LA CULTURA CEREALICOLA NEL NOVECENTO
IN ITALIA CENTRALE E IN VAL D’ANIENE
di Beatrice Sforza
Il grano, il frutto più prezioso della madre terra, sempre ha acceso le menti e gli animi degli uomini e delle donne. La spiga è il simbolo della fertilità, della ricchezza e dell’abbondanza fino in tempi, come i nostri, così restii ad alimentare fantasie e miti. Non era certo così, per i nostri antichissimi progenitori italici, per i popoli latino, osco ed equo che vedevano nella spiga il segno della benevolenza della dea Cèrere, la cui stessa etimologia si collega, per alcuni, al verbo creare. Il grano come elemento fondante di civiltà ci è narrato, poi, nel mito di Giasone e del vello d’oro, nonché nelle vicende relative alla scomparsa della civiltà Maya, quando i campi, inariditi da sistemi di coltivazione arcaici, non davano più i loro frutti. In quelle terre non era Cèrere, si sacrificavano uomini e non scrofe: identici, però, erano il culto e l’importanza del prezioso frutto della madre terra (1).
La coltivazione del grano risale ad un’età molto remota. Da alcuni ritrovamenti fossili sembra che alcune tribù dell’Europa preneolitica abbiano cominciato la coltivazione del frumento ed è accertato che la cerealicoltura preistorica nelle regioni dell’Europa occidentale si sviluppò nella fase avanzata di transizione tra l’età paleolitica e quella neolitica. Sembra che ad iniziare per primi la coltivazione del grano siano stati gli antichi abitatori della Siria e della Palestina; successivamente, il cereale sarebbe giunto in Egitto dove già si coltivava l’orzo. Gli Ebrei, durante la cattività, si nutrivano di pane nero non lievitato (pane azzimo). E anche gli antichi Greci e Romani furono grandi coltivatori di grano, in quanto grandi consumatori di pane. Proprio in Grecia la tecnica di panificazione fu notevolmente migliorata con la costruzione di forni e con la varietà di aromi e spezie atti ad arricchire l’alimento. Durante l’impero Romano, poi, il pane fu assicurato e imposto da una legislazione apposita, che consentiva a tutti i cittadini di comprare frumento dai granai pubblici ad un prezzo inferiore a quello del mercato. In epoca feudale furono in uso mulini e forni dei singoli signori che, per rafforzare il loro potere, li gestivano in regime di esclusività, impedendo ai sudditi di costruirne altri per uso personale (2). In età moderna, la storia del grano e del pane è legata alle grandi epidemie e carestie, con periodi di alti e bassi; e, tra alterne vicende, questo alimento, dagli albori della civiltà, è giunto sino ai giorni nostri, differenziandosi sotto l’aspetto delle caratteristiche qualitative in base alle usanze dei paesi in cui viene consumato (3).
La cerealicoltura estensiva nell’inchiesta parlamentare del 1906
Nel 1906, a trent’anni dall’approvazione dell’inchiesta agraria Jacini (1877-84) (4) il parlamento italiano istituiva, su proposta dell’allora presidente del consiglio Giovanni Giolitti, una nuova commissione d’inchiesta, formata da deputati e senatori, al fine di indagare, come stabiliva il disegno di legge relativo, “le condizioni dei lavoratori della terra nelle provincie meridionali e nella Sicilia, i loro rapporti coi proprietari e specialmente la natura dei patti agrari”. Nell’inchiesta in questione, l’Italia agricola fu divisa, in “cinque circoscrizioni regionali, istituendo, per ciascuna di esse, una sottogiunta parlamentare; e così ripartite: Abruzzi e Molise, Campania, Puglie, Basilicata e Calabria, Sicilia.”. Per il Lazio, pur essendo escluso dall’inchiesta in quanto appartenente ad una zona agricola “ibrida” per l’Italia, valgono, sostanzialmente, le indagini effettuate dal delegato tecnico per l’Abruzzo e Molise, C. Jarach (5). Infatti “nell’Italia Meridionale sono esclusi il Lazio e gli Abruzzi-Molise, compresi nell’Italia centrale”. Come vediamo, lo stesso Abruzzo è considerato, variamente, appartenente all’Italia centrale o meridionale (6).
