di Mario Giagnori
Le prime avvisaglie
«In nome della Santissima et Indivisissima Trinità, Padre, Figliolo e Spirito Santo, amen. adì 9 ottobre 1656, ora nona, sul Pontificato del santissimo Padre in segio e signore nostro Alessandro per divina Provvidenza Papa settimo, anno del suo Pontificato secondo, Io Domenico Recchia de Terra Sancti Gregorii, sano per grazia di Dio, et intelletto, benché infermo di corpo, giacendo in letto della sua solita habitatione, et premeditando non essere più cosa certa della morte, ne l’hora più incierta di essa, decido di far testamento e provvedere alla salute dell’anima sua, et raccomandata in primis l’anima sua come più degna del corpo all’onnipotente Iddio et alla famosa Vergine Maria et a tutti i santi della corte celeste, lascio le mie robbe… ».
Il poveruomo morì poche ore più tardi, ma le sue ultime parole impresse sul vecchio scartafaccio dall’inchiostro ormai tabaccoso e quasi sbiadito forse esprimono come meglio non si potrebbe il dramma che stava vivendo l’intero popolo di San Gregorio. la più grossa disgrazia mai vissuta dal paese in tutta la sua secolare storia aveva raggiunto il suo culmine.
Tutto era cominciato poco meno di un paio di mesi prima: la mattina del 16 di un caldissimo mese di agosto del 1656. all’improvviso, senza che nessuno ne avesse ancora consapevolezza, la solita vita di San Gregorio da Sassola si dissolse come una nuvola leggera spazzata via dal vento. Da una casa, nella parte bassa del paese, giunsero le grida laceranti di una giovane vedova che svegliarono l’intero vicinato. Diverse donne che subito si precipitarono all’interno dell’abitazione rimasero sconvolte dallo spettacolo che si presentò ai loro occhi. La donna, l’intero corpo coperto di pustole, era in preda a convulsioni e forti febbri. quando nel giro di poche ore spirò, tutte rimasero immobili nella stanza, quasi affascinate dalla visione dei suoi atroci tormenti. nessuna in quel momento sospettò che di lì a qualche giorno avrebbero soddisfatto pienamente quella sorta di curiosità oscena. Tutte avrebbero capito che quando la morte si presenta veramente supera ogni possibile immaginazione. Non sarebbero più rimaste ad assaporarla da lontano, perché la morte avrebbe davvero goduto delle loro vite, ma prima avrebbero visto la paura, le amicizie annientarsi, le famiglie sfaldarsi e ogni cosa finire. Stanca della sua fatale impenetrabilità, la morte avrebbe mostrato in maniera implacabile la sua vera faccia ai vivi. Lo spettacolo della sofferenza della povera vedova non era niente al confronto di quanto doveva venire. a breve avrebbero sul serio assistito al trionfo della morte sul mondo. Già nella stanza della vedova aveva la faccia di ciascuna di loro. In quel momento molte erano già morte, anche se ancora lo ignoravano. la peste, in quel mattino di agosto, era entrata a San Gregorio. «a fine mese già morivano dieci o venti persone al giorno senza poterci far nulla. e non vi era casa che non vi fosse qualche appestato, abbandonato da tutti perché ognuno temeva d’attaccarsi il male. Persino i padri e le madri abbandonavano i figli, e i figli i genitori, e così la moglie il marito, e il marito la moglie. Insomma, si viveva in un grandissimo disordine (1)».
