ANTICHE IRRIGAZIONI E INONDAZIONI NELLA VALLE DELL’ANIENE

di Giuseppe Bonifacio

Ju Sésto di Vallepietra

Tra le pieghe nascoste dei Monti Simbruini, che circondano il paese di Vallepietra (RM), è ancora in uso un millenario sistema di irrigazione, indicato come ju sésto, che nella sua elementare funzione richiama direttamente la tipologia degli impianti irrigui ideati da molti popoli antichi, come mesopotamici, inca, romani e certamente equi. Gli abitanti e gli stessi contadini non conoscono il significato del vocabolo né sanno dare spiegazioni sul perché di tale denominazione, anche se a memoria di tutti si è fatto sempre in questo modo e ciò lascia intuire quanto l’uso del sésto sia remoto. Molto probabilmente il termine, nella sua accezione più recente e generale, ha il significato di realizzare in modo regolare un determinato lavoro, procedere correttamente al compimento di un’opera, che nel nostro caso è riferibile alla sistemazione o attuazione di una serie di canali di superficie scavati nel suolo per il trasporto idrico, da un livello superiore di captazione ad uno inferiore di distribuzione (1). Le sorgenti perenni, disseminate in tutto il territorio circostante, hanno consentito di realizzare un articolato sistema di irrigazione, caratterizzato da una rete di canalizzazioni a cielo aperto, modellate secondo lo scoscendimento naturale del luogo, per convogliare l’acqua nei terreni seminati e con la giusta inclinazione, indispensabile per una completa irrigazione del fondo. A ben guardare è lo stesso principio adottato dai romani per trasportare l’acqua da un calcolato punto di captazione fino all’Urbe, attraverso i grandiosi acquedotti costruiti in leggera e costante pendenza, in grado di far giungere a caduta il flusso idrico fino al centro della città di Roma. E lungo il corso dell’Aniene i romani edificarono quattro importanti acquedotti: in ordine di tempo l’Anius Vetus, 272/269 a.C., l’Aqua Marcia, 144 a.C., l’Anio Novus e il Claudio, 52 d.C., rovine dei quali sono ancora ben visibili nel territorio poco distante la città di Tivoli.

A Vallepietra, seppure in modo ormai residuale, si ripete per fini agricoli lo stesso schema imperniato sulla captazione, conduzione, destinazione. Solo che qui non vi sono manufatti o costruzioni inerenti lavori idraulici, tutto è costruito operando sui dislivelli e sulle condotte ricavate semplicemente scavando il suolo, che vengono riutilizzate ogni anno, dopo l’inevitabile manutenzione primaverile con opere di contenimento e di assestamento del terreno. Tale sistema era praticato anche altrove nella valle dell’Aniene, come a Subiaco, dove l’abbondanza di acqua lo permetteva. Tra il mese di maggio e metà giugno riprendevano i lavori per rimettere in funzione ju sésto. Anzitutto bisognava togliere le foglie e quanto altro ostruiva la discesa dell’acqua e contemporaneamente si procedeva alla rimozione di terra e sassi caduti nei canali, per ridare ad essi la giusta profondità e capienza. Inoltre era necessario riparare cedimenti degli argini con graticci di legno, tappare fori provocati da animali, sfrattare la folta vegetazione per liberare il passaggio nel bosco fino al sito di captazione, a volte piuttosto distante.

Questa attività preparatoria assorbiva un bel po’ di tempo, però il lavoro era diviso fra tutti i contadini che si servivano dell’acqua di quella sorgente e quindi di quel sésto, almeno per quel che riguardava la canalizzazione principale, da cui lungo il percorso si diramavano solchi fin nell’interno degli agri privati, gestiti dai singoli proprietari. L’insieme degli interventi richiedeva una buona organizzazione operativa per far si che tutti stessero al passo con il regolare svolgimento dell’attività agricola, che ha i suoi tempi non derogabili. Verso la metà di giugno, quando le giovani piantine necessitano di maggiore acqua per le crescenti temperature si andava nel luogo di captazione per dare l’avvio alla irrigazione. Per lo più si deviava con sassi l’acqua di un torrente verso la refota (2), dove una piccola paratoia sollevata apriva il varco al flusso idrico, che serpeggiando avanzava tra l’erba profumata.