Gli anni compresi tra il 1897 e il 1913 sono stati definiti come i “più luminosi” della storia agraria italiana dall’Unità al secondo dopoguerra (7). L’età giolittiana ha rappresentato, per l’economia delle regioni settentrionali, non solo il momento dell’effettivo decollo industriale, ma pure una fase storica caratterizzata da un intenso sviluppo capitalistico dell’agricoltura. Non così, però, nel centro sud, per la gran parte montagnoso e collinare, dove quegli squilibri, legati a profonde cause strutturali, assumevano dimensioni ed intensità più gravi che altrove. La crisi agraria internazionale dell’ultimo quarto dell’Ottocento, il protezionismo cerealicolo e la guerra doganale con la Francia avevano, inoltre, contribuito a discriminare ulteriormente le due “Italie agricole” con le loro ripercussioni particolarmente negative per l’agricoltura del centro sud. A partire dall’inizio del Novecento, la decadenza della “vecchia agricoltura” (cerealicola estensiva e pastorizia nomade) non trovava nel centro sud un’adeguata compensazione della crescita della “nuova agricoltura” (viticoltura, agrumicoltura, colture arboree ed ortive specializzate); e ciò era testimoniato dalla decrescente partecipazione delle regioni meridionali alla complessiva produzione agricola nazionale (dal 40% della produzione lorda vendibile nel primo anteguerra, media 1911-1914, si passava al 36% nel secondo dopoguerra, media 1950-53). Il profondo divario esistente nel primo anteguerra tra l’agricoltura settentrionale e quella centromeridionale era documentato, con grande evidenza, dai dati raccolti dal nuovo Ufficio di statistica agraria, istituito nel 1908 presso il Ministero d’agricoltura industria e commercio, e diretto inizialmente da Gino Valenti (8). Riportiamo, qui di seguito, alcuni dati.
La lavorazione del grano a Vivaro Romano nel Novecento
Innanzi tutto vogliamo premettere che accanto alla tradizione agricola del grano, considerato alimento di pregio fino al secondo dopoguerra, a Vivaro era diffusa la coltivazione di altri cereali “più poveri”, ma più a buon mercato, quali l’orzo, il farro e il granturco. Rispetto al grano, infatti, questi cereali sono piante meno esigenti che si adattano soprattutto a terreni relativamente poveri, che sopportano condizioni climatiche rigide crescendo quindi ad altitudini elevate, che non necessitano di diserbo o di concimazione chimica. Per queste ragioni erano altamente utilizzati nella preparazione di piatti vari, quali lo stesso pane (9), e il grano, più raro, veniva impiegato nella preparazione di cibi per le grandi occasioni o, comunque, utilizzato con parsimonia misto ad altri cereali.
Dai racconti dei vecchi di Vivaro Romano, si evince che la coltivazione del grano nelle nostre zone, nei tempi passati, avveniva principalmente in montagna, e questo per due specifiche ragioni. La prima relativa al fatto che tutta la campagna di Vivaro, proprietà privata dei principi Borghese, non aveva fossi di scolo non essendo bonificata; in secondo luogo, in mancanza di macchinari, il lavoro si effettuava a mano e in montagna, con l’aratro, si ottenevano risultati migliori.
La coltivazione in montagna, dunque, avveniva con l’apposito aratro (10) nei mesi estivi si faceva la maggese, che si ripassava in novembre e dicembre. Successivamente, ma prima della venuta del gran freddo, si seminava il grano che, per la prima neve, doveva essere già nato (perché sviluppasse al meglio in primavera).
Dopo la semina, la prima operazione era quella di zappetella’ il terreno con zappette strette, al fine di ricoprire le radici eventualmente scoperte e di eliminare erbacce. Successivamente, quando il grano era già alto una decina di centimetri, si procedeva a monna’: con piccole roncole, dette rungitti, si eliminavano piccoli spini piccoli assai fastidiosi.
La mietitura avveniva nel mese di luglio e si effettuava con il surricchiu. Il mietitore, per evitare di farsi male alle dita, utilizzava tre cannella, proprio a scopo protettivo. Il grano veniva raccolto in manócchi, fasci composti da nove rancate (11). Una volta avvenuta la mietitura, i manócchi venivano composti in una catasta, detta traglione, della quale la parte inferiore era detta bancu, e la parte superiore, in particolare le ultime due file in alto, detta cappa. L’ultima cappa doveva essere rivolta verso ‘u véntu acquaru, per protezione da eventuali piogge. I tragliuni venivano poi trasportati, con la traglia montata sul basto di muli o somari, negli spazi destinati alla battitura del grano, le are (12). Arrivati all’ara venivano accatastati in covoni: le quantità minori venivano battute con bastoni detti, appunto, vattituri. Per i quantitativi maggiori, invece, si procedeva alla battitura tramite cavalli, nel sistema detto trita.