L’inizio della epidemia
L’epidemia di peste era scoppiata a Napoli agli inizi di maggio, dopo l’arrivo di una nave spagnola carica di soldati appestati. I primi morti ci furono vicino al porto, nel popoloso quartiere del Lavinaio e in poco tempo il caos divenne assoluto. Il 15 maggio papa alessandro VII diede ordine di chiudere le nove porte di Roma, emettendo il «Bando di vita» non solo contro chiunque avesse fatto entrare nello stato della chiesa una persona del Regno di Napoli, ma anche contro ogni tipo di commercio con quella terra. Ciò nonostante la peste raggiunse presto la città. chi disse a causa di un marinaio napoletano che aveva preso alloggio in un albergo di Trastevere, e altri per colpa di un certo Mario Pasquale Vellettaro, che aveva un banco alla colonna traiana, il quale aveva importato da Napoli «ventagli, e veletti, et calze di seta, che erano appestate ». Fu addirittura emesso un bando contro chiunque avesse acquistato le sue merci, e messo a morte se non avesse denunciato il fatto. «la Principessa di Palestrina fece ardere una cassa piena così come stava, per avervi riposto un ventaglio che haveva comprato dal merciaio per cinque scudi (2)».
Anche a San Gregorio si cercò in qualche modo di prevenire il contagio, ma con provvedimenti assai blandi. «Stante il rumore di Peste che si sente fora da queste contrade, col presente pubblico Bando si ordina e si comanda a tutte le persone di pulire e levare ogni sorta d’immondezza intorno a questa terra e di pulire di tutti li sozzi, ognuno innanzi e retro, et intorno le loro case». Ma non bastò, naturalmente. la peste entrò in paese per il «cattivo ordine che si tenne nel custodire», relazionò in seguito il capitano Spallette, nominato commissario di San Gregorio per il morbo contagioso, «perché è vero che furono poste guardie alle porte, e queste erano vigilantissime nel non far entrare persona alcuna, ma quelli che venivano, vedendosi impedito l’ingresso, ricorrevano al governatore, e questo poi li faceva entrare, così che questo disordine era tale che entrava solo chi non voleva». Come davvero fosse entrata la peste in paese non si seppe mai per certo. qualcuno diede la colpa alla vedova, perché «la svergognata era andata in Roma e aveva comprato un ventaglio», e ben le stava quello che le era capitato. se avesse rispettato la sua vedovanza, non le sarebbe certo capitato nulla di male. altri dissero che la peste fosse stata portata «dalla moglie di un merciaio, che gravida di molti mesi, era morta a giugno di febbre maligna. Le donne di San Gregorio erano accorse a vedere la povera defunta, compassionando il povero marito, senza che nessuna però sospettasse che fosse morta di peste». Ma dopo la morte della vedova nella parte bassa del paese, il medico non ebbe più dubbi: si trattava di peste. «Indi si diede la morte a far strage delle zitelle, e prima che morisse alcun uomo erano morte 150 donne». Per tutto il mese di agosto il governatore non reputò neanche di dover avvertire Roma che a San Gregorio era scoppiata l’epidemia. sennonché, i governatori di Poli e di Casape, paesi esenti dalla peste, temendo il contagio lo denunciarono alle autorità.
Il 4 settembre il papa inviò un ufficiale con l’incarico di imprigionarlo. Per evitare di dover entrare in paese, l’uomo pensò bene di attirare il governatore fuori delle mura con un tranello. si presentò alla porta del paese, e comunicò che da Roma erano stati inviati cinque medici, che però stavano aspettando «alli confini di Casape perché in San Gregorio non volevano entrare per via del male». Era quindi opportuno che il governatore andasse fin là per convincerli. Nient’affatto convinto dal racconto dell’ufficiale, il governatore prese tempo e disse che si sarebbe consultato con i suoi. «Riunito il paese, tutti dissero la loro, e alla fine il popolo risolse che s’andasse all’appuntamento ma con gente armata. così andettero in venti, e quando arrivarono alli confini, invece di trovarsi di fronte il collegio dei medici videro appostate più di trenta persone armate di Casape e di Poli. Ma questi, quando videro tra la gente armata di San Gregorio il bandito caporale, temuto in quelle contrade perché aveva già commesso setto o otto omicidi, si diedero tutti alla fuga. Restò solo il commissario, che tanto seppe dire e raccomandarsi che li gregoriani lo lasciarono libero». Il 19 settembre, il principe di San Gregorio, don luigi Pio di Savoia, spedì da Roma «un chirurgo, quattro beccamorti, e il capitano Spallette con un gruppo di soldati». Ma in paese, nel frattempo, avevano continuato a dir messa nel chiuso delle chiese e a far processioni lungo le vie e i morti erano aumentati ogni giorno di numero.