Per quanto l’acqua arrivasse copiosa, poteva servire al massimo tre o quattro campi privati la volta, per cui si facevano i turni in base alle prenotazioni, alle condizioni delle colture e forse anche a consuetudini acquisite nel tempo e non mancavano furibonde liti per qualche manchevolezza o disaccordo: era in gioco l’intero raccolto. Tutti dovevano stare ai turni e ai patti. Ogni appezzamento riceveva continua acqua da mattina a sera e alla occorrenza pure la notte, per uno o più giorni, a seconda dell’ estensione dell’ager, fin tanto che tutti i solchi, irrorati due-tre per volta, non avessero ricevuto la stessa quantità di acqua. L’impianto idraulico a cielo aperto de ju sésto si metteva in funzione mediamente ogni dieci, quindici giorni, secondo le condizioni climatiche e al massimo fino ai primi di settembre, quando ormai il caldo estivo lascia il posto ad aria più fresca e il ridotto bisogno di acqua può essere soddisfatto direttamente a mano, con una modesta annaffiata. Anche quando sono state introdotte pompe irroratrici artificiali, soprattutto gli anziani hanno voluto mantenere il tradizionale sésto, perché ritenuto in assoluto il migliore sistema per la resa e bontà del raccolto, in quanto permette di irrorare solo le radici, lasciando tutta la pianta asciutta. L’ aspersione a pioggia con la pompa invece bagna tutto il fogliame, che per eccessiva umidità potrebbe sviluppare muffe o parassiti, con danno per la produzione. Una tale quantità di acqua distribuita con questo sistema a ragnatela può essere giustificata solo dalla coltivazione di alcune piante, come quella del fagiolo, che la richiede in abbondanza. Il paese di Vallepietra, infatti, è noto per la varietà di ecotipi di fagiolo, di grande qualità e prelibatezza, tra cui spicca per rinomata bontà il fagiolone o ciavattone.
Ad esso vanno aggiunti: il
pallino, il tonnarello, il borlotto o regina, il cannellino, il fagiolo rosso, la fagiolina romanesca o romanesco, i cappelletti o cappellette ed anche il cioncone, recentemente introdotto dai vicini paesi di Riofreddo, Vallinfreda e Vivaro Romano.

La refota di Marano Equo

Scendendo nella media valle dell’Aniene, proprio sotto il paese di Marano Equo, incontriamo un territorio altrettanto ricco di sorgenti, alcune delle quali anche dal riconosciuto valore terapeutico, per la presenza di acque variamente mineralizzate. Sopra gli argini del fiume Aniene si distendono nella piccola pianura alluvionale campi qua e là coltivati, che fino ad alcuni decenni fa producevano quantità considerevoli di fagioli e cipolle. Purtroppo oggi resta molto poco di questi prodotti autoctoni e sempre meno si vedono campi arati, con grande impoverimento della biodiversità. Qui non è difficile trovare terreni privati dotati di sorgente, che assicura anche d’estate acqua in abbondanza per l’irrigazione, che qui si attua in uno spazio del tutto pianeggiante, secondo altre modalità rispetto al sistema montano del sésto. La superficie del terreno argilloso coltivato è delimitata in tutti e quattro i lati da una ampia e profonda canalizzazione, cui fanno seguito altre scavate da una parte all’altra del fondo a mo’ di pettine. Porzioni rettangolari di terreno della stessa estensione si intervallano ai fossi artificiali, predisposti per essere invasi dall’acqua al momento dell’ irrigazione. Quindi la sorgente nel suo canale di uscita viene sbarrata con teli, in poco tempo il livello dell’acqua sale, così da formare la refota(piccolo serbatoio di raccolta), e giunge nei fossi, che la ricevono nel numero di due o tre per volta, intervenendo con le solite piccole chiuse. L’acqua della sorgente non può essere sufficiente a riempire in breve tempo tutto il labirinto agreste ed infatti occorre almeno un giorno di lavoro per completare l’opera. L’acqua così distribuita era usata anche per altre forme di irrigazione. Il contadino munito di un attrezzo appositamente da lui costruito, formato da un lungo bastone terminante con una biforcazione cui è fissata una latta a forma di padella, da qui il suo nome, prelevava dal fosso acqua che spargeva a pioggia sul seminato con gesto ritmato e veloce. Tradizionalmente si utilizzava per irrorare le piccole piante di cipolle, un tempo produzione tipica di Marano Equo, ma anche ortaggi, agli, ecc. Un altro attrezzo simile alla padella era ju cocchio, costituito da un bastone più corto terminante con un barattolo o secchiello ad esso legato, che serviva per attingere acqua dal fosso, da rovesciare verticalmente sulla piantina o accanto alle radici. Nell’uno e nell’altro caso le azioni richiedevano abilità e competenza per non danneggiare i teneri germogli e l’irrigazione doveva essere somministrata a ragion veduta, che solo l’occhio e l’esperienza del contadino sapevano guidare bene. Da una buona irrigazione dipende la buona crescita delle piante.

