FRA’ MODESTO DA ROVIANO, ESEMPIO DI “SANTITA’ BAROCCA”

FRA’ MODESTO DA ROVIANO,
ESEMPIO DI “SANTITA’ BAROCCA”

di Boris Tacchia

Uno degli aspetti più rilevanti dell’età della Controriforma è costituito dalla ridefinizione dei modelli di santità in relazione alle tendenze di fondo operanti nella Chiesa ed al rapporto che essa intendeva stabilire con la società. Questo processo, lungi dall’essere soltanto frutto di una elaborazione e di un’imposizione di schemi prodotti a livello istituzionale, è stato soprattutto il culmine di un’evoluzione dei valori e delle rappresentazioni religiose che, già dall’età medievale, aveva investito un’Europa in preda a grandi sconvolgimenti politici ed economici.
In questi termini parlare di “santità barocca” significa parlare di “mentalità barocca”: osservando la prima possiamo capire le dinamiche culturali che, dall’inizio del Quattrocento fino agli inizi del Seicento, hanno portato al cambiamento del sistema di riferimento proprio dell’intera società occidentale. In questo senso “il santo”, in quanto catalizzatore ideale di valori positivi, può servire allo storico, come anche al sociologo o all’antropologo, come importante strumento di  analisi culturale.

Come diventare santi
Dopo il Concilio di Trento, con l’inizio dell’età della confessione forzata, della disciplina e della capillare evangelizzazione, soprattutto nelle campagne, si avviò anche un’opera di precisazione dei presupposti che permettevano l’avvio del processo di canonizzazione, delle qualità, cioè, che bisognava avere per essere considerati “santi” ( cfr. la costituzione Coelestis Hierusalem di Urbano VIII, 1634).  Fondamentali erano: la purezza della dottrina – da verificarsi negli scritti del canonizzando che dovevano essere esenti da qualsiasi errore pubblicamente non ritrattato -, l’esistenza di una legittima fama di santità – che aveva origine in una vita integra, illustrata di virtù eroiche e dal compimento di miracoli -, l’assenza di un culto indebito prima della proclamazione romana.
Il santo, più che un taumaturgo, doveva essere un personaggio caratterizzato dalla vita virtuosa e dai miracoli compiuti non in ragione del suo culto ma come prova della grazia particolare in suo possesso. Tra le varie virtù da avere in vita, sottolineata maggiormente dalla Chiesa cattolica dopo la frattura con i protestanti, c’era quella della totale adesione all’ortodossia dottrinale.
Ciò che qualificava il raggiungimento della santità in modo preciso era, però, l’esercizio in grado eroico delle virtù stesse i cui elementi caratterizzanti possono essere facilmente rintracciabili. Tra essi emerge in modo netto il disprezzo del mondo, considerato come dominio di Satana, dal quale, per raggiungere la salvezza, il santo vuole allontanarsi radicalmente, non solo rifuggendo ad ogni pur innocente forma di piacere mondano, ma sottraendosi ad ogni collegamento con la terra. In questo contesto si spiega l’atteggiamento negativo verso il corpo, considerato come luogo di possibile tentazione e quindi oggetto di particolari mortificazioni e discipline. In alcuni santi, queste ultime raggiungono persino la ricerca di forme dolorose di penitenza; in altri si limitano invece ad un annullamento di sé nella totale dedizione all’assistenza caritatevole verso le forme abbiette e ripugnanti della povertà.
In molti casi l’esperienza principale della vita di un santo era il suo cammino mistico, iniziato con la negazione iniziale dell’Io, nella convinzione della nullità della creatura di fronte a Dio, pieno di incognite e tormenti, e che porterà alcuni (Teresa d’Avila o Giovanni della Croce) a quella impresa grandiosa che è il contatto con il sovrannaturale: un contatto che non produce soltanto visioni, illuminazioni, estasi, ma giunge in alcuni casi all’unione spirituale dell’anima con Dio. L’ideale eroico della santità non è, però, solo abbandono del mondo ma anche trionfo della “vera Chiesa” attraverso l’opera di evangelizzazione e conversione: di qui la prontezza al combattimento per la fede, l’obbedienza, lo spirito di sacrificio e di missione, il martirio.
Tra i nuovi santi molti saranno, infatti,  i missionari, i  religiosi  impegnati nella  salus animarum (Carlo Borromeo) e soprattutto, in base al rinnovato e riordinato assetto ecclesiastico,  i fondatori di istituti educativi o assistenziali (A. Merici) piuttosto che di veri e propri ordini religiosi (Ignazio di Loyola).

Fra’ Modesto un “santo barocco”
Se volessimo scorrere le cronache cittadine, gli annali degli ordini religiosi, i documenti relativi ai processi di canonizzazione, troveremmo, per usare le parole della Zarri: “una costellazione di carismatici, designati, senza alcun riferimento a un riconoscimento istituzionale, col nome di beati”. Alcuni di questi raggiungeranno una maggiore notorietà e per essi si manifesterà l’avvio di un processo cultuale, approvato o respinto dalla chiesa, mentre ancora viventi, altri vengono invece negati come falsi santi.
In questo firmamento di personaggi eccezionali per vita o per fama, ci si imbatte alcune volte in stelle solitarie che, sebbene abbiano perso la loro luce precocemente, mandano ancora dei flebili segnali. E’ questo il caso di Fra’ Modesto da Roviano, un cappuccino laico vissuto alla fine del 1500. Giovanni Flavio, questo il suo nome secolare, aveva vissuto invece una vita in odore di santità rispettando tutti quei “canoni barocchi” visti sopra.
All’età di ventitre anni era entrato nell’ordine in seguito ad un’esperienza mistica – per tutta la vita, avrebbe continuato ad avere visioni, estasi e soprattutto rivelazioni – e si era distinto soprattutto per le opere caritatevoli, per le inimmaginabili penitenze cui si sottoponeva e per le guarigioni miracolose che aveva compiuto. La sua fama si era subito diffusa e molte persone, tra cui alcuni esponenti della nobiltà romana e del clero (il cardinale Brancaccio di Viterbo), gli erano fedeli devoti. Aveva anche scritto molto, soprattutto in materia di fede, e, per le sue teorie sull’Immacolata Concezione di Maria, era stato condannato dal Tribunale della Santa Inquisizione e mandato in esilio a Colonia. Tornato in Italia, nel convento dei Cappuccini a Campli continuò la sua vita frugale e penitenziale fino al 1654, anno della sua morte.
Nel 1662 fu istituito, ironia della sorte, dai Cappuccini de L’Aquila un “Processo sulle eroicità delle sue virtù”, di cui gli atti dovevano poi essere trasmessi alla Provincia romana “ad omnem meliorem finem”. Se furono spediti e se a Roma siano mai giunti è ancora oggetto di ricerca negli Archivi.

