LA REGOLA DI S. BENEDETTO

LA REGOLA DI S. BENEDETTO

di Bernardino Ciocari

La Regola di S. Benedetto è una composizione dall’apparenza tanto modesta, che non c’è da meravigliarsi se qualcuno ha dichiarato di non capire le ragioni di tanta celebrità. E’ composta di un prologo e 73 capitoli, per lo più brevi, ciascuno con un titolo, che ne indica il contenuto.
Per 15 secoli unanimemente, ininterrottamente, benché composta nella tradizione monastica sia orientale che occidentale (a quel tempo era considerato un dovere e un onore non allontanarsi dalla tradizione) era stata sempre considerata unica per originalità, discernimento e chiarezza di esposizione: “discretione praecipua et sermone luculenta”, come la caratterizza il grande Gregorio, che la ritenne, per l’autore, motivo di onore e fama come i suoi miracoli (1).
Solo dalla terza decade del sec. scorso (1933) P. Augusto Généstout  cominciò a confidare una nuova teoria, secondo la quale la R.B. dipendeva da un’altra Regola, la quale anzi ne era la fonte principale.
Si tratta di uno scritto anonimo, composto di un Thema e di 95 capitoli, tre volte più ampio della R.B., pervenuto a noi attraverso S. Benedetto d’Aniano (sec. VIII), che l’ha inserito nelle due raccolte di Regole Antiche con il titolo di “ Regola del Maestro”.
Nonostante che il problema sia stato dibattuto per oltre sei decenni in molte centinaia di pubblicazioni, non si è riusciti a conoscerne il vero titolo, se mai ne ha avuto, né il tempo e la data di composizione, né se è opera di una o più persone, è rimasta così ancora un enigma (p. Vogué). La questione è nata perché in essa, nel suo Thema e nei primi 10 capitoli, compaiono alla lettera il Prologo e i primi sette capitoli della R.B. una comunanza  già notata e passata al vaglio, in particolare da critici come Mabillon, Martene, dei famosi e benemeriti della cultura Benedettini francesi (sec. XVII-XVIII) che l’avevano giudicata un ampolloso ampliamento della R.B. e assegnata al sec. VII (2).
Ma p. Cénéstout, procuratore generale dei benedettini francesi, in tre anni di studio si era convinto che la  R.M. era anteriore alla R.B. e, ne 1940, dopo le confidenze fatte a Matteo Alamo nel 1933, così espose la sua teoria: “la R.M., ritenuta finora un’opera scritta in Gallia verso la metà del sec. VII (650) e come dipendente strettamente dalla Regola  di S. Benedetto, è in realtà un’opera anteriore a quest’ultima. Essa è sorgente e non tributaria della Regola di S. Benedetto, che da essa ha mutuato una parte molto lunga e importante della sua Regola (un terzo) e per il resto l’ha seguita molto da vicino senza riprodurle letteralmente” (3).
Sono tre affermazioni ben distinte: 1) la Regola del Maestro è anteriore alla Regola Benedettina; 2) è fonte principale della Regola Benedettina (in quanto questa ne ha mutuato letteralmente una lunga
e importante parte del suo testo); 3) per il resto l’ha seguita da vicino senza riprodurla letteralmente.
E’ chiaro che fondamentale e più importante è il secondo punto, infatti se San Benedetto ha veramente copiato un terzo della sua Regola, non si può non ammettere che la sua Regola è posteriore  e dipendente: solo questo punto ha dato tanta importanza alla questione, da essere trattato, nell’arco di vari decenni, in centinaia di pubblicazioni e dibattiti.
Il terzo punto “per il resto l’ha seguita”, potrebbe essere preso in considerazione solo se risultasse dimostrato il 2° punto, altrimenti non ci sarebbe alcun motivo per pensare che Benedetto l’abbia conosciuta e seguita: scrive infatti S. Benedetto, quando anche il monachesimo occidentale è adulto e i molteplici cenobi presenti in particolare nella Penisola avevano una struttura  più o meno simile. Del resto lo stesso Maestro (che anche se fosse anteriore, lo sarebbe di qualche decina di anni), non ha inventato molto: come dice p. Vogué: già “la piccola Regola Orientale passa in rassegna tutti i responsabili dell’ordine comunitario,  secondo una successione discendente: questa galleria di Officiali del chiostro, che va dall’abate ai portieri, struttura da ambo le parti la legislazione”(4). La R. B. anzi ha cariche che non figurano affatto nella R. M., già consolidate nella tradizione del monachesimo occidentale, come per esempio la carica di Preposito (che non ha nulla a che vedere con i Prepositi del Maestro, ma è il vice abate)  così radicata che S. Benedetto, unico caso, si vede costretto a giustificare la sua contrarietà alla carica, dicendo che nella vita conventuale era diventata causa di dissidi e gravi disordini, in quanto inseriva nel suo seno uno che oggi chiameremmo capo dell’opposizione (c. 65 R.B.).
Riguardo al 1° punto – “la R. M. è anteriore alla R. B.”- se si provasse che è anteriore, perché, come  pretende il Genestout, appartiene ad essa la parte comune, che S. Benedetto avrebbe copiato letteralmente, seguirebbe inevitabilmente.
Credo di averlo dimostrato in due articoli pubblicati in questa rivista (Aequa, nn. 14 e 18) che p. Vogué  non ha contraddetto, ma implicitamente approvato, precisandomi che lui ha cominciato ad occuparsi della questione, supponendo sì che la R. M. era anteriore alla R. B., ma muovendo dall’ipotesi di un altro confratello D. Froger, che propone un altro criterio ”lo studio del vocabolario”: cioè, alcuni particolari vocaboli della parte comune si ritroverebbero in misura notevolmente superiore nella parte propria della R. M. che quindi sarebbe in maggiore continuità con essa e sua fonte (5). Anzi, in un lungo ed impegnativo articolo, cerca di dimostrare la validità  di questo metodo.
Nel mio secondo articolo, pubblicato come ho detto nel n. 18 di Aequa, credo di aver dimostrato: 1) che il modo con cui egli lo presenta, toglie ad esso la indiscussa validità; 2) che la vera opinione di p. A. de Vogué, l’esponente più autorevole tra i sostenitori della anteriorità del Maestro al quale tutti fanno riferimento, esclude che la parte comune possa attribuirsi al Maestro (6), confermando cosi implicitamente la completa indipendenza di S. Benedetto dal Maestro, pur dovendosi riconoscere che egli cammina consapevolmente, ma liberamente, nella via tracciata dai Grandi Padri,  che lo avevano preceduto.
Del resto che la parte comune non possa essere del Maestro, ma solo di S. Benedetto, si può sempre dimostrare facilmente con un adeguato esame e confronto perché come rileva giustamente p. Gregorio Penco, i due stili appaiono subito molto diversi (7).
Resta però il dubbio che S. Benedetto abbia dato la forma letteraria alle idee del Maestro, quindi è opportuno procedere ad un’altra indagine, cioè esaminare con quale parte propria delle due regole ci sia continuità di contenuto con la parte comune.
Ad un criterio così ovvio e opportuno si è fatto ricorso anche da seguaci della scoperta del p. Généstout: dopo p. Voguè, per esempio, il prof. A. Grilli crede di poter dimostrare l’unità di autore della R.M. dal cenno ai molti “malati finti” nella parte comune (cap. 1 R.M.. 64-68),  un tema, afferma, che viene trattato nel cap. 69, è accennato anche in altri capitoli;  ma ad entrambi è sfuggito che l’accenno sta sì  nella parte comune, ma in una inserzione propria del Maestro nella parte comune; significativamente non si è insistito su questa via (8). Una ricerca e un confronto esaurienti nella parte comune richiederebbe troppo spazio: credo che sia sufficiente, e più opportuno limitarsi a considerare il cap. 2° , che è il più importante, frutto di una elaborazione più personale, dal titolo: “Quale deve essere l’abate” (qualis  esse debet abbas ).
La diversità di concezione di quella carica nelle due Regole, anche in passato è stata trattata molto ampiamente da p. Vogué, e fra i tradizionalisti da J. Mc Cann; ma, per quanto mi costa, non espressamente trattata come una prova di continuità tra la parte comune e le parti proprie delle due Regole (9).