La Parata di Roviano

Seguendo il corso del fiume, dopo pochi chilometri entriamo nel territorio di Roviano, che nella parte più ad est si giova delle acque del Bagnatore, piccolo affluente dell’Aniene, il cui apporto un tempo rendeva ubertose le terre circostanti, quando si coltivavano e l’agricoltura costituiva una importante risorsa economica per l’intera valle. Qui diversi terreni, pur situati nella stessa pianura alluvionale, sono in leggerissima pendenza sopra il naturale scorrimento idrico per cui, per usufruire delle vicine acque del Bagnatore, i contadini hanno costruito delle parate, sbarramenti per l’accumulo dell’acqua, ottenuti con pali conficcati nel terreno e coperti di teli impermeabili. Una volta che la parata era serrata, il livello dell’acqua si alzava e iniziava a risalire lungo il canale di collegamento appositamente realizzato, fino a raggiungere i punti più elevati del campo. Si veniva così a formare un’ ampia superficie invasa dall’acqua, che contribuiva a mantenere un ambiente umido di tipo palustre, peculiare sia per vegetazione che per la presenza di tanti vertebrati e invertebrati che vi abitano. La pressione dell’acqua che si sviluppava in questa specie di grande vasca era notevole, per questo si verificavano sfondamenti o addirittura cedimenti dell’intera parata, cosa che richiedeva continue riparazioni e interventi di rinforzo. Una volta che l’acqua risaliva lungo tutto il fosso si procedeva ad irrorare piante e orti con i cocchi, sia aspergendola a pioggia, sia rovesciandola direttamente sopra le foglie. Sono ormai tecniche scomparse e con esse il mondo antico della civiltà contadina, che ingegnosamente le aveva elaborate.


Ju rotone ovvero la vecchia ruota idraulica nella media valle dell’Aniene

Oggi tutte le coltivazioni nella valle dell’Aniene sono irrigate con pompe meccanizzate, ma fino agli anni Sessanta del secolo scorso nella pianura alluvionale compresa tra Subiaco e Anticoli Corrado, localmente chiamata aimara (3), si vedevano girare ruote idrauliche per l’irrigazione, note con il nome di rotoni, rientranti nella categoria classificata con il termine da sotto (indicante il senso di flusso) e quasi certamente le più antiche ad essere costruite. I rotoni, posizionati verticalmente ad un lato del fiume e ancorati per non essere trascinati via, venivano fatti girare sfruttando l’energia cinetica della corrente, che imprimeva alle pale munite di recipienti di legno un moto rotatorio verso l’alto. Per una buona spinta occorreva che le pale nella loro circolare immersione andassero a raggiungere una profondità compresa tra i 20 e i 40 centimetri sotto il pelo libero. L’acqua così prelevata si rovesciava al culmine del giro sopra una specie di vasca di raccolta e con una serie di scivoli finiva tra le colture di mais e di fagioli, tra cui il corallo e la regina. Tutto il manufatto era costruito sul posto con vario legname, ad eccezione di un albero centrale di trasmissione in ferro da cui si diramavano a raggiera pali, tenuti saldi fra loro da assi disposti a cerchio. Le dimensioni dei rotoni, come di tutte le ruote idrauliche di questo tipo, dipendevano “ dall’ampiezza delle pale, dal numero di pale immerse contemporaneamente, dalla velocità della corrente” (4). È stupefacente come in questo appartato angolo laziale a ridosso dei Monti Simbruini l’impiego della noria, nella tipologia de ju rotone, abbia attraversato i millenni per giungere fino ai nostri giorni. Secondo diversi storici infatti non solo era in uso allo stesso modo presso i romani, ma risalirebbe addirittura al 200 a. C., ideata dai mesopotamici e soltanto in seguito diffusa nel Mediterraneo dopo le conquiste romane (5). Infine dalla medesima temperie storico-culturale e geografica si può far discendere il sistema idraulico de ju sésto, per cui possiamo dire che la Mesopotamia non è stata mai così lontana.