DALLA NASCITA AL NOVIZIATO

“Io fra Modesto da Ruviano laico Cappuccino confesso che questo manoscritto è stato composto et scritto da me, manopropria” (Aut.). In questo modo inizia l’Autobiografia di  Frate Modesto da Roviano, al secolo Giovanni Flavio. Scritta probabilmente intorno 1630 per ordine del suo Superiore provinciale (4) ed in presenza di altri due confratelli, Giacomo da Prossedi, predicatore e Giovanni Battista da Manoppello, sacerdote, questa opera ci offre la possibilità di conoscere direttamente le persone e gli avvenimenti che ebbero a che fare con questo singolare uomo religioso.
Giovanni nasce nel 1580 a Roviano, piccolo centro abitato “sotto la Diocesi di Tivoli”, da Astolfo Flavio e Santa. L’archivio parrocchiale, purtroppo, non può offrirci nessuna conferma di questo evento dato che, durante la peste del 1653, tutti i registri di nascita, insieme a quelli di morte e dei matrimoni, furono bruciati (5).
Una famiglia Flavio, comunque, sembra aver abitato realmente a Roviano nella seconda metà del Cinquecento ed alcune fonti storiche lo accerterebbero. Un lodo di pacificazione del 20 dicembre 1565 tra Muzio Colonna, barone del luogo, ed i rovianesi, ad esempio, reca la firma di un Giovanni Flavio, massaro eletto dal popolo. L’atto, pubblicato l’anno successivo a seguito di una sommossa popolare, doveva servire a placare una situazione divenuta incandescente a seguito delle modifiche dello Statuto Comunale che i Colonna apportavano arbitrariamente già da alcuni anni.
La prima di queste modifiche avvenne nel 1542 anno in cui, approfittando della situazione di confusione creata dall’abbattimento delle mura del castello ad opera di Pier Luigi Farnese, Alfonso Colonna ruppe un patto di tre secoli con i suoi vassalli con l’intento di diminuire il loro potere politico. Suo figlio Muzio, tra il 1565 e il 1579, non fece altro che continuare l’opera iniziata dal padre alterando nuovamente lo Statuto per giustificare l’aumento arbitrario delle tasse e incamerare molti terreni di possidenti locali.
La reazione non si fece attendere e fu tanto decisa da costringere il barone a lamentarsi direttamente a papa Pio V invocando un soccorso per porre fine alle continue “molestationes, vexationes, inquietationes, perturbationes ac impedimenta” di cui era oggetto da parte dei suoi vassalli. Alla rivolta sociale si aggiunse anche la rivolta politica e la rottura con i Colonna fu talmente profonda da portare la popolazione ad eleggere come Consiglio generale autonomo la chiesa arcipretale.
Una parte dei vassalli resistette addirittura in armi contro Muzio, arroccandosi nel piccolo castello di Rubianellum, piccolo centro adiacente a Rubianum Maius (l’attuale Roviano), e compì vere e proprie azioni militari (dal principe definite banditesche) contro i Colonna e contro le famiglie che appoggiavano, per tornaconto personale, la politica baronale come ad esempio i Parisi, colpevoli di aver sottratto “atti e documenti comunali importanti” ed averli spediti al barone.
La cose peggiorarono ancora quando le finanze dei Colonna entrarono in crisi e costrinsero la famiglia all’ipoteca dello stesso castello e alla vendita al principe Massimo di Arsoli, per soli 320 scudi, dell’enorme terreno, oltre 100 ettari, di Trefiumana. In questa situazione si capisce come la distruzione del castello di Rubianellum e la conseguente possibilità di appropriarsi di tutti i beni dei “ vassalli ribelli” diveniva, per Muzio Colonna, una priorità (6).
In suo aiuto venne un altro papa, Sisto V. Salito sul soglio pontificio nel 1585, il papa famoso per la sua opera di riorganizzazione statale e che, secondo il Belli, “nun la perdonò neppur’a Cristo”, promulgò, nello stesso anno, delle severissime leggi contro il banditismo: pena di morte per quanti portassero armi corte e per nobili e ambasciatori che avessero usato il diritto di asilo verso i banditi, ostacolando le azioni di polizia. Non erano certo solo proclami; il giorno della sua incoronazione, infatti, pendevano impiccati a ponte S. Angelo quattro giovani perché trovati in possesso di armi (7). Le leggi furono applicate tanto rigorosamente e capillarmente che Marforio e Pasquino così commentavano l’operato del papa:
MORFORIO
Come si potrà vivere,  Pasquino, con le vettovaglie tanto rincarate per le gabelle imposte da Sisto?
PASQUINO
E chi ti ha detto che si debba vivere sotto Sisto? Un po’ per volta non si deve morire tutti impiccati?
Muzio colse la palla al balzo. Chiese ed ottenne l’aiuto di alcune famiglie nobili locali, il benestare del papa e mise in pochi giorni a ferro e fuoco il castello sbaragliando gli assediati. Chi non fu impiccato venne accusato di tradimento e privato di tutti i beni.
La cosa interessante per la nostra ricerca è che tra i ribelli, probabilmente, potrebbe esserci anche il padre del futuro Frate Modesto, Astolfo, che forse si era unito alla rivolta dopo che, a causa della nuova politica dei Colonna, si era visto privato ingiustamente di una eredità di duemila scudi.
Così scrive Fra’ Modesto nell’Autobiografia : “… del mio Padre non ho avuto cognitione, ma come per sogno me rencordo…essendo che nostro padre liticava con il padrone del castello, una eredità di domila scudi et già aveva avuto due sentenzie in favore per tale lite stava molto disgustato con detto signore. In tal tempo nostro padre fece un errore, et fatto contumace, morse in Roma per la qual morte detto signore non solo si impadronì dell’eredità, ma ci levò quanto possedevamo, che era quasi altrettanto, et cavatoci di casa, ci fu necessario andare a casa pigione…”(Aut.).
Astolfo Flavio, quindi, dopo aver fatto, probabilmente, “l’errore” di unirsi alla ribellione ed essere stato sconfitto, fu costretto a fuggire “contumace” a Roma dove morì alcuni mesi dopo. Muzio lo accusò di tradimento ed in base al Cap. XXXVIII dello Statuto di Roviano confiscò tutti i suoi beni e la dote della moglie, per il reato commesso dal marito.
Ridotta in povertà la famiglia Flavio si arrangiò come poté. Santa, Giovanni e il suo fratello maggiore dovettero provvedere alle necessità di tutti: “restando vedova con due figlioli due mascoli et due femine, fossimo allevati sopra le sue fatighe. Non havendo noi da poterci sostenere, un mio fratello maggiore et io andammo alla porta di detto Signore per l’elemosina, et detto mio fratello lo serviva et io li facevo delli servitii et così ci allevassimo”(Aut.).
Intorno al 1590, a seguito di una tremenda carestia che colpì la Valle dell’Aniene, la famiglia si trasferì a Roma. Non sappiamo come, ma il piccolo Giovanni attirò l’attenzione del segretario del Principe di Venafro, S.E. Don Michele Peretti, che lo assunse come aiutante e lo aiutò mandandolo “a scola di scrivere”. Il periodo romano viene descritto come pieno di vizi e peccati, secondo uno stilema tipico dell’autobiografismo francescano che trova le sue origini proprio nel Testamento di san Francesco d’Assisi (8).
“Ma in questa vita così cattiva sempre sentiva uno stimolo al timor di Dio che mi faceva far molti proponimenti boni di emendatione et molte volte facevo voto di non offendere Dio per molti mesi”(AM). Questo sentimento delle colpe commesse e del peccato avrà sempre un posto centrale nell’esperienza spirituale del futuro frate ed ebbe il suo peso anche quando, a seguito di un errore di cancelleria (un indirizzo sbagliato su una pratica), entrò in crisi. Il segretario lo trattò con estrema durezza e il giovane Giovanni decise di cambiare vita.
Si recò pellegrino per due volte “in un cancello di vigna fuor di Porta Portese dove era una immagine della Madre di Dio che faceva miracoli”(Aut.) e durante il ritorno dalla seconda visita, presumibilmente nel 1601, in mezzo al tumulto degli altri devoti, Giovanni Flavio ebbe la prima delle sue esperienze mistico – visionarie. Così la descrive, in maniera dettagliata, egli stesso:
“Parse tempo al benigno Dio di levarmi dal secolo et mi usò una gratia singolare…nel tornare a casa io mi sentii tirare tutto lo mio spirito da un raggio di luce verso del Cielo et questo raggio era evidente al mio spirito, et mi trasse il capo all’in su per la violenza del raggio et in questo mi fu dichiarato et visto in spirito dove stava la Madre di Dio vera la su nel Paradiso et lei era quel che operava le gratie nell’imagine et questa dichiaratione mi levò la divotione cieca che io avevo nelle figure, et alle Chiese dove che io non curavo più l’andar fuori di casa né a visitar più immagini della Madonna né d’altro santo, essendo che dove volevo lì trovavo la vera Madonna; o stando o andando mi levavo verso il cielo il mio spirito, vedevo la Madre di Dio con grandissima devotione et dolcezza”(Aut.).
Degne di rilievo sono la critica al culto delle immagini e la volontà di coltivare una fede interiore che prescinda da Chiese e santi. La “superstizione delle cose esteriori”, come la chiamerebbe Erasmo da Rotterdam, viene qui superata grazie ad un esperienza del tutto straordinaria,il rapimento estatico. Con l’“illuminazione” Giovanni riesce comprendere che, in realtà, non sono le immagini in sé a produrre miracoli, come aveva sempre creduto, ma la grazia di Dio, o in questo caso la Madonna, che opera nei fedeli direttamente.
Questa visione, come le altre che seguiranno, si attengono ad un modello canonico riconosciuto dalla Chiesa, anche se con molte riserve, e teorizzato da Giovanni della Croce (1542-1591) proprio in quegli anni. L’esistenza delle “contemplazioni infuse”, vale a dire la conoscenza delle verità della fede attraverso semplici ed  intuitive visioni ricevute direttamente per intervento divino, si era ormai affermata all’inizio del Seicento attraverso la cosiddetta “teologia mistica” e aveva avuto esponenti di primo piano in Santa Teresa d’Avila.
Comunque, dal momento della sua prima “caduta”, Giovanni Flavio cominciò il suo cammino spirituale attraverso un sentiero fatto di continui rapimenti estatici e rivelazioni. La “luce divina”, che Dio gli aveva concessa come grazia, gli mostrò subito in quale situazione di peccato egli vivesse, “l’incanni del mondo et il mio miserabile stato di dannatione”(Aut.).
Dapprima pensò di prendere moglie e farsi una famiglia ma poi capì che, se voleva veramente fare penitenza dei propri peccati, doveva farsi religioso. In preda a mille dubbi e poiché “non haveva fermo il pensiero a niuna Religione” chiese consiglio a molti suoi amici. La soluzione al problema venne dall’Alto: “Un giorno mentre me ne stavo in camera con questo pensiero, la Divina luce dichiarò che volendo far penitenza della scellerata vita, dovessi andar dove haverebbe avuto meglio comodità di poterla fare, et in quest’atto mi si rappresentorono molte Religioni et la divina luce non volse che a niuna di queste mi applicasse, et mi mese d’havanti la vita Cappuccina; che se volevo fa vera penitenza andasse quivi”(Aut.).
Dopo alcune titubanze e frenato dal consiglio di chi era contrario alla sua scelta, si risolse alla fine di chiedere aiuto al segretario del principe Peretti per il quale lavorava. Questi lo raccomandò al suo confessore, Padre Maestro Rosato, il quale, non essendo riuscito a distoglierlo dall’idea di farsi frate prefigurandogli la durezza della vita religiosa, lo affidò a sua volta a P. Fra Stefano Cecchini Romano presso il convento di San Bonaventura dei Cappuccini di Roma.
Nel 1603 Giovanni Flavio venne ammesso nell’Ordine come fratello non chierico e durante il noviziato cambiò il suo nome in Modesto da Roviano Castello, anche se, come scrisse in seguito, avrebbe desiderato di chiamarsi di S. Lucia affinché la santa gli custodisse meglio la grazia “visiva” che aveva ricevuto (9). Scelse di non diventare sacerdote, non imparò quindi mai la lingua latina, poiché per far penitenza gli bastava “di haver l’abbito da servo, pur che fusse Cappuccino”(Aut.).
Per cinque mesi dormì per terra sulla paglia e si sottopose anima e corpo alle dure regole del sistema penitenziale. Fece veglie di preghiera, lunghi digiuni, mortificazioni fisiche. A differenza di Lutero, però, a cui le stesse pratiche si dimostrarono inappaganti ed inutili e servirono soltanto a fargli comprendere l’esigenza di una rigenerazione totale dell’uomo che solo Dio poteva donare, Frate Modesto così commenta la sua esperienza: “Passai l’anno con  molto contento et quiete et in ogni cosa ero rinato perché essendo uscito dalla scola dei vitii, et mi vedevo stare nello stato dell’innocenza” (Aut.). Ciò nonostante non mancava in lui anche la critica verso chi compiva le stesse pratiche soltanto per abitudine religiosa e senza il necessario stato d’animo.
Fu durante questo primo anno di noviziato che “cominciò la divina luce a poco a poco ad operare con similitudine chiara; ad inebriarmi lo spirito et sempre ebbi intendimento de scrivere un libro delle materie che io intendevo essendo cose nove non trovate nei libri” (Aut.).
Importante per comprendere la natura e l’origine storica del misticismo di Modesto può essere l’analisi della prima visione che ebbe in convento.
Una mattina mentre si stava godendo un po’ di sole in giardino, gli si mise a sedere a fianco un chierico che gli lesse un libro in cui era riportato il lamento della Madonna con il Figlio morto tra le braccia. “Io sentii tanto gusto et contento spirituale che li dimandai che libro fosse, mi rispose d’essere il Granata, et se n’ando via” (Aut.). Il maestro, a cui Modesto aveva raccontato tutto, si mise a cercare il libro che, sempre da quanto riportato nell’Autobiografia, fu rintracciato nella biblioteca del noviziato, senza però trovarvi alcun accento a quel lamento. Sembra, quindi, che questo testo ebbe un peso fondamentale nell’esperienze e nella formazione spirituale del frate, tanto più che egli stesso afferma di aver avuto la spinta decisiva a scrivere ciò che lo Spirito Santo gli rivelava, proprio dopo aver letto tale testo.
Di che libro si trattò, allora? Cominciamo dall’autore. Sull’identità del misterioso Granata ci possono essere due ipotesi, dato che ci sono soltanto due testi presenti nel convento dei cappuccini appartenenti ad autori il cui nome volgarizzato potrebbe essere simile a questo. La prima è che il libro che venne letto a Modesto fosse il Libro dell’orazione e della meditazione del domenicano Luigi da Granada (1505-1588). Questo testo, diffusissimo in tutta Europa e tradotto anche in italiano, fu sospetto all’Inquisizione perché richiamava le teorie degli Alumbrados del XVI secolo, un movimento seguito e conosciuto anche ai tempi in cui visse il nostro frate. A favore di questa ipotesi c’è anche il fatto che le pratiche spirituali di Modesto si avvicinano molto a quelle teorizzate dal circolo spagnolo. Questo movimento considerava, infatti, l’orazione mentale come la via principale, più efficace o esclusiva, verso la perfezione; i fenomeni mistici straordinari (visioni, voci interiori, estasi) segni essenziali di santità.
L’altro autore possibile è, invece, il gesuita Giacomo Granado (1574-1632) , teologo di Siviglia, il cui Trattato sull’Immacolata concezione fu pubblicato nel 1617. A lui Modesto si sarebbe potuto ispirare, oltre che per le sue future speculazioni sul tema dell’Immacolata, su cui scriverà un trattato omonimo, anche per il modo di vivere basato sulla santità e sulle penitenze sull’esempio degli anacoreti. Le “materie nove” di cui Fra’ Modesto venne a conoscenza furono effettivamente molte e, nella forma in cui furono rivelate al frate, davvero originali.

