I MULATTIERI E LA VENNÉGNA DI POGGIO CINOLFO
di Terenzio Flamini
Partivano a squadre, a piccoli gruppi, raramente da soli: erano gli uomini e i muli che andavano alla vennégna. (1). Attorno alla metà di ottobre si preparavano le bestie, animali robusti, i basti buoni, i finimenti in abbondanza e un po’ di biada. L’uomo aveva con sé un corredo forse più povero di quello del mulo: giaccone, scarpe alte, un cappello, qualche tela incerata, magari proveniente da scarti militari, un lume a petrolio.
Questa emigrazione stagionale, durata dagli anni trenta ai primi anni sessanta del secolo appena trascorso, si ripeteva ogni autunno. Nei mesi antecedenti c’erano state quelle dei mietitori verso l’agro romano e quelle, occasionali, dei vangatori, degli sterratori, dei braccianti generici. I mulattieri partivano, piovesse o grandinasse, ciascuno con una o più bestie. Seguivano mulattiere antiche, percorsi tramandati da padre in figlio.
Questo il tragitto della prima giornata: Poggio Cinolfo, le Casalecchia, il fosso di Vivaro Romano, Riofreddo, la Spiaggia, Tivoli. Quasi sempre attraverso quelle che chiamavano “le montagne”. A Tivoli, il primo luogo per pernottare erano le stalle, dove si dormiva insieme ai muli. Poi da qui si dividevano: chi aveva come destinazione Montecompatri, chi San Cesareo, chi Mentana, chi Monterotondo. Un’altra giornata di cammino a cavallo attraverso campi, boschi, ruscelli, fiumi. Sul far della sera giungevano a destinazione. Si procuravano la stalla, cioè l’alloggio, e il mattino successivo iniziavano il lavoro del trasporto dell’uva per cui avevano fatto il lungo cammino.
I grossi possidenti, i tenutari e tra questi quel Graziani nipote del più famoso gerarca fascista, reduce della guerra d’Africa, maestro di scherma, come amava definirsi ripetendolo in continuazione, ingaggiavano tutti i lavoratori. Il mulattiere o vetturale, emigrante temporaneo, assumeva in quei giorni un ruolo fondamentale per la vendemmia, svolgendo una specie di cottimo: tanti viaggi con i bigonci, tanto guadagno. Il pranzo gli veniva offerto dal datore di lavoro, mentre per la cena si arrangiava: qualche avanzo del pranzo, pane e uva, un bicchiere di vino finalmente buono. La notte al solito dormiva sulla paglia, negli “stramari” sopra le stalle.
Per i mulattieri di Poggio erano una decina di giorni di fatica intensa: caricare in continuazione bigonci colmi di uva, seguire le bestie durante il percorso fino al luogo di raccolta, scaricare di nuovo e poi ricominciare. Tecniche particolari, affinate con anni di esperienza e di sforzi, permettevano di essere più veloci nel fissare con “gli accui” il bigoncio al basto, consentivano di fare una soma equilibrata, concedevano la sicurezza del trasporto, non lasciavano che il bigoncio “se spadellesse” a seguito di uno strattone, di una caduta del mulo o di un passaggio troppo stretto. Quasi sempre, finita la stagione, si ripartiva per Poggio Cinolfo in due o più, sempre insieme. Quando viaggiavano con il buio, reggevano in mano il lume a petrolio acceso. Due giorni di lento cammino lungo sentieri già conosciuti all’andata per ritrovare la propria famiglia.
Oltre alle non certamente molte lire guadagnate, si usava riportare almeno una “baschetta” di uva da tavola dei Castelli romani. Per i bambini erano una gioia e un piacere indicibili assaggiare chicchi così grossi e saporosi e dolci, così esotici.
Il vetturale, prima di iniziare nuovamente il costante e forse più faticoso lavoro di trasporto della legna dei boschi dei dintorni, aveva avuto questa variazione al tema. Era finita, per lui, la stagione della “vennégna” e stava per iniziare l’inverno.
Questa dei vetturali di Poggio Cinolfo era una emigrazione interna, come si suol dire, durata fino al periodo della capillare meccanizzazione del trasporto. Permetteva, però, a chi aveva la “vittura” di sentirsi meno oppresso dalle necessità quotidiane, rispetto a chi non l’aveva assolutamente.
1- La vennégna è la volgarizzazione forzata di “vendemmia, che per il suo significato intrinseco non veniva usata nel dialetto di Poggio Cinolfo dove la produzione dell’uva, per quanto abbondante, rimaneva sempre di quantità e di qualità modesta.