Le esondazioni del fiume Aniene

Il fiume Aniene è noto anche per la velocità delle sue acque e per le piene improvvise, a volte rovinose per il territorio che va da Subiaco ad Anticoli Corrado e per quello di Tivoli. Negli ultimi decenni infatti in questi tratti più volte l’Aniene ha tracimato, soprattutto nel periodo autunnale e primaverile, arrecando distruzioni di non poco conto. L’uomo ha cercato di contenere il fiume entro il suo letto con opere di rinforzo degli argini, però restano ancora punti critici, specie quando grandi quantità di pioggia si rovesciano in breve tempo sull’intero bacino idrografico, facendo ingrossare a dismisura la sua portata. Gli annali di storia ricordano innumerevoli piene del fiume Aniene che nei secoli hanno causato terribili devastazioni, come già scriveva Plinio il Giovane nel 105 d.C., quando fra l’altro annotava: «L’Aniene…screpolò i monti qua e là ostacolato dalle macerie dei sassi franti, affannandosi a rientrare nel suo alveo, abbatté case e fluì sulle loro rovine sommerse… tutto ciò poté osservare chi, sulla parte più alta della città, restò al sicuro dalla tempesta. Egli vide galleggiare sulle onde masserizie, attrezzi dei campi, buoi, aratri, bifolchi e ogni sorta di armenti; e fra essi tronchi d’alberi, travi e tetti di ville(6)”. Non si è mai dissolta del tutto la paura verso l’Aniene, tanto che ancora oggi il 14 agosto in occasione della festa dell’Assunta la processione con il Salvatore si reca sul ponte Gregoriano per compiere una serie di rituali finalizzati ad invocare la protezione divina. L’effigie del Cristo in trono, dapprima rivolta verso Roma e poi verso Tivoli per chiedere speciali benedizioni, si gira adesso una terza volta in direzione dell’Aniene, mentre un sacerdote legge: «L’acqua nella bibbia è salvezza, ma anche distruzione e ora verrà gettata una fiaccola accesa nelle acque, è il Cristo che si immerge nel nostro abitato, è la luce che splende fra le tenebre. Degnati di liberare questa città dalla violenza delle acque del fiume, noi ti supplichiamo».Dopo di che il Segretario della Confraternita lancia la fiaccola nell’acqua sottostante e la processione riprende il suo percorso per dar luogo alla cerimonia dell’inchinata in Piazza S.Maria Maggiore, molto sentita e partecipata dai tiburtini. La celebrazione dell’inchinata di Tivoli ha conservato cerimoniali di non poco conto riferiti al rapporto con l’elemento acqua, tanto che per le modalità con cui si esprime il rituale è legittimo ipotizzare una qualche forma cultuale antica sopravvissuta fino ad oggi. Ancora una volta passato e presente si intrecciano fortemente e nell’acqua ritroviamo aspetti e significati importanti della nostra storia.

 



1 - La parola richiama espressamente quella indicante il procedimento con cui nei mulini le due macine ,«dovevano essere messe in sesto» per ottenere un’ ottima farina. Questa era un’operazione molto delicata che doveva essere eseguita sia la prima volta che veniva messa in opera una macina, sia dopo la rabbigliatura, sia ogni volta che usciva di sesto. Una rabbigliatura (martellatura) fatta male o una messa in sesto non corretta si evidenziavano quando la mola ripartiva: o emetteva un rumore particolare, segno che la macina non stava lavorando in piano, oppure il macinato non fuoriusciva in modo omogeneo e con la dovuta grana richiesta». In questo concetto di assestare, mettere in atto azioni precise e rispondenti alla funzione voluta, ritroviamo lo stesso significato nelle due fasi lavorative, che includono la messa in atto di un sistema operativo e produttivo. Citazione tratta da MASSIMO BASILICI (a cura di), Mole e Mulini di Pereto (AQ), Edizioni Lo, p.30, in www.pereto/documenti.it.
2- La refota, chiamata anche rifolta o refuta, sta ad indicare un bacino di accumulo d’acqua, comprendente anche il canale di svuotamento, destinata a far girare le macine dei mulini. La caduta dall’alto dell’acqua mette in moto la turbina e quindi la ruota mobile superiore. Nel caso di Vallepietra è soltanto il punto in cui l’acqua viene semplicemente smistata per il sésto, non c’è accumulo. «Il termine “refota” potrebbe derivare dal verbo latino “refodere” ossia scavare, o dal verbo “refundere” ossia riversarsi»: GIUSEPPE GISOTTI, I mulini ad acqua di Vivaro Romano
(RM), p.51in.www.sigeaweb.it
3- Il termine dialettale deriva dalla parola latina limaria, cioè acqua ricca di limo. A valle di Subiaco i romani crearono, come altrove, una piscina limaria per far decantare il più possibile l’acqua dell’Anio Vetus, prima che questa entrasse nella condotta verso Roma.
4-Web.tiscali.it/vanni_38/idra25.htm,RUOTA-IDRAULICA-Tiscali.
5- Altri studiosi affermano invece che la prima ruota idraulica sia stata utilizzata dallo scienziato-scrittore Filone di Bisanzio nel III sec. a.C.. www.gruppostoricoromano/sezione-tecnologia-romana. Altre fonti infine la ritengono un’invenzione ellenistica alessandrina, collocabile negli ultimi secoli a.C.: LEONARDO LOMBARDI, Altri usi delle ruote idrauliche, p. 39, in www.sigeaweb.it
6 – GINO MEZZETTI, L’Aniene un fiume di luce, Tivoli 1993, p. 21

Il mio ringraziamento a Gino e Alessio di Vallepietra, a Luigi di Marano Equo, a Ilario di Roviano.