La trita, un vero e proprio avvenimento che durava da mattina a sera, consisteva, da principio, nel sistemare sull’ara i manócchi in cerchi concentrici. A seconda della quantità del grano, potevano essere utilizzate dalle due alle cinque bestie, le quali venivano legate l’una al collo dell’altra con delle corde. Il cavallo guida era tenuto con la capezza dal padrone, che manteneva così le bestie nello spazio della trita: il trotto dei cavalli procedeva fin quando non era terminata la battitura. Le bestie venivano allontanate e gli operai, con forcine a due e a tre corna, allargavano tutta la paglia, oramai quasi triturata, formando dei cerchi (dai due ai tre a seconda della grandezza della trita). Quando tutto era stato smosso, si ricominciava dal cerchio più piccolo e si unificava il tutto, partendo dal centro e procedendo verso l’esterno. Per poter ottenere un risultato migliore, dopo circa un’ora, veniva il momento del “fòri la paglia” (così diceva il capotrita). A questo punto le bestie venivano riportate sulla trita e continuavano il giro ancora per qualche tempo: quando si capiva che con due giri (in caso contrario si procedeva anche al terzo giro) la trita era completa, allora la paglia veniva selezionata, buttata di fianco e collocata nei pagliai. Rimasti il grano con la pula, si procedeva all’ammucchio e, con pale di legno strette, si cominciava la concia, che avveniva sempre verso le quattro o le cinque di pomeriggio quando iniziava a spirare il véntu rittu, necessario proprio per conciare (13).
Negli anni di cui riferiamo, nelle nostre zone si utilizzava un tipo di grano unico, il grano “Rieti”, ricchezza e cordoglio dei nostri contadini: se da una parte, infatti, con la buona stagione era molto produttivo, con le nebbie delle nostre valli si “annebbiava”, appunto, prendendo un colore rosso-grigiastro, la qual cosa comprometteva l’intero raccolto. Quando, negli anni tra il 1950 e il 1960, si costituì l’organizzazione dei Coltivatori Diretti vennero importate, dalla campagna romana e con probabilità anche dall’America, nuove qualità di grano, quali il “Vivenza”, l’ “Abbondanza”, il “Roma”, grani molto produttivi e meno fastidiosi, perché quasi privi di lische.
1-Per riti e sacrifici legati al culto del grano nei vari paesi, si vedano i capitoli “La madre e la vergine del grano in Europa settentrionale”, “La madre del grano in vari paesi”, “Litierse”, “Lo spirito del grano come animale”, in James G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione, Milano, Bollati Boringhieri, 1982, pp. 481-571.
2-A tal proposito, si veda B. Sforza , La mola di Vivaro Romano, in Aequa , VII, 20, gennaio 2005.
3-Per queste notizie sono stati consultati i siti www.nuovaterrasrl.it , www.metweb.com, www.cortonaweb.net.
4-Atti dell’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, Roma, 1907-11, 8, voll. In 4°.
5-Atti …, op. cit., Vol. II, Tomo I, Relazione delegato tecnico C. Jarach, Roma, 1909.
6-A. Prampolini, Agricoltura e società rurale nel mezzogiorno agli inizi del ‘900, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 44
7-Op. cit. p. 40.
8-G. Valenti, “L’Italia agricola dalla costituzione del regno allo scoppio della guerra europea”, in L’Italia agricola e il suo avvenire, Roma, 1919, pp. LXVI-CII.
9-Un tipo di pane molto diffuso, ‘u longarucciu, era costituito al 50% da farina di grano e al 50% da farina di granturco.
10-A tal proposito, si veda “L’aratro di Vivaro tra leggenda e storia”, in Aequa, VI, 16, gennaio 2004. Le notizie sulla lavorazione del grano a Vivaro sono state fornite da Francesco Petrucci, che ringrazio.
11-La rancata è il piccolo fascio che entra in una mano.
12-Le are più note di Vivaro sono: ara ‘e Piuiccica, ara ‘e Ciccone, ara ‘e Cicchittu, ara ‘e Cicciacattia , ara ‘e Piu.
13-Tutto questo fin quando, negli anni tra il 1930 e il 1940, arrivarono le prime trebbiatrici con motore a scoppio.