G. SFORZA, Dis-Incanti, Diànoie Metànoie Parànoie d’un Vegliardo diarista virtuale, Fabreschi Editore, Subiaco 2020, (16×23), pp. 1120, 2 voll.
Nel tormentato corso di questo Annus terribilis la tipografia Fabreschi di Subiaco non è restata certo inoperosa, tutt’altro. Molte opere, anche ponderose, sono uscite dai suoi torchi (in epoca di scrittura e stampa virtuale l’espressione, volutamente anacronistica, vuol suonare gradevolmente, ironicamente, giocosamente provocatoria). Tra queste una in particolare, nella sua concezione nella sua elaborazione e nel suo pondo cartaceo faticosa, ha visto la luce: Dis- Incanti, trascrizione a stampa di un diario virtuale degli ultimi dodici anni nel quale l’autore, quasi nonagenario uomo del presente, non si limita a riflettere sugli eventi del giorno e ad esternarne le risonanze che dentro di lui hanno, ma lancia retrospettivamente un potente fascio di luce sul suo complesso passato, non trascurando le vicissitudini della mente e del cuore, a partire dai remoti anni dell’infanzia fino, via via, agli anni della lucida senescenza. Ne è nata una sorta di zibaldonica autobiografia ove i momenti della crescita fisica e interiore sono descritti con l’intensità di un ‘pagano’ sentimento della terrestrità avvertita come natura naturans, come elemento determinante dell’essere e dell’esserci, secondo il ben noto adagio roussauiano l’uomo “essere la sua terra che cammina”. Come D’Annunzio affermava di portare la terra d’Abruzzo sotto il tacco dei suoi stivali, così l’autore di Dis-Incanti può dire di aver portato la terra equa, tanto prossima culturalmente all’abruzzese, incollata alla sua carne e alla sua anima ovunque, territori fisici o territori metafisici, le turbate vicende della sua vita l’abbiano condotto. Se culture altre, soprattutto la francese e la tedesca, sembrano in Dis-Incanti predominanti, al lettore attento sicuramente non sfuggirà il marchio ‘equo’ essere profondamente impresso su ogni pagina dell’opera, indelebilmente. Lasciamo all’ Avvertenza premessa dall’autore, seria faceta ironica e autoironica quanto basta, il compito di meglio illustrare natura e intenti del suo Dis-Incanti. (La Redazione)
“La prima parte del mio zibaldone è dunque qua, bella e pronta per il macero, dopo 12 anni di gioiosa fatica. Se in ogni mia opera, teoretica o poetica, mi sono senza ambage denudato, qui oltrepasso ogni limite: lacero il velo del fenomeno ed affondo le mani nella frattaglia del mio noumeno, scavando in ogni suo più nascosto e più o meno ripugnante anfratto, in ogni suo meandro, in ogni sua tortuosità, in ogni sua sinuosità, nello stile insopportabilmente guittesco e pletorico e retorico da esaltato che mi distingue. Eccomi, qui ci sono tutto, nel bene e nel male, nel bello e nel brutto. Qui c’è tutto il mio umano, da cui nulla alienum puto.
Se ogni mio parto fu faticoso, nessuno lo fu più di questo: raccontarmi giorno per giorno in ogni mia vicenda materiale e spirituale, di sogno o di veglia (di veglia-sogno di sogno-veglia) nella più cruda, invereconda spesso crudele verità, dissotterrando nel presente il passato, e presente e passato proiettando in un futuro di essi non meno nella sua irrealtà reale, in un linguaggio ignaro di freni di riluttanze di pudori, è stato duro per il diarista metafisico anacronisticamente romantico e simbolista, disordinato e a-metodico per principio che, pur fedele alla correttezza del dire e del narrare, o dell’inventare, e talvolta pedante fino al fastidio, ha faticato a mantenere all’elaborato coerenza di materia e di forma, di contenuti e di stile. Ma l’abbondanza del materiale non ha permesso alle mie residue forze di controllarne meticolosamente ogni parte, in modo da offrirlo pulito e polito, e unito e compatto pur nella sua naturale diaristica frammentarietà, senza le esuberanze, le sciattezze o le ricercatezze stilistiche, alla curiosità del lettore amico. Dopo l’ennesima rilettura, per ogni nuovo refuso evidenziato, per le mille fastidiose ripetizioni (per la verità ognuna collocata in un contesto diverso in grado di farla ri-significare) lo scoramento era in agguato. Per questo ho rinunciato a rileggere ancora, lasciando al lettore il fastidio, il compito e il piacere (e perché non l’onore?) di spulciare il faticato elaborato rendendosi co-correttore delle bozze di un …capolavoro (!), che mi son deciso a stampare meis impensis in poche copie numerate, oltre che per il mio piacere, per quello dei pochi amici, familiari, allievi, colleghi che dodici anni or sono me ne espressero caldamente il desiderio. Per me e per essi, ripeto, solo per me e per essi mi son deciso a ridonare alla carta i miei Dis-Incanti, già affidati all’impersonalità dell’etere a uso e abuso di tutti (circa 80000 risultano a oggi i visitatori, un numero per le mie attese davvero esagerato) onde riappropriarmene anche coi sensi esterni, ridonarlo alla diletta polvere degli scaffali, rigoderne vista tatto gusto profumo, riudire il fruscio delle pagine sfogliate al chiuso del mio studiolo o all’aperto del balcone o del giardino, fra i canti degli uccelli e i profumi dei fiori, o, negli orecchi assenti, il fragore in sottofondo della città stordita. Tanto mi basta. Non è mio costume partecipare a fiere e mercati, ambire a premi, offrirmi in pasto ai critici, “vendetta dell’intelligenza sterile nei confronti dell’arte creatrice” (Elias Canetti), “termometri anali” (Marinetti).
Con la mia nota modestia …io me sopra me corono e mitrio!. (Il Vegliardo)