CONTEMPLAZIONI INFUSE

“Se io volessi scrivere tutte le gratie che io ho ricevute et spesso ricevo bisognerebbe fosse un gran volume, ma io vi metterò solo le più segnalate”(Aut.). Così Fra’ Modesto inizia la parte della sua Autobiografia riguardante le sue “innovative” elaborazioni teologiche.
Per primo espone proprio il tema più controverso di tutto il suo pensiero, quello che lo porterà al processo per eresia nel 1641 e alla seguente condanna da parte del tribunale della Santa Inquisizione: l’Immacolata Concezione di Maria.
Una notte, a Roma, si trovava in chiesa a pregare  e si attardò pensando “cosa fusse concezione di Maria, essendo che la mia ignorantia non sapevo capire questo misterio…che  chiedendo a molti Predicatori niuno mi diede soddisfattione per non essere capace del lor dire ” (Aut.).
La risposta al suo interrogativo venne in seguito ad rapimento mistico per mezzo del quale gli fu possibile
essere presente al momento stesso del concepimento di Maria da parte di Gioacchino ed Anna: “Viddi in modo chiaro et vero come fu operato questo misterio nel ventre di Anna. Io viddi unione fatta tra Gioacchino et Anna; viddi la materia che da tal unione derivò; preparata che fu questa materia, vedo uscire Dio benedetto con l’anima di Maria nelle sue potenti braccia et arrivato al loco dove era preparata la materia si fermò, et qui sentii che voleva solo liberare dal peccato originale non dovevano di quella materia formare il corpo e porvici l’anima, ma con la sua potenza operasse nelle viscere di Anna pura materia di sangue sopra formare  il corpo et informarvi l’anima così io viddi che Dio passo havanti con l’anima di Maria non lasciandola né posandola fin che non si fosse formata la materia di nuovo nelle viscere di Anna. Nel formare il corpicciolo della Vergine, l’Eterno Padre tenne il modo che tenne in formar Eva.  Ritrovandosi la virtù divina nelle viscere di Anna, nella quale fu spurgato il seme di Gioacchino e di essa Anna, fu subito con molta diligenza da essa virtù divina separato il puro et incorrotto seme di Anna da quello di Gioacchino, et fatta questa separazione, l’Eterno, con la sua potentia, diede virtù alla gratia dello Spirito Santo, che generasse in quel seme la Vergine”(Aut.). Gioacchino è, quindi, soltanto il padre putativo di Maria, concepita per opera dello Spirito Santo e per questo esente dal peccato originale.
Riguardo a questa sua teoria Fra’ Modesto chiese il parere di alcuni teologi “ufficiali” di sua conoscenza ma incorse solo in feroci critiche, soprattutto da parte dei domenicani. Anche molti “letterati” si meravigliavano che un ignorante come lui potesse affermare con tanta convinzione cose che neanche i santi ed i dottori avevano osato proferire.
Scoraggiato da tante critiche arrivò alla conclusione più logica: se Dio non poteva sbagliare, dato che era Lui ad avergli fatto vedere la verità, erano i teologi cattolici ad essere dalla parte del torto. “I nostri Teologi studiano diversa Teologia da gl’altri, poiché nessuno de gl’altri mi contraddiceva alle mie cose, ma li confermavano et accettavano, e solo li nostri mi contraddicevano, m’attraversavano e biasimavano la Dottrina, che il Signore si era compiaciuto di comunicarmi”; “…e di più; f.Modesto affermava che un Religioso d’altra Religione gl’haveva detto, che se alcuno voleva contraddire a questa sua intelligenza, che sarebbe proceduto da ignoranza, o da passione, o da invidia, con che trattava tutti li mostri Teologi da ignoranti, da invidiosi, e da appassionati”(AM).
Del resto l’Immacolata Concezione di Maria non era ancora un dogma per la chiesa cattolica, lo sarà a partire dal 1854 ad opera di papa Pio IX, e le discussioni intorno al problema si trascinavano ormai da molti secoli raggiungendo una violenza inaudita quando francescani e domenicani vennero a rappresentare rispettivamente la tesi immaculista e maculista. Le loro dispute furono tanto accese da costringere, nel tempo, più di un papa a prendere delle serie contromisure al problema. Sisto IV, ad esempio, con due bolle pontificie Cum praexcelsa , del 1477, e Grave nimis , del 1483, vietò ogni discussione riguardo all’Immacolata e un analogo provvedimento venne preso quasi cinquanta anni dopo da Paolo V.
Al tempo di Fra’ Modesto, quindi, in molti si chiedevano ancora quale fosse la verità sul concepimento di Maria nonostante nella sesta sessione del Concilio di Trento (1546) non mancarono coloro che si appellarono alla definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione. Dal momento, però, che il Concilio era stato indetto per contrastare tesi eretiche dell’epoca, fu scartata l’ipotesi della definizione e fu deciso di aggiungere al decreto sulla universalità del peccato originale, la seguente dichiarazione: “Dichiara tuttavia questo santo Sinodo che non è nelle intenzioni di comprendere nel decreto relativo al peccato originale la Beata e Immacolata Vergine Maria, Madre di Dio, ma che sono da osservarsi le Costituzioni di papa Sisto IV sotto le pene contenute in esse e che vengono rinnovate”.
La luce divina mostrò al frate anche le differenze che intercorrono nel concepimento dei tre più importanti personaggi “umani” del Nuovo Testamento, Gesù, Maria e S. Giovanni Battista, onde evitare che si creasse in lui confusione in merito al ruolo ricoperto da ognuno di essi in rapporto alla redenzione dell’umanità. “Nell’Incarnatione non ci fu opera humana, ma tutta divina. Nella Concezzione della Madonna vi fu opera humana, ma di questa Dio non si servì. Nella santificazione del Battista vi fu opera humana et in quella fu formato il gran Battista, incorrendo nell’original peccato…nella Incarnatione del Verbo vi si adoprò tutto Dio, in far l’opera della Concezzione, vi si adoprò tutto il braccio di Dio, et nella santificatione tutta la mano di Dio. Così l’una persona è maggiore dell’altra, così le loro concezzioni dovevano essere differenti modo operate…L’adoprarse tutto Dio nell’Incarnatione fu perché non volse che in detta opra vi si accostasse atto humano ma tutta l’opra divina, nella Concezzione vi era concorso l’huomo et liberato dal pericolo vi solevò il braccio perché l’opera del braccio preserva quella cosa che tiene sopra di esso non tocchi terra acciò la terra non la venga a macchiare. Nella santificatione vi volse la mano l’operatione della quale è il rilevar una cosa cascata in terra, qual terra l’ha macchiata. Queste tre opere hanno questo nome: liberata, preservata et rilevata: liberata da ogni atto humano, preservata dal pericolo dell’atto humano e rilevata dalla caduta dell’atto humano” (Aut.).
Per quanto riguarda le altre “rivelazioni divine”  Frate Modesto vide la concezione del Verbo, l’assunzione corporea di Maria in Cielo, la vita di Cristo “in tutti i Misteri, tanto gaudiosi, come dolorosi et gloriosi io sono stato presente come realmente successero, et con tale intendimento che ho visto patire il benedetto Signore prima in tutte le potenzie e parti dell’anima, che sono dodici, come anco nelli dodici membri del corpo”(Aut.).
Questa teoria delle dodici parti del corpo e dell’anima viene usata dal frate anche quando parla di una grazia particolare che Dio gli ha donato, quella di vedere negli esseri umani non soltanto l’aspetto esteriore ma anche quello interiore: “io vedo tutti gli membri di esso huomo interno meglio che non veggo quelli dell’huomo esterno. In questo huomo interno si trova tutta la sapienza et per mezzo di esso si viene ad intendere al  tutto…dodici sono li membri interni et dodici sono li sterni; in ogni loro operatione vi concorrono tutti per farla con ogni perfettione. Li membri interni sono questi: Concupiscibile, Irascibile, Rationale, Memoria, Intelletto, Volontà, Raggione, Amore, Affetto, Conscienza, Liberarbitrio, Essentia dell’Anima. Li membri dell’huomo esterno sono: Piedi, Capo, Mani, Faccia, (?), Lingua,Naso, Occhi, Orecchie, Capo, Cuore et Essentia dell’huomo” (Aut.).
La luce divina gli concesse inoltre di assistere alla caduta degli angeli ribelli, di vedere come le anime si ricongiungeranno ai corpi alla fine dei tempi, di vedere come la Ss. Trinità appare ai beati nel paradiso e “come li notrisce” e come appaiono “li quattro effetti principali che Dio mostra alle anime del cielo e cioè splendore, bellezza, dolcezza et ricchezza” (Aut.).
Sorprendente anche l’illuminazione sulla passione di Cristo. “Giesù Christo ha sofferto due passioni per sodisfare alla divina giustizia per il genere humano, quale si è fatta sopra di due monti et sopra di essi si è versato sangue et questa è la raggione, che in tutta la Scrittura non si fa mensione di sangue altro che sopra li due monti. Sopra del Monte Oliveto si soddisfece a tutti li peccati dell’huomo interiore et qui patì l’anima santissima di Giesù…sopra il Monte Calvario si soddisfece il corpo et fu crocifisso; qui tutto fu in sustanza, et là tutto fu in materia, qui corporale et lì spirituale” (Aut.).
Significative sembrano anche la sua notazione sull’eucarestia (“questa Divina Luce mi ha dichiarato la grandezza delli sacerdoti, et come fanno calare Dio nell’ostia, per la quale cosa io non posso vedere che il sacerdote tocchi altra cosa con quelle mani nelle quali risiede Dio ascoso sotto gl’accidenti del pane, che se stassi a me, nemmeno il mangiare vorrebbe che facesse, et le sue mani mai vorrebbe che fussino viste salvo che nel alzar l’ostia…questo divino sacramento è paradiso in terra alli giusti. Gl’effetti che causa Dio in cielo alli beati, causa il sacramento in terra alli giusti” (Aut.) ) e sulla caduta dell’uomo (“Essendo che tutta la fabbrica dell’huomo è posta sopra sette colonne, che sono le sette parti principali dell’anima, et havendo cognitione il Nemico delli loro oggetti et anco dello libero arbitrio che era nell’huomo potendo volere il bene et il male, segl’oppose con li sette vitii capitali et ogni vitio a proporzione dell’oggetto della potentia gli mise contro. Assaltato l’huomo da questi vitii subito lo buttorno per terra et tutto il resto della fabbrica andò per terra” (Aut.)). L’uomo però grazie al libero arbitrio e alla grazia divina può salvarsi ma deve lottare costantemente: “Giesù Crhisto rimise in piedi l’homo et con li sette doni ritornò l’huomo nel suo essere, et perché il nemico non cessa mai di combattere quest’huomo con li sette vitii, et lo Spirito Santo lo difende con li sette doni la vita humana è una continua battaglia; l’huomo può accostarsi a chi li pare; se si serve della raggione s’accostarà allo Spirito Santo, ma, se sarrà priva di cervello, si accostarà al nemico infernale, come per il primo si vede l’anima dilettarse nelli vitii et fuggire le virtù”(Aut.).
Per quanto riguarda la salvezza dell’uomo, sei cose sono veramente necessarie: tre atti umani e tre grazie divine. “Tre cose fanno l’anima perfetta, ma non lo pole perfettamente in questa vita conseguire, come si possederanno in cielo, et son queste: servire Dio con tutto il cuore, conoscerlo con la vera chiarezza, et amarlo con tutto l’affetto. Questi tre atti si effettuiscono con le tre potenzie superiori: con la memoria si serve, con l’intelletto si cognosce, et con la volontà si ama…altre tre pietre preziose ha donato poi la santissima Trinità per sua salute, et con queste tre gioie tutti saranno agiudicati, quelli che le potranno presentare in giudicio all’hora della sua morte saranno salvi, quelli che non l’haveranno saranno condannati. Quali gioie sono queste: il Tempo, la Tribolatione, et l’Amore. Il tempo ci viene ministrato dal Padre, la Tribolatione dal Figlio e l’Amore dallo Spirito Santo” (Aut.).
Fra’ Modesto, in sostanza, intende, grazie all’intervento di questa luce divina, “tutto quello che gli cada in desiderio di sapere” ma ciò che vede non sempre è capito da chi gli sta intorno, da chi a suo dire “non ha quel lume”. Per questo motivo scrive più volte nell’Autobiografia di aver perso ogni gusto per letture e prediche; non crede più per fede ma per visione, non più per conoscenza intellettuale ma per illuminazione interiore. “Questa divotione è tanto verace et certa in me che a niuna Chiesa o immagine io sento divotione essendo che mi è concessa per luce et gratia sopranaturale” (Aut.).
E’ comprensibile, data la situazione post-tridentina, come venissero accolte tali affermazioni: “l’operattioni di questa divina luce sono state da molti dotti stimate per opera naturale…et molti mi hanno detto che io provi di non speculare et non cercare”. Ripreso anche dagli uomini di lettere e dai confratelli, Fra’ Modesto cadde in preda allo sconforto. Gli fu rivelato allora che “li segreti di Dio sino al giorno del giudizio sempre si andranno scoprendo…et per intenderli ci vuole anco gratia sopra naturale, et questa è la causa che li letterati si scandolezzano da sentire da semplici molte cose che loro non intendono né la loro scienza può capire”(Aut.). Ascoltò questi suggerimenti e si ritirò in preghiera.