I rimedi
Il capitano Spallette prese in pugno la situazione. Fece spostare i morti dalle chiese, dove si era continuato a seppellirli, «perché recavano una tal puzza, che non solonon si poteva stare nella piazza, ma si sentiva fino a un mezzo miglio lontano». I cadaveri furono gettati in alcuni grossi pozzi vicino alla chiesa di San Sebastiano, fuori delle mura, sopra cui fu buttata «calce di pietra per impedire la puzza». Murò le porte delle chiese e dopo le proteste del parroco, affinché potesse continuare a dire messa, il «commissario sopra al morbo contagioso fece alzare un altare sotto l’olmo nella piazza fuori della terra con cielo e baldacchino e tele e tutto circondato da grossi rastrelli acciocché niuno si potesse accostare». Quindi, fece approntare quattro lazzaretti fuori del paese dove dividere uomini e donne, «due puliti e due sporchi», i primi per coloro in via di guarigione, gli altri per gli infermi. «I quattro beccamorti che si occupavano di prelevare dalle case i cadaveri e i contagiati ricevevano trenta baiocchi per ogni morto, e quindici per ogni ammalato che portavano al lazzaretto, oltre alle regalie e a quanto altro riuscivano a prendere senza dover rendere conto ad alcuno. e questi si mantenevano sempre sani, grassi e senza alcuna doglia di testa». I soldati al comando di spallette gettavano calce viva nelle case dove si erano trovati gli appestati e cercavano di scovare quanti ancora si rifiutavano di andare nei lazzaretti, «perché in molti si nascondevano perfino nei pozzi per non esservi condotti ». Mentre anche i frati del vicino convento di Santa Maria Nova si davano da fare per aiutare la popolazione, andando «in giro a portare i sacramenti protetti da una tela incerata e con un spugna imbevuta d’aceto in bocca per la paura d’attaccarsi il male», a fine settembre i morti erano così tanti che l’arciprete si lamentò che non aveva più candele per i funerali, e il capitano Spallette che non aveva più calce «per spurgare le case degli appestati». Cos’altro si cercasse di fare in paese per proteggersi dalla peste, emerge anche da un curioso fascicolo conservato nell’archivio baronale. Si tratta di un fascio di documenti tutti dello stesso tenore, presentati alla corte nel 1657 da domenico Balloncini, speziale di San Gregorio. Balloncini aveva fornito medicinali a diverse persone morte durante i mesi della peste, e ora ne pretendeva il pagamento dagli eredi. Il 15 settembre «la moglie di Domenico Recchia chiede teriaca per suo marito e più pasta per bubboni e vesciche». Il 21 settembre antino callanzo aveva chiesto allo speziale «tiriaca per sua moglie Marzia, e in più olio di amandole e più cantarida per vesciche e più olio di ibisco e olio di ibisco e violetta». Il 25 settembre «Jacopo Janilli volle aqua tiriacale e più aqua con nigra borragine e più aqua che ci havea intinto spezia di sandalo». Il 2 di ottobre Felice aremisi domandò «giulij 20 di aqua tiriacale per sua madre, ammorbata co’ li bubboni sotto il zizilico (3) e più olio del battilo di teriaca e pasta per vesciche». Un insieme di forniture, il cui comune denominatore è sempre lo stesso: la teriaca, l’unico farmaco che all’epoca si considerava in grado di combattere la peste. La teriaca, leggendaria e misteriosa medicina, ha un’origine assai nebulosa, ma era già nota nell’antichità. Il farmaco fu considerato per lungo tempo una vera e propria panacea, ricercato non solo perché ritenuto efficace contro la «crudele pestilenza ma buono per ogni male». combatteva il mal di testa cronico, le difficoltà di udito, la diminuzione della vista, gli svenimenti, le vertigini, l’asma, il mal di reni e moltissime altre malattie. la sua preparazione fu un affare di stato per molte città italiane, poiché lo speziale, per giuramento, non poteva comprarla in altre zone ma era costretto a prepararla lui stesso. un dizionario medico definiva la teriaca «una collezione mostruosa di innumerevoli sostanze, di cui le più sono in contrasto tra loro, quasi che l’originario autore si sia servito di tutto quanto era reperibile a portata di mano. Ma da questo ridicolo miscuglio senza principi, per un caso fortunato è scaturito un medicamento che non ha eguali in quanto a virtù curativa».
