiere portava con sé, nei trasferimenti verso i luoghi di lavoro in campagna.
Immaginate il nostro disagio durante l’inverno, ancora al buio, con il freddo e spesso con la neve. La scuola apriva alle otto. Avevamo fatto un accordo con il bidello (mi ricordo che lo chiamavano Maggitto): lui ci permetteva di stare nei locali della scuola oltre l’orario, considerato che la corriera tornando da Roma arrivava a Tagliacozzo la sera alle cinque e mezzo, per poi arrivare a Petrella e a Cappadocia oltre le sei. Naturalmente il bidello esigeva una contropartita: dovevamo aiutarlo a pulire le aule; un lavoro ingrato e disagevole, in mezzo a quei grossi e pesanti banchi di legno di allora. Per non alzare polvere con la scopa, si dava un’annaffiata al pavimento. Quando a sera si arrivava a casa, c’era appena il tempo di fare i compiti e di cenare; e il giorno dopo la solita storia, ma con un po’ più di calma; la corriera questa volta andava solo a Tagliacozzo. Si partiva alle sette e si ritornava verso le due e mezzo del pomeriggio.
Il giovedì, giorno di mercato, la corriera andava solo a Tagliacozzo ed era sempre sovraccarica di gente, di bagagli e di mercanzia. Dai paesi si andava al mercato per qualsiasi tipo di spesa. Un fruttivendolo di Cappadocia scendeva tutti i giovedì per approvvigionarsi di frutta e verdura.
Uno di quei giovedì, la corriera nel tornare su era veramente stracolma; molta gente, infatti, scendeva a Tagliacozzo a piedi per risparmiare, ma risaliva in corriera dopo aver fatto le spese. Mio Zio Peppino, detto Peppinitto per la sua breve statura, padrone della corriera stessa e che fungeva da bigliettaio, non essendoci più spazio a bordo neppure in piedi, chiese a Francesco e a me di sistemarci nel portabagagli sul tetto. Non ce lo facemmo dire due volte; ci arrampicammo rapidi e felici per la scaletta posteriore e ci sistemammo tra bagagli vari e cassette di frutta.
Eravamo nel Bengodi…a quei tempi la frutta era quasi un lusso e noi ragazzi ne eravamo avidi; normalmente ce la andavamo a rubare, durante le nostre scorribande, sugli alberi di chi ne aveva e la teneva d’occhio. A quel tempo, come premio, a noi ragazzi si dava una mela, una pera o magari un’arancia; per i ragazzi di oggi, plagiati dalla pubblicità televisiva con schifezze varie, mangiare un frutto è quasi un sacrificio.
Lungo il tragitto pensammo di servirci di quell’abbondanza, senza badare che qualcuno, se non il proprietario della frutta stessa, poteva accorgersene osservando le nostre ombre proiettate sulla parete rocciosa. Ad ogni modo andò tutto bene; prendendo un pezzo qua ed uno là, ci facemmo una solenne scorpacciata di pesche e di prugne.
A quel tempo l’unica strada per Roma era la Tiburtina Valeria che passava attraverso il valico di Monte Bove. Una sera d’inverno aspettammo invano, a Tagliacozzo, il ritorno della corriera da Roma; il valico era bloccato dalla neve e noi poverini, infreddoliti, aspettammo, aspettammo; era notte, erano ormai circa le sette e non sapevamo che cosa fare. Finalmente passò da quelle parti Maggitto, il nostro amico bidello che, con aria sorpresa, esclamò: ”Eròh! E vu che stete a fa ancora ecco!?”
Quando realizzò il nostro dramma: “On mmi preoccupete, ché mo ci penzo i” e ci accompagnò dall’altra parte dei giardinetti, ad una trattoriola che fungeva anche da affittacamere. Eravamo in quattro; il quinto, più fortunato, aveva un padrino a Tagliacozzo che lo ospitò a casa sua.
Ricordo che a cena mangiammo fagioli con salsicce in umido ma, cosa molto strana in un paese famoso per i suoi salumi, le salsicce erano dolciastre e al nostro palato erano piuttosto sgradevoli. Eravamo avvezzi a quelle salate e pepate.
Dopo cena ci mostrarono le camere per la notte: una era con un letto matrimoniale, l’altra con due letti, un matrimoniale ed un singolo. Sul copriletto di quest’ultimo c’era un’enorme macchia, unta non so di che. Nessuno aveva il coraggio di dormirci, perciò ci sistemammo nei letti matrimoniali e spegnemmo la luce.
C’eravamo appena addormentati quando ci risvegliò un vociare fuori della porta; subito dopo si accese la luce nella stanza a due letti, dove dormivo io. Era arrivato un altro sfortunato ospite; era Pasquale, un mulattiere nostro compaesano, sui sessanta. Era arrivato con il treno, sperando, poi di prendere la corriera per Petrella.
- Eh, Pasquà, pure tu!’?
- Aoh! E vu vajjù che facete ecco?
- Simo remasi a pède pure nu!
Pasquale si girò verso il lettino cominciando a spogliarsi; si tolse la giacca ma se la trattenne in mano; lo sguardo gli era andato su quella orribile e sudicia macchia nel copriletto.
- Mamma! E quesso lo che è? Ma i me nne schifo; – esclamò Pasquale, rinfilandosi la giacca – ecco me sa che ci stao pure i puci.
Si riallacciò tutti i bottoni della giacca, si tolse solo le scarpe e s’infilò nel letto così come stava, completamente vestito.
Dormimmo a Tagliacozzo due notti, finché non fu riaperto il valico di Monte Bove. L’unica consolazione fu di non doversi alzare la mattina alle cinque e tornare la sera alle sei, poiché la scuola era a cento metri dalla locanda.