LA VITA CONVENTUALE

Tra illuminazioni e penitenze passavano i mesi ed a Roma, come nei dintorni, si cominciava a vociferare su un frate di grandi virtù che abitava nel convento dei cappuccini. Intanto frate Modesto intensificava i suoi digiuni “poiché non contento di seguir la vita ordinaria della Religione quantunque austera e rigida…cominciò a stare due, tre giorni senza mangiare, et andando così gradatim sempre crescendo, arrivò a stare otto e dieci giorni, che non prendeva altro cibo che la Santissima Comunione, et alcune volte stava serrato tutti quelli giorni  in cella senza essere mai veduto in continua Oratione”(AM).
Anche il modo di vestire divenne un segno distintivo del suo modo di vivere cristiano; si contentava di avere un solo abito e per di più lo aveva confezionato egli stesso con pezzi di altri abiti vecchi dei suoi confratelli “e diceva che se fusse stato decente d’andar ignudo, vi sarebbe andato volentieri” (10).
Cercava di dormire il meno possibile e quando lo faceva rinunciava ad ogni comodità “tanto che si ridusse a dormire, e poco, sopra d’una seggia, o sgabbelletto, senza schiavina o altra cosa per coprirsi, tanto d’estate quanto d’inverno”(AM). Anche durante i viaggi che compiva da un convento all’altro manteneva le sue dure abitudini tanto che, più di una volta, non disdegnò di addormentarsi in chiesa accovacciato per terra, dopo aver meditato e pregato.
Il suo modo di vita lontano dal secolo, “a disprezzo del Mondo et con zelo della povertà”(Aut.),  le sue terribili penitenze, con catene, corde e pugni, ed il suo “rapporto privilegiato” con Dio gli fecero guadagnare la fama di “santo” al punto che “era acclamato” ovunque andasse, procurando dei grossi problemi ai frati del luogo, perché tutti, sia ecclesiastici che laici, desideravano incontrarlo. “Era cresciuta tanto la fama, e divulgato il nome di f. Modesto per tutta la nostra Provincia che non era quasi luogo né Città dove nun fusse desiderato e chiamato; lo dimandavano gl’Amorevoli e divoti particolari della Religione, le Comunità, i Principi, e Signori Secolari, et Ecclesiastici, et insino i Cardinali per la speranza di ricevere qualche beneficio spirituale da lui; si che molte volte li nostri Superiori né ricevevano non poco fastidio…per non poter soddisfare tutti assieme…et poiché ognuno stimava di dovere essere preferito”(AM).
A Bracciano, ad esempio, il Duca Paolo Giordano Orsini incuriosito dalle storie sul santo frate che si trovava nel convento dei cappuccini romani, chiese  all’allora Padre Guardiano, frate Antonio da Piperno, di poterlo conoscere e poter  pregare con lui assieme a tutta la Corte.
“Il Padre accettò per amore di Dio…doppo il sermone, tutti facevano la disciplina  ecco quando all’improvviso f. Modesto si risolse di far disciplina coi pugni; così al buio tutti i disciplinanti cominciarono a sentire il gran scaricar di pugni, restarono attoniti e spaventati…pensando che quell’Oratorio cominciasse a rovinare…Pareva ogni momento un anno al Signor Duca che si desse fine a quella disciplina per chiarirsi chi fusse…parendogli impossibile, o molto difficile, che corpo humano potesse sopportare tali colpi, e fare di se stesso sì orribil macello. Havendo finalmente inteso…
restò grandemente ammirato e gli restò molto devoto, assieme con la Sign.ra Duchessa, e non solo dagli altri disciplinanti, ma da tutto Bracciano era acclamato per Santo; e due padri Gesuiti che si trovavano in predetta disciplina l’andavano pubblicando anco per Roma, come cosa di si grande maraviglia; et uno di questi padri fu il Padre Antonio Santarelli, huomo insigne di quella Compagnia”(AM).
Alla santità della vita corrispondeva, però, anche una dedizione caritatevole verso il prossimo molto decisa.“Quanto più cercava di stringere se stesso, tanto più si allargava verso i poveri secolari e tutto quello che poteva levar alli frati, levava per compatir quelli, non solo erbe et frutti dell’horto et altre cose mangiative ma panni, tele, salviette, e quanto conosceva essergli necessario et alli frati superfluo, conforme a suddetta strettezza”(AM).
Grazie ai molti devoti e fedeli che lo seguivano riuscì perfino ad erigere un Banco nel quale faceva depositare delle somme e “se ne serviva per alimentare i poveri…in dotar zitelle per maritarsi, ed insino a comprar bestiame, come somari”(AM). Aveva escogitato un sistema ingegnoso per aumentare le entrate del Banco aiutando, a suo dire, ricchi e poveri contemporaneamente. Dato che la luce gli aveva rivelato che le anime dei ricchi erano “in continua mestizia senza potersi mai rallegrare nel Signore” chiedeva loro di confessarsi e comunicarsi, promettendo poi la sua opera, che consisteva in questo: “ io applicherò tante comunioni per l’anima sua, ascolterò tante messe, farò tante discipline con tante migliaia di battiture, sarà però necessario che V. S. mi paghi tutte queste cose, tutte queste gioie, tutti questi ornamenti spirituali…in benefizio di tanti poveri miserabili, che hanno bisogno di questa carità, quale anderà per l’anima di V. S.” (Aut.). Questa operazione sostitutiva di penitenze doveva servire, a detta di Fra’ Modesto, a “ripulire” l’anima dei ricchi peccatori per poterla presentare, nel giorno del Giudizio, “grata a gl’occhi di Dio” come una sposa si presenta di fronte al suo futuro marito. Su questa “vendita”, che avrebbe fatto rabbrividire Lutero, compose anche un libretto o, per meglio dire, un prezzario e non ammise mai alcuna intromissione di altri frati; i ricavati erano esclusivamente per i poveri, al convento non doveva andare neanche uno scudo.
“Questi suoi traffici, maneggi e cerche di denari non piacquero mai a’ frati, e molto meno a’ Superiori, e più volte li fu prohibito…se ben lui poca stima faceva di veruno, fondato nel precetto della carità, al quale in pochi casi fusse obligato a ubidire…lo stesso Padre Antonio da Piperno l’ammonì più volte con esortarlo d’andare alli  piedi N. S. Papa Urbano Ottavo per haver l’assolutione, ed assicurar la coscienza per l’avvenire; tanto più che gli sarebbe stato facile di haver comoda udienza per mezzo dell’Ecc. ma Signora Costanza, Cognata di Sua S.tà, e tanto divota sua. Promise, ma però non lo fece mai”(AM).
Per la sua vendita di “benefici spirituali” alle persone facoltose incorse anche nell’accusa di simonia da parte del confessore di “una Signora Principessa di Roma” e si salvò soltanto perché il padre provinciale, Padre Ficiulle, lo difese.
