LA DURA VITA E IL LAVORO AD ARSOLI NEL SECOLO XX

LA DURA VITA E IL LAVORO AD ARSOLI
NEL SECOLO XX

di Walter Pulcini

“Professo’, perché non parli mai de nui?” La garbata richiesta dei frequentatori del Centro Anziani di Arsoli mi ha dato l’opportunità di interessarmi alle loro vicende di vita mettendole, però, a confronto con quelle della generazione precedente, quella dei loro padri, a cavallo tra il secolo XIX e quello XX (1).

Un tempo si lavoravano i terreni
Fino a tutto il 1940 centro della vita del paese era l’agricoltura e ad essa si dedicavano la maggior parte degli arsolani, compresi i ragazzi. Venivano coltivati i terreni della pianura, della collina e anche della montagna, le zone di essa più aride, dalle Fontanelle alle Macchie, da Piani Uggi a Valle Fiammetta, sul versante dei Simbruini, alle Selve, Colle Alto, Casanaglia e la Spagnola, sul versante dei Sabini, zone tutte aride e ricoperte da sterpaglie, strappate con tenacia per avere qualche metro in più da seminare per raccogliervi, alle volte, poco più di quanto seminato.
Il lavoro di dissodamento o la creazione di piccole radure, le cèse, dava vita anche ad altre attività. Con la pietra tolta dal terreno e la ramaglia si realizzavano le calecàre, forni per la cottura della pietra per ricavare la calce necessaria per le costruzioni, le imbiancature, per la cura dei vigneti, unita al solfato di rame; con la legna tagliata si erigevano le carbonère, cumuli di legna ricoperti di terra che con una lenta combustione offrivano il carbone per la cucina.
Il grano prodotto nelle zone più lontane era trebbiato in zona con ju vattituru e il ventilabro o era trasportato con la caia a dorso di mulo o di asino nelle are, le aie, realizzate in luoghi esposti alle correnti in modo che i chicchi sgranati dal calpestio di cavalli o buoi potessero essere ripuliti facilmente dalla pula.
Nella parte collinare e in quella pianeggiante erano coltivate frutta e verdura, oltre all’olivo e alla vite, e nei terreni più umidi “la fagiolina arsolana”, vanto dei contadini locali, venduta in molti negozi di Roma (2). Olio, frutta e verdura, in special modo i pomodori, in estate diventavano merce di scambio nei paesi del vicino Abruzzo, una volta Regno, con patate, lenticchie e altri generi non prodotti in Arsoli. Tutto quanto si era deciso di esportare era posto nei bigonci e tenuto presso le capanne dove pernottava l’incaricato del trasporto. Esso caricava i bigonci allo spuntare delle costellazioni dei “Tre bastoni” (Eridanus) e della “Cagninèlla” (Cetus): l’orologio che indicava l’approssimarsi dell’alba, come ci ha raccontato Angelo Tarquini, classe 1913, che da ragazzo accompagnava il nonno in questi viaggi. Non era infrequente il caso, come ci riferì diversi anni fa Augusto Nardoni, classe 1888, che non si riuscisse a piazzare i prodotti o che si fosse costretti a vagare da un paese all’altro perché preceduti da altri. Una volta Augusto, oltre a non aver potuto piazzare la sua merce, uscendo dall’osteria dove era entrato per bere una fojetta (3), non trovò neppure l’asino che aveva lasciato legato alle classiche catenelle.

