GIOCHI E PASSATEMPI D’ALTRI TEMPI
di Beatrice Sforza
L’aspetto più genuino della cultura popolare è l’effimero: il popolo vive nel fuggevole, nell’ hic et nunc, esaurisce la sua forza espressiva nel gesto, nell’improvvisazione. Ma a voler approfondire ci si rende conto che questa natura “effimera” ha in realtà un aspetto stabile e perenne. Infatti, se il gesto è momentaneo, il suo modulo ispiratore si tramanda e si conserva di generazione in generazione come un gioiello di famiglia che viene passato da madre in figlia con immutato valore affettivo e simbolico. La cultura popolare, dunque, è quotidiana, corale, effimera, ma perenne al medesimo tempo; essa sfida la morte annullandola nella ciclicità del tempo. In questa cultura un posto importante occupa il gioco, inteso soprattutto come momento ludico collettivo dove, come nella fiaba, ci si pone al grado più semplice, in situazioni in cui irrompe il mondo interno, la struttura arcaica di tradizioni antichissime. Questo può spiegare il suo fascino perenne. Riproporre giochi, divertimenti e passatempi ormai desueti, se non dimenticati, è un’operazione che obbliga ad attingere al passato, ad abbattere la barriera che separa il presente e il passato, a gettare un ponte tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Ricordare è richiamare in vita qualcosa di temporaneamente scomparso. Il mondo cambia, la memoria esige supporti magnetici, ma più che mai occorre restituire alla gente i brandelli di un mondo culturale che rischia di andare in frantumi.
In questa chiave cerchiamo di ricostruire alcuni particolari istanti di una realtà emozionale profonda, colma di una poesia che vorremmo ancora riproporre per il presente come autentica medicina a un disagio che avvertiamo sempre più vivo.
La scomparsa dei giochi e divertimenti antichi della nostra tradizione deriva da molte cause. I passatempi, templi della fantasia ed espressione di una cultura che non c’è più, i diversi giochi dei bambini di un tempo sono stati cancellati dalla TV, dai giochi elettronici, dai mille altri interessi che occupano adulti e bambini, spazzati via negli elenchi delle cose perdute. La piazzetta, la strada e i vicoli non esistono più come luogo di ritrovo infantile e sono stati invasi dalle macchine. Eppure la piazza, la strada, i vicoli sono stati protagonisti dei passatempi dei nostri avi e ancora oggi, a ben guardare, ci tramandano qualcosa del “bel tempo che fu”.
Il gioco è qualcosa che caratterizza il periodo dell’infanzia. I nostri nonni e i nostri padri, quand’erano piccoli, usavano tramandare di generazione in generazione i loro giochi tradizionali nei quali sopravvivevano usi, abitudini, tradizioni, avvenimenti di cui abbiamo vaghe conoscenze. Ebbene proprio nell’intento di “salvare” e recuperare il patrimonio “ludico” di Vivaro (che, come si noterà, è poi comune, con qualche variante, a quello degli altri paesi del nostro territorio), abbiamo tentato di ricostruire, con l’aiuto di qualche amico (1), i principali giochi, di adulti e bambini, che oggi non si vedono né si sentono più (2).
I giochi a Vivaro si svolgevano nei vari “quartieri” del paese, un tempo tutti abitati e pieni di bambini, quali la Pischèra, la Spiazzélla, il Casarinu ecc. Ogni rione echeggiava di voci e strilli di bimbi che caratterizzavano visceralmente il paese. Da notare che, mentre oggi il paese “è” la piazza della Peschiera, nel senso che la vita sociale, e quindi anche il gioco dei pochi bambini rimasti, si svolge tutta lì, un tempo (fino agli anni ’60, anni di “emigrazione” verso la capitale, o verso luoghi che offrissero maggiori opportunità lavorative) ognuno rimaneva nel proprio “vicinato”, animandolo appunto di suoni e grida gioiose. E il gioco non era solo il gioco infantile: anche i “giovanotti”, nelle lunghe sere invernali, quando erano rallentate o addirittura sospese le attività agricole e contadine, occupavano il loro tempo dedicandosi a giochi di abilità e di forza. E allora proprio dai giochi dei grandi vogliamo cominciare.
TRÈTTECA DI MAGGIO
Il gioco consisteva nella formazione di due cerchi di persone ciascuna delle quali appoggiava ognuna le mani sulle spalle del vicino. I due cerchi, che comprendevano da un minimo di cinque a un massimo di dodici persone, erano formati, rispettivamente, dai giovanotti più alti e dai giovanotti più bassi. Questi ultimi salivano sulle spalle dei ragazzi più alti, in modo da formare una sorta di “torre” umana. A questo punto iniziava il gioco, la prova di abilità: cantando una canzone in forma un po’ cantilenante e ripetitiva (3), la torre umana cominciava a girare in tondo e ad avanzare per le strette e anguste vie del paese! Da Collenaro, parte alta dell’abitato, si doveva raggiungere la zona bassa, Palaterra, e la cosa non era assolutamente semplice. Infatti in alcuni punti del centro il gioco era estremamente pericoloso in quanto, se il cerchio superiore non fosse rimasto in equilibrio e ben saldo, ci sarebbe stato il concreto rischio che, in alcuni punti particolarmente ripidi e scoscesi, con 10 – 12 metri di strapiombo, si cadesse. Per non far spezzare il cerchio, che doveva rimanere unito e compatto fino alla fine, occorreva ricorrere a veri e propri escamotages di equilibrio. Il gioco, che si è praticato fino a non più tardi della metà degli anni ’50, si svolgeva a sera tarda e in condizioni di … sobrietà: qualche bicchiere di vino in testa avrebbe compromesso il buon esito della prova!