Fra’ Modesto, era molto popolare, anche per le guarigioni miracolose e gli esorcismi che compiva grazie all’aiuto dello Spirito Santo. Si sforzava di seguire tutti i suoi fedeli e per ognuno aveva consigli e rimedi da adottare a seconda dei mali. “Tutti segnava con segno della Croce; chi ungeva dell’olio della Lampada del Beato Felice, a chi dava da bere la polvere della cassa dello stesso Beato…sicché tutti ne rimanevano soddisfatti…e gli proponeva di servirsi d’ogn’altra Medicina o Medico”(AM). L’uso di tali pratiche di tipo taumaturgico si avvicina, però, molto di più alla medicina e alla magia popolare condannata dalla Chiesa e presente già dal tardo Medioevo piuttosto che ai miracoli di tipo carismatico.
Una conferma a tale ipotesi ci viene dalla descrizione dei “riti di guarigione” compiuti sui malati che fa il suo biografo negli Annali. Citando i casi di donne che andavano a chiedere di essere guarite, così scrive:“venivano dichiarate da f. Modesto per ammaliate o affatturate…la sua prima attiene era poi di giudicare che il tale, o il quale gli havesse fatto quel danno e quel male…per guarirle si serviva poi di due sorti di bollettini, uno de quali composto di alcune croci, parole spirituali e della Scrittura, con un Agnus Dei di cera faceva portare addosso a quelle, e nel metterglielo addosso dicono che facessero per lo più gran motivi, e dimostrazioni d’essere ossesi…e questi bollettini bagnati d’acqua santa con aggiungerci un poco di polvere del legno del Padre San Francesco a guisa di pillole le faceva inghiottire, et essendo ammaliati si risolvevano in sudore, nelli quali dicono fusse scritto: In nomine Jesu demonia eicent”(AM).
In questa rielaborazione dei modelli cristiani in forme più vicine al “sentire comune del popolo” e alle sue esigenze contingenti è espressa, in maniera molto chiara, la dinamica culturale che porta, nell’età del disciplinamento religioso, allo scontro tra due tipi di sapere, uno ufficiale – colto, l’altro popolare – tradizionale e alla conseguente creazione di sincretismi del tutto originali, di nuovi e “non controllabili” sistemi di rappresentazione del reale, quale fu, appunto, quello di Fra’ Modesto (11).
Avuta notizia delle capacità eccezionali di Fra’ Modesto, il vescovo di Viterbo, Card. Brancaccio, supplicò insistentemente il Provinciale dei cappuccini affinché lo mandasse in città per visitare una giovane Maestra del Conservatorio delle Zitelle, resa immobile da un male al quale nessuna medicina giovava.
Modesto andò da lei accompagnato da un altro frate, Fra’ Michele Romano, parlò con l’inferma e l’esortò a disprezzare il demonio. Poi le disse: “Licenziati, che non hai alcun male”. Poi la prese per mano e la condusse davanti all’immagine della Madonna e le disse ancora: “Calcala con i piedi”. Ed essa si senti come se le cadesse dal petto una massa di piombo. Il frate si fece accompagnare fino alla porta lasciando tutti ammirati per la sua santità.
“Si fece allora nella città di Viterbo una gran commozione e cominciò un concorso tanto grande verso il convento che dalla mattina sino alla sera di notte non finiva mai; e gli uomini si trattenevano con f. Modesto sino a un pezzo della notte, e non si poteva vietare questo concorso per non essere ritenuti poco caritatevoli, invidiosi o maligni…tuttavia fu necessario farlo tornare dopo pochi giorni per le lagnanze di alcuni Amorevoli Superiori quali lamentavano che di non haver saputo prima della venuta di tal frate e si dolevano che non lo tenessimo continuamente in una città come quella. Et oltre il concorso di molte persone d’ogni stato…fu necessario mandarlo più volte in Conventi e Case Particolari…le monache poi che non potevano godere della sua vista, li scrissero lettere con raccontargli le loro tribolazioni et infermità; si raccomandavano alle sue Orazioni e gli mandarono molte Corone e Scuffie da benedire”(AM).
Fra’ Modesto si dedicò anche alla creazione e all’organizzazione di  istituti religiosi. Nel 1630, ad esempio, il vescovo di Montefiascone, Gaspare Cecchinelli, lo chiamò a predicare in città, nonostante non fosse sacerdote, e, grazie al suo esempio, alcune prostitute, desiderose di cambiar vita, si raccolsero intorno a lui. Così raccontano i fatti gli Annali.
“Oltre l’altre opere di pietà, che fr. Modesto fece uscire molti di peccato, et aiutò a convertire molte meretrici, e donna di mala vita, mettendole in un luogo sicuro, acciò non havessero più occasione d’offender Iddio. Nella città di Montefiascone eresse un Monastero di Donne convertite, dove impiegò alcune migliaia di scudi, oltre alle celle, che vi fece fare da alcuni Signori Romani, come dalla Principessa di Sulmona, dalla Signora Maria Macchiavelli, dalla Signora Donna Camilla Orsini, come dalla Signora Donna Costanza Barberini, et altre…li diede la Regola da lui composta con titolo delle Penitenti delle Piaghe di Giesù Christo. Una certa cortiggiana famosa, detta Checca Barona si convertì in Roma in quel tempo per caggione d’una mortificatione…e havuta notitia di f. Modesto, li concepì grande devottione, e li diede alcune centinaia di scudi per il detto monastero…con intenzione di ritirarvisi anch’ella et applicarvi tutto il suo havere, conforme era stata persuasa da f. Modesto con promesse di far dichiarare lei come fondatrice”(AM). La casa fu aperta il 24 maggio del 1630 nel Borgo Maggiore e si conoscono da cronache d’epoca anche i nomi di alcune donne che lì hanno risieduto.
Per quanto riguarda i rapporti con gli altri confratelli un cronista scrive: “Per la vita singolare che questo frate faceva, se bene molti frati, et anco Superiori gl’havevano divotione, e credito, non gli mancavano delle mortificazioni, perché a molti anco dispiacevano alcune delle sue attioni, e ben, e si ben correva il nome di patiente non di meno diverse volte fece dimostrationi in contrario lamentandosi con frati e con lettere risentite per le mortificationi ricevute dirette agli stessi Superiori con diverse specie di minacce, sino a chiamarli al tribunale di Dio”(AM).
La notorietà e la fama di santo portarono, infatti, molti superiori a sospettare del frate di Roviano e ad accertarsi meglio di quanto facesse o, ancor di più, quanto scrivesse. L’elaborazione delle sue teorie e la composizione di trattati, libelli ed opere in versi non si era arrestata neanche con la vita conventuale ed, anzi, aveva subito un incremento.
La sua storia giunse alle orecchie dell’allora padre Provinciale Bernardino da Macerata: “così questi cominciò a sospettare, che detto povero frate non fusse ingannato, e però volse far diverse esperienze delle sue virtù”(AM). Dalle cronache non si conosce quale fu il giudizio sul frate ma, dopo aver esaminato il suo modo di fare penitenza e soprattutto i suoi scritti, sappiamo quale fu il risultato: gli fu ordinato di recarsi a vivere nel convento si Scandriglia per poter essere controllato meglio dall’allora padre Bonaventura da Nepi e di recargli questa lettera riportata negli Annali (APR).