Nella Campagna romana
La precarietà di tante famiglie e la necessità di denaro costringevano, inoltre, gli arsolani a recarsi a lavorare nella Campagna romana nei periodi della semina, della zappettatura, della mietitura e della falciatura, come ci raccontarono anni fa il già citato Augusto, Angela Napoleoni  e Tomassina Palmieri, meglio conosciuta come “Nonna Gigia”, ambedue nate nel 1891. Al momento dei lavori, venivano in Arsoli i caporali incaricati dai fattori di reclutare manodopera e formare le gavette, gruppi di tre o più uomini capaci e robusti. Essi, portando qualvolta anche qualche ragazzo, partivano a piedi, calzando le ciocie, verso le varie tenute dell’Agro romano, la Massimina, le Sepolture di Nerone, Pantano, Lunghezza. Giunti sul posto di lavoro si sistemavano nelle fattorie (in estate anche in tende realizzate con lenzuola sorrette da bastoni), approntavano le rapazzole, i giacigli, e prendevano possesso dei fuculari, i punti di cottura per i modesti pasti. Gli alimenti variavano secondo le fattorie perché alcune passavano pagnottèlle, altre costringevano a prepararsi da soli polenta e pizza. La sera, pasto comune per tutti era l’acqua cotta, ventresca, acqua e olio cotti in una padella e poi versati su fette di pane. Obbligatorio per tutti era mangiare aglio e cipolla per “caccià l’aria cattìa”, combattere la malaria che imperava nella Campagna romana.
Gli intervistati ci hanno riferito aneddoti particolari: Augusto, al termine del suo lavoro, andò a riscuotere il saldo della paga, ma invece si trovò davanti i carabinieri fatti venire dal fattore per il timore di una reazione violenta. “Nonna Gigia”, che era partita per collaborare ai lavori di mietitura nella tenuta della Massimina, durante il giorno legava i covoni (le gregne in romanesco, i manocchi in arsolano) e poi li componeva nella manocchiara, la biga, mentre la sera, essendo capitata con un gruppo di buontemponi, si divertiva a recitare allegre scenette collettive, a fare l’attrice. La stessa, trovandosi presso la città, volle andare a visitarla in compagnia del fratello. Costretta a calzare le scarpe, se le tolse quando non riuscì più a camminare e al fratello che la rimproverava rispose sfrontata:- Le scarpi me fau male e ppo ecco chielle me conosce! Un’altra volta, mentre erano intenti ai lavori di mietitura, due giovani furono chiamati per arruolarsi nell’Arma dei carabinieri. Essi salutarono sarcasticamente gli attrezzi da lavoro e andarono incontro al loro destino, che poi li vide ottimi marescialli.
I più intraprendenti tra i lavoratori stagionali si fermarono nella Campagna romana, presero in affitto delle fattorie e fecero la loro fortuna, organizzando ricche vaccherie e ben attrezzati orti per produrre verdure da vendere nei mercati rionali della Capitale. Fino a quando il cemento non aveva invaso le zone di Torsapienza e Lunghezza era facile sentir parlare e incontrare fattorie come quelle dei Passeri e dei Piacentini, gente che con il duro lavoro e la vendita del latte e della verdura s’era emancipata.

Artigiani e operai tra le due guerre
Nel periodo tra le due guerre, molti uomini furono costretti a lavorare nei cantieri della Società Acqua Marcia o nella cava di Cineto Romano che raggiungevano a piedi e, quando fu possibile avere l’abbonamento ferroviario, altri andarono a  lavorare nelle cave di pozzolana e pietra lavica di Salone e di Lunghezza o a Roma nei lavori di demolizione per la realizzazione delle vie dell’Impero e della Conciliazione o in quelli dell’Eur, lavori che richiedevano robusti manovali e muratori. Qualche altro scelse la via militare o il lavoro in ferrovia.
Arsoli aveva, poi, un buon numero di artigiani, gli “artisti”, che vivevano in maniera più agiata. Numerosi erano i muratori che costruivano per intero le abitazioni senza l’ausilio di specialisti; tra loro si distinse Antonio Mancinelli, che costruì a Carpineto la chiesa di S. Leone Magno, su commissione di papa Pecci, Leone XIII, oltre ad altri edifici interessanti ad Arsoli e fuori. C’erano bravi falegnami, tra i quali Mario Pulcini che realizzò tutta la parte lignea del teatro Brancaccio a Roma. Vi erano, poi, i lattonieri che con lamiera vecchia o nuova realizzavano imbuti, caffettiere, coperchi, lanterne e giocattoli sia per il paese che da vendere altrove. Una categoria particolare era quella dei calzolai, una ventina, i quali facevano scarpe pesanti in suola abbondantemente chiodate che vendevano anche nelle fiere. Tuttavia gli affari interni erano fiacchi perché molti andavano scalzi, specialmente i ragazzi, o con le ciocie. Non mancavano bravi artisti, come Carlo Tozzi che confezionava raffinate scarpe da donna in lucertola e serpente. Operavano anche i fabbri dei quali si vedono ancora preziosi pezzi in ferro battuto. Vi erano, infine, due facocchi, carradori, che costruivano e riparavano i carretti.
Quanto agli studi, pochi, i figli degli artigiani e dei commercianti, frequentavano le scuole tecniche di Tivoli; raggiungevano la laurea o il diploma i figli dei professionisti e qualche altro che entrava in seminario e usciva prima della ordinazione sacerdotale. I figli dei contadini frequentavano la scuola fino a sette o otto anni e poi erano utilizzati per badare alle bestie o per aiutare nei lavori di campagna meno pesanti, mentre le femmine erano destinate a badare ai fratelli più piccoli. Questo fatto rese sensibile il fenomeno dell’analfabetismo, fenomeno che fu sanato nel dopoguerra con i corsi di scuola serale e popolare.