LA PASQUARELLA
E’ il giorno della Pasqua Bbefanìa! (4). Sempre partendo dalla piazza della Peschiera, e intonando la tipica canzone cantilenante (5), un gruppo nutrito di giovani arrivava a Palaterra. Si bussava a tutte le porte con lo scopo di reperire cibi e bevande, da poter poi consumare nella “dolce brigata”.
GIRO DI CARNEVALE
Lo stesso giro, dalla Pischèra a Palaterra, si faceva a Carnevale. Il gruppo questa volta era accompagnato da un somaro, in groppa al quale, a turno, sedeva un giovanotto dal volto celato. La persona di turno doveva tenere un bocca un imbuto, ‘u mottaturu, nel quale i paesani, alla porta dei quali si bussava, versavano fiaschi e cupellétte di vino: e quando il malcapitato era “pieno”, si faceva montare sull’asino un altro che, ben presto, veniva ridotto nelle stesse condizioni!
RUCICONE
Costituite squadre di tre, quattro, cinque persone, ci si recava in una strada piuttosto lunga allo scopo di lanciare una ruota di legno (6). Il lancio veniva effettuato alternativamente da una squadra e dall’altra. Chi faceva il tiro più lungo acquistava, chiaramente, più metri e dopo che tutti i componenti di una squadra avevano lanciato, si calcolava la distanza in metri raggiunta dall’intera squadra e, naturalmente, chi andava più lontano vinceva. Le squadre perdenti dovevano pagare da bere o da mangiare.
PALO DELLA CUCCAGNA
Gioco comune a molti luoghi, consisteva nell’arrampicarsi su un palo spalmato di grasso, estremamente scivoloso, e arrivare in cima. Chi riusciva nell’intento poteva spiccare i premi “in natura”, di tipo mangereccio, che erano legati all’apice del palo.
BRICCI
Gioco prevalentemente femminile che consisteva nell’effettuare un abile lancio di cinque sassolini, possibilmente rotondi e delle stesse dimensioni, in aria, senza farne cadere alcuno. Si iniziava con il lancio di un sassolino in aria dalla mano, e mentre quello ricadeva, se ne doveva prendere un altro dal piano di gioco, prima uno alla volta, poi due, poi tre, poi quattro, fino a prenderli tutti insieme. Chi riusciva nell’arduo compito, vinceva: altrimenti passava la mano.
STURDU
Si predisponeva sul piano di gioco un pezzo di mattone o un sasso schiacciato in modo tale da tenersi in piedi. Sul sasso si appoggiavano delle monete, la puntata, e da una ragguardevole distanza veniva lanciato un altro sasso. Vinceva colui che si avvicinava di più al bersaglio senza farlo cadere. Se le monete cadevano e finivano vicino ad un altro sasso lanciato precedentemente o agli altri sassi, passavano a chi le aveva lanciate.
LEPPIA
La leppia era un pezzo di legno tagliato alle due punte di sguincio, in senso opposto. Con la schiappa, ovvero una tavola piatta con una sorta manico, si batteva sulla punta della leppia la quale, schizzando in alto, poteva essere colpita e mandata verso il bersaglio, costituito da una fila di sassi messi in semicerchio a delimitare una sorta di buca.
LIZZA
Il gioco somigliava molto a quello della leppia, con la differenza che, al posto della schiappa si utilizzava un bastone tondo, e al posto della leppia, un bastone appuntito. Nel complesso, la prova era più difficile: vinceva chi, con un colpo, due o tre (cosa che veniva stabilita all’inizio), riusciva a raggiungere la distanza maggiore.
TIPPITINA TIPPITANA VA ALLA TANA
Era questo il ritornello che si ripeteva durante la gara. Il gioco si poteva fare con le castagne, le nocchie, le noci: che solo successivamente sarebbero state sostituite dalle bilie. Ogni concorrente aveva il suo “frutto”, che veniva colpito con la schìcchera (schiocco dell’indice e del pollice), al fine di raggiungere nel minor tempo possibile il buco, precedentemente effettuato a terra.
SCUPPITTU
Rudimentale scoppietto di legno di sambuco nel quale veniva inserito un pistone di legno resistente; le pallottole erano fatte di stoppa bagnata e, tramite il pistone, veniva sparato il colpo. Chi raggiungeva la distanza maggiore, vinceva.