Al padre guardiano di Scandriglia per f.Modesto
M.V. Padre
Della Deffinitione, e da me gl’è mandato costà di famiglia f. Modesto da Ruviano con li seguenti ordini che la P.V. gli farà eseguire puntualmente.
Che non lo mandi fuora di Casa, se non per qualche necessità inevitabile o in tempo di Processione.
Che in casa se ne serva in tutto quello che può, eccetto che il mandarlo alla Porta;
Che non lo faccia parlare con alcun Secolare, Huomini, o Donne che siano…
Che non riceva, ne mandi lettere, senza che la P.V. le legga tutte, e quando siano di Secolari non gliele dia ma risponda lei per lui…
Che non gli lasci tenere in cella ne penna, ne calamaio, ne carta, ne Lucerna.
Che non lo lasci trattare alla lunga per modo d’istrutione, o di dare ammaestramenti spirituali a’ Chierici o Laici.
Tutti li predetti Ordini, glieli leggerà in pubblico refettorio e lo pregherà di credere che non ci è cosa più pericolosa che l’apparente bene e la virtù palliata coll’applauso del secolo con fama di Santità.
Roma 20 Novembre 1632
f. Bernardino da Macerata Provinciale

Frate Modesto ubbidì, anche se non sempre in maniera esemplare. Spesso, infatti, “faceva scrivere ad altri per suo conto con dire non essere obligato a ubbidir l’intentione”(AM) oppure usciva ed incontrava delle persone per “motivi di forza maggiore”. Non per questo, secondo lui, disobbediva. La divina luce, infatti, gli aveva rivelato anche una sorta di gerarchia delle ubbidienze in base alla quale, prima che ai padri Guardiano, Provinciale, Generale e Protettore, egli doveva ascoltare quanto gli dicevano la Sacra Congregazione, il Papa, la Chiesa e prima di tutto Dio, il che, per un mistico, equivale a fare ciò che vuole, cosa che, in parte, fece.
Altre volte invece obbedì molto volentieri, ad esempio quando gli fu ordinato da alcuni Signori, suoi devoti, di andare a “riformare le Monache di Palestrina, con dargli Ordini, e Costituzioni, andando spesso a trattar con quelle molto a lungo con ragionamenti spirituali, e vari ammaestramenti”(AM). I Superiori si opposero ma invano.
Tutte queste disposizioni di carattere limitativo mostrano bene quale fu la reazione ufficiale della Chiesa alle teorie del cappuccino e anticiparono il giudizio ufficiale che avrebbe dato la Santa Inquisizione pochi anni dopo. Dal 1632 al 1641 sappiamo che Modesto fu spostato altre due volte, a Velletri prima e a Piperno poi, prima di presentarsi davanti al Tribunale di fronte al quale avrebbe difeso “la Religione e la salute dei suoi fratelli con la vita” (AM.).

IL PROCESSO, L’ESILIO, LA MORTE

Dopo che, varie volte, fu vietato a Fra’ Modesto di scrivere e parlare con laici e religiosi e dopo che ogni ordine era stato prontamente raggirato, nel 1641 intervenne direttamente il Sant’Ufficio. Fra’ Modesto, convinto della correttezza della sua teoria sull’Immacolata Concezione, si decise a renderla pubblica. Dopo aver “rivisto e approvato il Trattato sull’Immacolata Concezione di Maria, pensava di farlo pervenire all’Em. mo Sig. Cardinal Barberino, e per mezzo suo farlo venire nelle mani di N. S. Papa Urbano Ottavo, acciò facesse accettar le sue Proposizioni alla Chiesa”(AM). Non potendosi spostare dal convento in cui risiedeva, come da ordini superiori, affidò il suo trattato a Padre Antonio da Cave affinché lo portasse a Roma.
Il padre provinciale M. R. P. da Canemorto venne però a conoscenza della cosa. Sapendo che, alcuni anni prima, Frate Francesco da Genova, Vicario generale dell’ordine, aveva espresso molte riserve sulle teorie di Modesto e aveva anche sollecitato l’intervento del Santo Uffizio, volle leggere la sua opera. “Considerato che tale frate stava ancora nella sua Opinione, accortosi anco de gl’errori circa fidem che erano in detto Trattato, per scarico della sua coscienza, e per debito dell’uffitio, ne diede avviso al S. Offitio con  pregarlo, per reputatione della Religione, di voler rimettere la suidetta causa in mano sua”(AM).
Una Commissione di frati cappuccini venne incaricata di esaminare il “pericoloso” testo. Il processo si aprì il 27 aprile e si concluse il 29 maggio dello stesso anno. Chiamato a Roma, prima del processo fu rinchiuso in cella con la proibizione di avere contatti esterni.
Fra’ Modesto aveva chiesto di essere esaminato dal Tribunale stesso dell’Inquisizione, senza deleghe di sorta. Fu invece un tribunale composto da suoi confratelli, secondo lui teologicamente impreparati, a giudicarlo e condannarlo. Vennero trovati cinque errori di fede nelle sue opere e per questi errori Fra’ Modesto fu condannato all’esilio (APR):
Ioachim non est pater naturalis Beatissime Virginia sed tantum putativis;
Beata Virgo Maria habuit tantum Patrem gratiae, nempe Patrem Aeternum, non autem Patrem naturalem;
Beata Virgo concepta fuit de Spiritu Sancto, ex semine tantum Sanctae Annae, ma tris sue;
Delenda sunt illa verba a litaniis Beatae Mariae: Mater castissima;
Virtus castitatis non potuti Beatae Virgini Mariae infondi a Spirit Sancto.

Nell’interrogatorio del 6 maggio, ammise di aver scritto ogni parola del trattato sull’Immacolata ma ripeté più volte che se le sue tesi non fossero state accettate ufficialmente avrebbe ritenuto vero quello che affermava la Chiesa: “Io accetto questo che canta Santa Madre Chiesa et che ordina, et comanda di tenere quello che tiene Essa nelle Litanie, cioè Mater Castissima. Et questo che tiene che San Gioacchino sia padre naturale della Beata Vergine, come lo ritiene Lei lo ritengo io”(APR). Rimesso il risultato all’Inquisizione e al S. Uffizio, fu chiesto a Modesto di ritrattare i suoi errori come “ignorante e matto nelle materie teologali, sì come fece detestando tutti li suoi errori e confessando che il suo lume, prima tenuto da lui divino, era falso e diabolico, che l’haveva tenuto tanto tempo ingannato”. Quindi fu fatto accompagnare da due frati a Colonia con delle precise norme di vita, da osservarsi sotto pena di scomunica e di carcere: non parlare né scrivere di materie teologiche né tanto meno dell’Immacolata e della luce divina; non scrivere né ricevere lettere; non avere nessun rapporto con fattucchieri o estranei alla comunità religiosa.
Questa la sentenza (APR):
Charissimo in Christo F.Modesto a Ruviano Laico Ordinis Fratrum Minorum S.ti Francisci Cappuccinorum F.Felicianus a Placentia Procurator, et Commissarius Generalis eiusdem Ordinis, Salutem in Dominio.
In praesentis Virtute, et de Ordine Superiorum nostrorum quibus obedire tenemur, ibis ad Provinciam Coloniae, ibique permanebis per totum vitae tuae cursum sub obedientia Superiorum illus Provinciae, cui eadem auctoritade Te incorporamus, observando infrascripta Praecepta, et Ordinationes a RR.PP. Ministro Provinciali, et Deffinitoribus huius Romanae Provinciae tibi intimatis iuxta intentionem eorumdem Superioribum Maiorum.
In Virtute Spiritus Sancti ac sub poena excommunictioni latae sententia ipso facto, absque alia declaratione incurrenda, et sub poena carceris a qua educi non possis absque licentia a Roma ostenta, quod in Posterum:
Non tractes, nec oretenus, nec scriptis per Teipsum, vel per alium de Conceptione B.Mariae Virginis, nec de alia materia Scolastica, ac Theologica.
Quod nec per Te, nec per alium litteras accipias, nec possis, sive litteras sive Tractatus, Dialogos, Discursus, vel alias scripturas cuiuscunque generis scribere, vel comittere aliis ut scribant.
Quod nec per Te, nec per Alium tractes cum Energumenis, et maleficiatis.
Quod nec per Te, nec per Alium possis cum aliquo tractare oretenus vel scriptis de illo lumine a Te supra naturalis extimato (licet falso) sensibus, sive intellectui infuso.
Admonentes Te praeterea ut abstineas non solum a quacumque instructione tam Religiosorum, quam Fratrum, sed etiam a conversatione omnium, sive Secularium, sive Religiosorum, sive Virorum, sive Mulierum extra nostra Religionem.
Exequere ergo impositam Tibi obedentiam cum Benedictione Domini, quem pro me orabis.
Datum Romae die 29 Maii 1641
Locus + Sigilli.
F.Niclaus Flander Minister Prov.lis
F.Joannes Baptista a Neptuno Definitor
F.M. Angelus a Praeneste Definitor
F.Bernardinus a Scheggia Definitor
F.Basilius a Florentia Definitor

