IL BALLO DELLA SARDARÈLLA NEL CICOLANO

IL BALLO DELLA  SARDARÈLLA
NEL CICOLANO

di Ivo Di Matteo

“La sardarèlla” o, in italiano, il saltarello, è una danza caratteristica laziale ma, come vedremo in seguito, diffusa anche in altre regioni del centro-nord d’Italia.
Le origini di questo ballo, come spesso si dice, si perdono nella notte dei tempi. Alcuni studiosi le fanno risalire addirittura all’epoca pre-romana dei secoli 400 – 300 a.C. presso i sacerdoti Salii, i quali praticavano i loro riti accompagnandoli a salti coordinati dal Preasul (colui che salta per primo), figura che si ritrova nel “Capoballo” al comando della quadriglia o della tarantella.
Sul Cracas – Diario di Roma, si legge un articolo in cui si parla di una specie di danza popolare romana praticata dagli antichi Quiriti che si esibivano “in una serie di salti, forse assai goffamente e con molta rozzezza” (1).
Del ballo, in modo più dettagliato, si hanno altre notizie verso la fine del 1400 quando papa Alessandro VI Borgia, alle feste in Vaticano, invitava ballerini popolani perché più allegri e divertenti di quelli di corte. Probabilmente per questo motivo si presume che il saltarello sia potuto diventare una forma musicale colta. Infatti, lo ritroviamo nel trattato di danza “Nobiltà di dame”di Caroso da Sermoneta del 1600, dove è riproposto un breve ma vivace saltarello per liuto.
Il 1800 è il periodo in cui questo ballo si diffonde maggiormente. Mendelssohn nella  “Sinfonia italiana” concepisce l’ultimo movimento come un unico festoso saltarello. Cesare Cantù lascia questa testimonianza: “In villa Borghese, la generosa ospitalità del principe consente l’accesso anche ad ilari bande musicali che in un circolo erboso eccitano il volgo al saltarello”. Gioacchino Belli nei suoi sonetti e Bartolomeo Pinelli nelle sue iconografie danno un’infinita testimonianza del saltarello romano nelle ville, nelle festose gite “fori porta” e nella campagna romana.

Il saltarello nell’Italia centrale
Proprio la campagna romana, verosimilmente, può essere stata la fucina del saltarello che si ballava nelle aie dei nostri paesi, perché la povertà che si viveva in queste contrade induceva gli uomini ad andare a lavorare nei pressi della capitale come mulattieri, vangatori e mietitori, e quando tornavano a casa riproponevano ciò che avevano appreso in città, compreso il ballo.
Probabilmente lo stesso viatico è stato anche per le genti delle Marche, Umbria, Abruzzo perché anche in queste regioni è stata assai vivace la pratica del saltarello seppure con alcune differenze.
Il tempo musicale del saltarello è 6/8, è principalmente un ballo di coppia e i passi si differiscono da regione a regione. Per grosse linee possiamo fare degli esempi: nelle Marche al suono dell’organetto si alterna la cantata e il saltarello si balla in modo assai vivace durante il brano musicale ma in modo più tranquillo durante la frase cantata, come se questa fosse un espediente per fare riposare i ballerini. La coppia si tiene per mano, alternando rotazioni a salti sul posto.
In Umbria, molto spesso il saltarello è cantato a stornelli che possono essere di lavoro, d’amore, a dispetto.
Nel saltarello romano, la coppia non si prende mai per mano, si gioca molto con un fazzoletto che fa da elemento d’unione perché l’uomo lo usa per cingere i fianchi della dama e lei per passarlo al collo del cavaliere.
In uno dei saltarelli abruzzesi del versante marino, che spesso si balla a due coppie, esiste una coreografia precisa che prevede una presa a braccia incrociate fianco a fianco, i passi, in otto tempi, si eseguono frontalmente tra le coppie.
Nel saltarello laziale, nell’amatriciano, si balla una coppia per volta, siccome è abbastanza veloce ogni coppia si esibisce per circa un minuto, con dei gesti convenzionali si comunica l’uscita consentendo l’entrata al ballo a un’altra coppia.
Lo scopo del ballo in genere era quello di poter comunicare con una ragazza senza suscitare disappunti. Non dobbiamo dimenticare che, nel passato, non era facilmente consentito parlare alle ragazze; che in chiesa i banchi per uomini erano divisi da quelli per le donne; che lo struscio in strada si faceva per gruppi di uomini o donne e che, se per qualsiasi motivo ci si rivolgeva ad una ragazza, oltre che a non ottenere risposta saltava subito fuori un fratello o un compare che con fare minaccioso redarguiva l’interlocutore. L’unica possibilità di parlare in pubblico con una ragazza, e che i ragazzi aspettavano con trepidazione, era in occasione del ballo quando, addirittura, ci si poteva toccare!

La sardarèlla
Anche la nostra “Sardarèlla”, nell’area del Cicolano, ebbe un folto numero di praticanti. Ogni occasione era buona: oltre ai matrimoni, battesimi e ricorrenze classiche, si ballava per la fine della semina, per la fine del raccolto, per un’importante vendita o acquisto di bestiame, per l’uccisione del maiale. Si ballava in casa o sull’aia e chiunque poteva partecipare senza alcun invito.
Il ballo, privo di coreografia, era soggettivo e ognuno, in particolare gli uomini, ballava in base alla propria destrezza e alla quantità di vino che aveva bevuto. I passi, generalmente, erano delle infelici imitazioni del saltarello romano: saltelli intorno alla dama, passo bilanciato, mimiche sessuali, salti laterali con ricaduta in ginocchio, spuntapiede ( una specie di veloce tacco e punta con il piede che non è di appoggio). In alcuni casi, per “entrare” nel ballo, si chiedeva permesso facendo uscire chi stava ballando. Se si entrava col partner, oppure sempre chiedendo permesso, entrando da solo, si dava il cambio ad uno della coppia.
Non era importante saper ballare quanto divertirsi, comunicare con la bella ambita e non pensare alla miseria collettiva, che era tanta.

1- Costantino Maes, in  Cracas – Diario di Roma, n. 17, 8 ottobre 1893.