Anche le donne lavoravano
Le donne avevano anch’esse il loro posto nella vita agricola perché dovevano curare galline e maiale, raccogliere legna fina nei boschi per accendere il fuoco o alimentare il forno per la cottura del pane, portare il pasto agli uomini. Nei periodi di più intenso lavoro, le donne portavano con sé anche i bambini piccoli mettendoli nella nannarèlla, una piccola culla di legno, o ponendoli nella scifa, un asse di legno; i bambini così sistemati erano posti all’ombra di un albero o di grossi ombrelli.
Nelle famiglie dei pastori, come ci ha raccontato Filomena Piacentini in Napoleoni, classe 1911, la vita era più dura e impegnativa poiché la mattina alle quattro doveva andare a ritirare il latte appena munto nei punti più disparati del territorio; al ritorno doveva portare da mangiare al maiale, centro dell’economia familiare, doveva recare il pranzo al pastore e al tramonto nuovamente a caricarsi sul capo il secchio con il pasto serale per il suino. Molte donne si dedicavano alla lavorazione della canapa coltivata nei terreni umidi, le canapine; le donne anziane approntavano il filo e le giovani tessevano lenzuola, strofinacci e altri tessuti con i grandi telai di legno. Le figlie degli artigiani e di altri benestanti si dedicavano all’arte del ricamo insegnato loro dalle Figlie della Carità. Altre donne, infine, si impiegarono come domestiche presso le famiglie borghesi del paese o quelle che venivano in villeggiatura che, poi, le portavano in città durante il resto dell’anno.