La teriaca restò presente in tutte le farmacie fino alla metà dell’ottocento, e fu soltanto sotto l’urto della chimica farmaceutica e della medicina moderna che cadde completamente in disuso alla fine di quel secolo, non tanto per la dubbia efficacia quanto per la sua composizione senza regole. a onor del vero, c’è da dire che non sappiamo quanto di tutto ciò che si sosteneva sulle sue qualità fosse falso, perché dopotutto una verifica sulla sua efficacia non è mai stata fatta. Ma nonostante la teriaca e le misure del capitano Spallette a San Gregorio si continuava a morire. «Il male era che a molti gli si creavano bubboni nel zizilico sotto il braccio, e nella giuntura della coscia attaccata al pettignone (4), e li bubboni erano come grosse posteme». anche Domenico Recchia, come si è visto, alla fine dovette capitolare. la teriaca che gli aveva fornito lo speziale purtroppo non fece l’effetto che si aspettava. Il 9 ottobre, mentre il poveruomo stilava il suo testamento, la peste si era già portata via trecento anime di San Gregorio. E, purtroppo, non c’era soltanto la peste a destare preoccupazione. Mancava il cibo per i vivi, perché dopo i fatti avvenuti con l’ufficiale inviato da roma, «li popoli di Poli e casape liberi da quel male, nel mentre che vieppiù fumava in San Gregorio avvertirono monsignor trasciotti, commissario generale di Marittima e Campagna che san gregorio era infetto», e il paese fu messo al bando. A San Gregorio si temette addirittura che il paese «fosse spianato», ovvero raso al suolo e cancellato per sempre, cosa non rara di quei tempi. Dovette intervenire lo stesso cardinal Pio di Savoia, fratello del principe Luigi, che scrisse al governatore di San Gregorio, perché tranquillizzasse i paesani, e che non «dubitasse, perché non sarebbe successo alcun danno». quando monsignor Trasciotti istituì il processo, il cardinale «gli fece sapere che badasse ai fatti suoi, e non disturbasse la giurisdizione altrui». E la cosa per fortuna finì lì.
Il cardinal Pio di Savoia inviò quindi 700 scudi al vescovo di tivoli per provvedere ai bisogni dei suoi sudditi di San Gregorio. Il vescovo faceva arrivare il «suo uditore vicino alla terra con quattro o cinque some di vettovaglie, cioè: cacio, vino, olio, sapone, carne salata, castrati; e tutto ciò di cui si aveva bisogno gli si mandava la lista settimana per settimana; e la moneta con cui li gregoriani pagavano stava per mezz’ora sotto l’aceto; così anche le lettere tutte si ponevano sotto l’aceto, e poi si asciugavano al fumo». Ma non c’era soltanto il misericordioso cardinale a inviare vettovaglie, perché nelle disgrazie si trova sempre chi è pronto a speculare. Sotto le mura di San Gregorio arrivavano anche i mercanti di Tivoli a vendere le loro merci, ma «la roba che sicomprava da’ tiburtini si pagava a peso d’oro».