Del suo esilio parlano alcuni frati tedeschi venuti a Roma per il Capitolo generale del 1643 e diedero “buonissima relazione della vita sua, e del buon esempio che dà, per il che tanto frati, che secolari che ne restano edificati, e lo ritengono in concetto di santo”(AM).
Anche all’estero, quindi, e nonostante le severe norme impostegli dall’Inquisizione, Fra’ Modesto riesce a ritagliarsi uno spazio illuminato dalla sua “divina luce”.
Padre Bernardino da Treviri raccontò ad esempio un miracolo compiuto dal frate a favore dell’Abate del monastero dei benedettini di Aquisgrana, che temevano per un assalto in atto contro il loro monastero da parte di una truppa di soldati luterani, che, si diceva, erano decisi a sterminare tutti i monaci. L’Abate ricorse a Modesto per mezzo di un suo servo chiedendogli preghiere. Il frate di Roviano rimandò il servo all’Abate assicurandolo che non sarebbe successo niente. E così fu, perché i soldati si dispersero e finirono per andare a chiedere un pezzo di pane all’Abbazia che avrebbero voluto distruggere.
In Germania rimase sette anni e poi, non si conosce il perché, fu richiamato in Italia e mandato nei conventi dei cappuccini d’Abruzzo; prima andò a Celano e poi a Campli dove visse fino al momento della sua morte, avvenuta per malattia, il 15 gennaio 1654. Anche prima del trapasso rimase legato alle sue convinzioni, un confratello riporta così le sue ultime parole:   “Devo morire di questa infermità, così Dio vole, et io sono soverchio a fare medicamenti”(AFCA).
Unica notizia di un certo rilievo che sappiamo del suo soggiorno in Germania riguarda lo stupore avuto dopo aver letto il Nuovo Testamento in Volgare. Lo scrive egli stesso in una lettera a Don Mattia Franciacurti di Campli:“La esorto  e la prego istantaneamente a volersi compiacere di legere, et passar tre volte il Testamento Nuovo, con attententione di spirito, che assicuro V. S. che dirrà, non essere stato mai
Christiano, né discepolo di Giesù, che tale fatto causo in me in Germania, dove io lo lessi in lingua toscana, per non havere la latina, essendo che in quei paesi si possono leggere, non havendo accettato il Concilio di Trento, in modo che in quei paesi rinnegai, et confessai che fin al detto tempo io non haveva saputo né conosciuta la verità evangelica”(AFCA).
Fra’ Modesto era, come già accennato, ignorante in latino e quindi nell’Italia postconciliare non aveva, presumibilmente, mai avuto accesso completo al testo biblico. La “scoperta del Vangelo”, che tanti sconvolgimenti aveva provocato più di un secolo prima, fu per lui quasi casuale.
Le notizie sul periodo passato da Modesto in Abruzzo ci vengono dall’archivio dei cappuccini dell’Aquila in cui si trova il Processus fratris Modesti a Roviano, Laici Provinciae Romanae.
Nel 1662, infatti, fu istituito da Frate Antonio Maria da Taggia un “processo sulle virtù eroiche” per il suo confratello. Nell’introduzione si legge: “Di f. Modesto da Roviano, stette più anni in uesta nostra Provincia di S. Bernardino e vi morì in Campli. In detto tempo si regolò in modo che diede variamente a pensare di se stesso, a chi va bene, et laudabilmente, a chi male e reprensibilmente, et essendosi fatta raccolta generale delle attieni de gl’huomini illustri d’essa Provincia et essendo stato nominato in processo esso f. Modesto in modo che resta dubio se deve notarsi nella serie de nostri annali, doppo matura discussione fu ordinato a me ridurre in compendio le attieni di detto frate nel modo sono sate deposte nei processi per trasmetterle poi alla sua Provincia ad omnem meliorem finem”(OSME).
Frate Modesto che partì da Roma come eretico, ironia della sorte, vi tornò, seppure affidato alla memoria delle carte, da possibile santo. In fondo, per chi lo aveva seguito e apprezzato in vita, un po’ santo lo era sempre stato. Così descrive il suo funerale frate Antonio da Giulianova: “il suo funerale fu onorato da concorso indicibile di persone d’ogni genere, quali per devozione gli tagliarono gli capegli del capo, i peli della barba, l’Abito, non ostante che più frati lo proclamassero frate ordinario et di nessuna santità particolare. Fu sepolto nella sepoltura comune dei frati, onde fu rubato di notte tempo da più Signori principali Cittadini, dicendo che per esser’il Convento alla campagna temevano fosse rubato dalle Terre vicine, perciò lo volsero in Città, et posto in una cassa di cipresso l’interrorno avanti l’altare maggiore della Chiesa della misericordia, ove stette 40 giorni, doppo li quali fu riportato al Convento nostro d’ordine di Mons. Vescovo al quale ricorsero i frati, e fu osservato nel riportarlo che versava sangue dal naso, et orecchie e fu sepolto in terra entro la stessa cassa”(OSME)).
Quello del versamento di sangue non fu l’unico miracolo menzionato dai testimoni chiamati al processo. Oltre a quelli compiuti a Viterbo, nel Conservatorio delle Zitelle, e ad Aquisgrana, di cui ho parlato prima, vengono riportati negli atti del processo altri due miracoli avvenuti sempre a Viterbo e a Montefiascone. “Nella stessa città di Viterbo due donne incontrarono un giorno Frate Modesto e lo salutarono umilmente, e lui rivolto ad esse disse all’una: Quando partorirete quella Figlia, che avete in seno metteli nome Lucia, chè Santa Lucia è una gran Santa, e all’altra: Tu, figlia hai questi e questi peccati, che li nominò, e non te ne sei ancora confessata, confessatene subito, se vuoi avere pace di coscienza. Tutto si verificò a puntino, perchè quella non sapeva di essere in cinta, ch’era di fatti, e partorì una bella femmina, e l’altra confessò li suoi peccati…In Montefiascone un povero Scarpellino rotolandosi addosso una macina di molino, che lavorava, non ben lesto a scansarsi, trovossi con una mano sotto di quella, che ne andò pesta interamente. Spasimava quindi e piangeva ma incontratosi sul luogo f. Modesto, e presa quella sua pesta mano, la guarì perfettamente”(OSME).
Al processo tutti i testimoni chiamati a deporre sottolinearono, però, soprattutto le sante virtù del frate di Roviano, la sua imitatio Christi, il suo spirito di penitenza, per cui mangiava pochissimo e mai carne, faceva lunghe quaresime e si flagellava spesso e a lungo, passando le notti a pregare in piedi in chiesa. Alcuni sottolinearono anche le sue capacità profetiche, altri la sua carità e pietà cristiana per cui mai si negava all’aiuto e al sostegno dei più poveri.
In poche parole Fra’ Modesto fu una delle tante rappresentazioni ideali dell’uomo religioso cristiano così come per secoli il popolo aveva immaginato dovesse essere, un “santo vivo”. Il suo misticismo e le sue teorie sopra le righe lo portarono, però, a non essere neanche beato post mortem. Non sappiamo se gli atti del processo “sulle virtù eroiche” furono inviati a Roma o se, dopo il loro arrivo, si decise di non procedere verso la beatificazione per il passato “difficile” del frate.
Comunque sia, al termine di questa prima parte del lavoro “in corso d’opera”, citiamo come significativa la conclusione che nel 1662 usò il primo biografo di Fra’ Modesto, Padre Luigi da Forano: Di questo frate multi multa dicunt, chi lo loda, e chi lo biasima, chi ne ha devotione, e chi no; io…ho solo raccontato diverse cose da lui fatte, scelte da’ suoi scritti, et intese da persone degne di fede per memoria, come fo nell’altre cose. Per scrivere poi la sua vita compiutamente, e per far giuditio, se sia degno di biasimo in tutto o di lode, giudico necessario d’aspettar la conclusione dell’ultimo giorno. Fra tanto, per quel che s’è detto, ognun può giudicar quel che gli pare, ma però rettamente”(AM).