Il cambiamento: pendolarismo e impiegati
Il periodo 1940 – 1945, quello relativo agli eventi bellici, segnò il ribaltamento completo delle condizioni di vita e di lavoro per cui la nuova generazione vide l’agricoltura passare da attività primaria a lavoro secondario. Nei primi anni la cura dei campi fu affidata agli anziani e alle donne ma, successivamente, l’attività agricola diminuì sempre più e fu limitata ai terreni più fertili, agli oliveti e ai vigneti impegnando qualche appassionato e coloro che avevano trovato nuove attività e vi dedicavano qualche ora libera e i giorni festivi (4).
Durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo i pochi giovani che avevano avuto la possibilità di studiare e coloro che, reduci dai campi di battaglia o dalla prigionia, potevano sfruttare i benefici loro riservati, si occuparono presso Enti pubblici e privati. La gran massa degli arsolani, a cominciare dai ragazzi di quindici anni, si occupò invece nell’edilizia che offriva larghe opportunità di lavoro in zona e, specialmente, a Roma con i lavori di ricostruzione e la speculazione dei palazzinari.
Gli operai partivano tra le quattro e le cinque del mattino con treni freddi e scomodi, quelli che si erano rimediati dalle distruzioni della guerra, portando con sé il pasto per il giorno: pane e frittata, pizza e verdura, il tutto avvolto con carta, spesso di giornale, e stretto nei grossi fazzoletti a quadri, la mutina, che solo più tardi fu sostituita da borse o valigette nelle quali il pasto era più sostanzioso: un termos ripieno di pasta, fagioli e verdure cotte il giorno precedente, il tutto accompagnato da una bottiglietta di vino. Sul treno, il carico umano ripiombava nel sonno e veniva disseminato nelle varie stazioni prossime a Roma e sciamava poi alla stazione Termini. Il viaggio di ritorno iniziava alle diciotto e trenta con un treno che, per la sua lentezza, era stato denominato “Nobile” (5): la lettura del giornale, una chiacchierata sui fatti del giorno, una partitella a carte e un immancabile sonnellino accompagnavano il rientro a casa, che non avveniva mai prima delle ventuno, quando parte della famiglia, lasciata a letto al mattino, già dormiva e poteva essere vista solo la domenica.
Le condizioni di viaggio migliorarono più tardi con il ripristino o la nuova istituzione delle autolinee private Marozzi, Laurenti e Zeppieri che richiedevano una spesa maggiore ma consentivano di partire più tardi e tornare prima.
Gli arsolani, fatta eccezione per i muratori, furono assunti tutti come manovali ma, ben presto, grazie al loro impegno e alla loro capacità, divennero tutti operai specializzati, da intonacatori a stuccatori, a ferraioli, a carpentieri, a mattonatori. Non tutti, però, furono fortunati con i datori di lavoro poiché alcuni di essi erano “stanchi nel pagare” e non sempre versavano i contributi, specie quelli INPS, con la conseguenza che molti, dopo una lunga vita di lavoro, percepiscono, ora, la pensione al minimo. Analoga sorte hanno avuto coloro che lavoravano con i cottimisti, operai più capaci e più scaltri che costituivano squadre che lavoravano “a cottimo”, a misura, e guadagnavano di più ma senza contributi. Tra gli specializzati ci fu qualcuno, come Francesco Napoleoni, classe 1930, che negli anni tra il 1958 e il 1960 restaurò gli stucchi del Teatro dell’Opera di Roma e, apprezzato da molti architetti, lavorò al restauro di gallerie d’arte, ambienti raffinati a Roma e Londra.
Con l’esplodere del clientelismo politico, molti lasciarono i cantieri per l’ambito posto fisso, assunti come bidelli, personale ausiliario negli ospedali e in altre attività ministeriali. L’artigianato andò decadendo, soppiantato dalle macchine e dall’industria; rimasero solo qualche falegname, alcuni muratori, i meccanici. Le mutate condizioni economiche fecero sviluppare il mestiere del sarto per uomo che confezionava abiti anche per clienti romani. Pure le donne fecero il loro ingresso nel mondo del lavoro impiegatizio come: bidelle, addette ai vari servizi, insegnanti, che si aggiunsero al gruppo di operaie che già erano utilizzate nel locale pastificio. Molte furono anche le sartine che, unitamente alle maglieriste, si prepararono negli appositi corsi che si organizzavano presso il laboratorio delle suore dove operavano da tempo ottime ricamatrici.
Diversa fu anche la sorte dei ragazzi che, contrariamente a quelli della generazione precedente, frequentarono per intero la scuola elementare e si iscrissero anche alla scuola media, specie dopo il 1959, anno in cui fu istituita in Arsoli la scuola secondaria. Oggi quasi tutti frequentano i corsi superiori e in molti si iscrivono all’Università. La vita, ad Arsoli, è totalmente mutata.

1 – Oltre alle apposite interviste per questo lavoro, molto materiale lo avevo già raccolto e in parte pubblicato. Vedi, W. Pulcini, Conosciamo il nostro paese, Tivoli, 1959, e Il dialetto di Arsoli, Tivoli, 1972. Relativamente agli approfondimenti dei vari lavori che si leggono nel presente articolo, si rimanda a: W. Pulcini, Arsoli, la storia, le bellezze, i personaggi, le attività, Roma, 1999.
2 – Un duro colpo alla produzione della fagiolina fu inferto, negli anni Trenta, dai lavori di riordino delle sorgenti dell’Acqua Pia Antica Marcia e ancor più dall’allargamento della zona di rispetto.
3 – La fojetta era la classica bottiglia a collo largo con la quale l’oste serviva mezzo litro di vino.
4 – La sistemazione delle strade rurali, avvenuta negli anni sessanta, l’introduzione dell’ora legale, la disponibilità di auto, furgoni e mezzi meccanici per lavorare la terra, oltre al miglioramento delle comunicazioni con Roma e gli altri luoghi di lavoro hanno riportato più gente sui campi e la situazione è andata migliorando in questi ultimi tempi grazie al gran numero di pensionati, ancora efficienti, che hanno trovato nei loro terreni più comodi l’opportunità di impiegare il tempo libero. Sterpi e boscaglie, tuttavia, hanno invaso i terreni più scomodi e le zone di montagna che i nostri antenati avevano dissodato, spinti dalla necessità, negli anni bui della miseria.
5 -  Forse in riferimento al lento volo del dirigibile e all’eploratore del Polo Nord.