La rinascita
Finalmente, verso la metà del mese di novembre si cominciò «a sperar bene», perché da qualche giorno non vi erano più morti né nuovi ammalati. La peste aveva risparmiato Domenico Balloncini, lo speziale, ma certo a lui la teriaca non mancava. L’unico rimedio che si conoscesse contro il terribile morbo non era però bastato afermare il contagio. «Fra i principali che morirono di questo male ci fu l’arciprete don Carlo Contrevio, che sembrava guarito quando fu stroncato mentre recitava l’offitio, due frati di Santa Maria Nova, il medico, il governatore, il chirurgo di San Gregorio e quello venuto da Roma. Un prete che era giunto da Roma per paura del contagio che spirava in città, e anche la moglie con tutti i figli del cocchiere del principe che si erano rifugiati in paese, dopo esser fuggiti da Roma. Anche il capitano Spallette s’ammalò ma grazie a Dio guarì». Tuttavia, come considerò qualcuno con saggezza, «se in San Gregorio avessero in principio tenuto il buon ordine con serrare le porte e i vicoli ove cominciò il male, esso non si sarebbe allargato; così se ciascuno fosse stato ritirato in casa con la propria famiglia, e non avesse trattato con le altre, non sarebbero morte così tante persone. Invece fecero tutto il contrario perché ogni giorno ci furono processioni alla Madonna della Cavata e San Sebastiano per placare lo sdegno divino; e questa fu l’occasione perché si dilatasse il male, cosicché dalli 16 di agosto fino a novembre 1656 tra donne e uomini piccoli e grandi morirono 355 persone». Il 26 di aprile dell’anno successivo fu restituita al cardinal Pio di Savoia, effettivo proprietario del feudo, la piena giurisdizione sulle sue terre, dopo il bando per via della peste. Nel 1658 il cardinale, con l’intento di ripopolare il paese, fece iniziare i lavori di un nuovo borgo fuori delle mura, a monte del paese, tra la chiesa di San Sebastiano e la chiesa della Madonna della Cavata, in un pianoro naturale dove fu possibile, in una sorta di geniale incastro tra le preesistenze, concepire una pianta di città per un numero preciso di abitanti.
Ma eravamo in piena epoca barocca, l’urbanistica si stava illuminando di nuove valenze e ulteriori fattori s’introdussero nella progettazione. A differenza del vecchio nucleo, compatto e arroccato sull’erto sperone tufaceo, nel terrazzamento lo spazio si dilatava e fu possibile non solo privilegiare i fattori igienico-sanitari, tra le cause primarie del diffondersi della peste, ma anche l’aspetto estetico. Quando con ingenti spese l’ampliamento contornato da due splendidi giardini fu infine terminato, furono chiamate ad abitarlo delle famiglie provenienti da alcuni paesi dell’alto Lazio e dell’Abruzzo, e il cardinale a sua memoria aveva lasciato impresso sulla terra una città che aveva dal cielo la forma del leone rampante e di una croce, simboli del suo casato. Dalla profonda tragedia in cui era precipitato San Gregorio risorse come l’araba fenice dalle proprie ceneri. e non solo metaforicamente, perché la nuova città che si venne a costituire esprimeva simbolicamente nella planimetria, oltre ai simboli dei Pio di Savoia, proprio il mitico uccello. dal basso, dove si ergeva il vecchio paese medievale, si levava in alto e in gloria il nuovo abitato (5).
__________
1- Relazione di don Andrea JannIllI sul contagio accaduto in San Gregorio nell’anno 1656.
2 – G. GIglI, Diario Romano,1670.
3 – l’ascella.
4 – Il pube.
5 – Vedi M. GiagnorI, San Gregorio da Sassola, una città ideale del Seicento, Roma, 2007.