MASTRU GIRONIMU oppure ESCE ‘U PADRE
Il gioco consisteva nella formazione di un gruppo all’interno del quale, dopo una conta, uno della comitiva veniva messo in un angolo, denominato “la casa”, e lì svolgeva il ruolo di “padre”. Questo padre, uscendo e correndo con una gamba sola, doveva acchiappare i partecipanti al gioco che divenivano suoi “figli”. Sia i figli sia il padre, nell’uscita, non potevano poggiare a terra l’altra gamba, pena solenni scapaccioni. Il padre decideva di acchiappare gli altri da solo, oppure insieme ai figli, oppure mandava soltanto i figli per potersi riposare. A volte un padre “degenere” faceva uscire i figli correndo con tutte e due le gambe e, per la regola succitata, essi erano soggetti ai manrovesci degli altri. Una volta acchiappati tutti, l’ultimo rimasto diveniva il padre il quale, trovandosi all’improvviso in questa nuova condizione, e avendo entrambi i piedi a terra, doveva correre verso la casa ed ivi trovare rifugio.
TINGOLO BARRATTOLO
Variante dell’universale nascondino (nabbuscu). Colui che raggiungeva la tana eludendo il controllo dell’accecato, invece di fare tana, dava una zampata al barattolo che doveva essere ripreso dall’accecato e riportato al punto di partenza. Nel frattempo chi aveva dato il calcio tornava a nascondersi.
TÒPA TÒPA
Ancora una variante del nascondino che, invece di essere individuale, era a squadre. Se uno della squadra accecata tanava un componente della squadra avversaria, dicendo tòpa tòpa e il nome dell’individuato, anche gli altri dovevano correre alla tana. Se la persona scoperta raggiungeva uno della squadra avversaria prima di arrivare alla tana, questi lo doveva portare sulle spalle fino al punto di partenza.
SALTA LA QUAGLIA
Gioco individuale nel quale ognuno dei partecipanti si accovacciava, gli altri venivano saltando sopra (tipo cavallina) e, una volta effettuato il salto, si mettevano anche loro accovacciati per essere “saltati” a loro volta. Questo gioco era particolarmente adatto nei periodi freddi, come acchiapparèlla, per il movimento che comportava.
SALTA MONTONE
Gioco a squadre. I componenti di una squadra si mettevano ricurvi e formavano una sorta di trenino appoggiando ognuno le braccia sui fianchi dell’altro. I più robusti e più alti venivano messi per ultimi perché dovevano sostenere il peso di quelli che saltavano loro addosso. La squadra opposta faceva saltare, invece, prima i più atletici in modo che andassero ad accavallarsi sui primi di quel trenino e di lasciare lo spazio agli altri. Man mano saltavano tutti e quelli sotto, per poter riuscire a vincere la partita, dovevano resistere al peso di quelli sopra fino all’inverosimile. Quelli che saltavano non dovevano fare errori perché bastava che uno cadesse a far perdere la partita e scambiare i ruoli all’intera squadra.
1 – Francesco Petrucci, mia insostituibile fonte.
2 – A tal proposito si veda il bel libro di Giorgio G. Reali e Niccolo’ Barbiero Il giardino dei giochi dimenticati. Manuale di giochi in via di estinzione, Milano, Salani, 2002.
3 – “Trètteca di maggio e trètteca di giugno / Siamo arrivati alla fine di maggio e l’è arrivato giugno / E voi che state sopra, badate, non cascate / E voi che state sotto, badate, non ’nciampicate!”
4 – Anche in questo caso ci sono molte analogie con riti simili: sia la pasquarella , sia il giro carnevalesco sono definiti “canti di questua” e sono caratteristici di molte zone d’ Italia, in particolare Abruzzo, Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte. A tal proposito si veda R. Leydi I canti popolari italiani, Milano, Mondadori, pp. 80-90.
5 – Addemà è Pasqua Santa / sarà che gl’uru canta / la vengo a riverì / questa nobile compagnì. / Appréssu alla vecchiezza / ce va la Madre Santa / Sopra ‘a palomba ‘n aquila rotonda , / sopra a quell’aquila i fiori di Napoli, / sopra i fiori i sdommini maggiori, / sopra gli sdommini le braccia degli ommini, / sopra alle braccia un begliu figliu in fascia. / Sia che non sia oglio ji a Santa Maria / pella Pasqua Befana. / U porcu te gl’ammazzatu / me lla ittu ‘u vicinatu / ma l’ha fatta ‘a ciammèlla? / Vamme a piglià la Pasquarella! / Tirindò tirindò / me llo ha, o sci o no? / E se tu me ll’ha ta ha / on me fane aspettà! / I nostri compagni / ce vonno trapassà / Ma nui se potemo / arepassà volemo…” in B. Sforza, (a cura di), Raccolta di canti popolari dell’Alta Valle dell’Aniene, Istituto Comprensivo Statale di Arsoli, Sezione di Rifreddo, 2002.
6 – A volte, al posto della ruota di legno, veniva utilizzata una forma di formaggio. Questa consuetudine è tuttora viva in alcuni paesi dell’Abruzzo.