L’importanza del ruolo dell’abate
Contenuto del. 2° capitolo è lo svolgimento non molto ampio, ma completo del tema “l’abate nel monastero fa le veci, sta al posto di Cristo ” (Cristi agere vices in monasterio  credimus).
La prima conseguenza è che il compito proprio e principale dell’abate deve essere la cura e la salvezza delle anime, che gli sono affidate. Come? Prima di tutto non insegnando nulla, che esuli dalla dottrina di chi rappresenta, di Cristo. Si tratta di un duplice insegnamento: deve cioè mostrare “tutto ciò che è buono e santo” più con l’esempio, che con le parole, adattandosi alle capacità di ciascuno, ai discepoli in grado di comprendere con le parole, ai meno dotati o duri di cuore invece più con il suo esempio.
Nel suo insegnamento deve seguire il consiglio dell’apostolo: “ammonisci, esorta, correggi”  alternando, secondo le circostanze, la severità e la dolcezza: correggerà con fermezza gli indisciplinati e i ribelli, esorterà a progredire nel bene i miti e gli obbedienti, rimprovererà e punirà i negligenti e disprezzatori.
Ma deve sempre essere guidato dall’amore, amore uguale per tutti; “non sia amato uno più dell’altro, a meno che non lo abbia trovato migliore nelle opere buone”.
L’amore più intenso riservato ai migliori non significa minore interesse per gli altri, per i quali anzi deve avere maggiori cure. Egli è infatti responsabile anche del minor profitto, che il padre di famiglia troverà nel suo gregge; egli nel giorno del giudizio sarà assolto, solo se si sarà dedicato con tutto lo zelo possibile al servizio di un gregge irrequieto e indocile e avrà effettuato ogni cura per guarire la loro insana condotta. L’abate cioè deve, come Cristo, essere soprattutto dedicato alla salvezza delle anime  e perciò essere loro pastore e medico.

Nella R. B. quanto al compito principale dell’abate, già nello stesso cap. 2, in un brano inserito da S. Benedetto, si ammonisce l’abate: rifletta quanto arduo e difficile sia il compito che si è assunto “guidare le anime, mettendosi al servizio dei caratteri di molti, usando con alcuni la dolcezza con altri il rimprovero, con altri parole persuasive, adattandosi o quasi conformandosi a tutti secondo la natura e l’intelligenza di ognuno, eviti di subire perdite e possa  godere del bene spirituale dei fratelli. Soprattutto non trascuri, né tenga in  poco conto il bene delle anime, che gli sono affidate.” Pensi invece continuamente che ha avuto in consegna persone da guidare e che di esse dovrà rendere conto. E non può addurre nessun pretesto, nemmeno la penuria del monastero.
Ma un’ampia, e come al solito, precisa conferma è nel c. 64, che è intitolato “Della elezione dell’abate”: necessario per colmare un vuoto, il capitolo diventa occasione per riaffermare tutto il contenuto del comune cap. 2 e precisare quali doti l’abate deve avere per compiere il difficile e delicato compito che si è assunto.
Il capitolo meriterebbe di essere riportato per intero, ciò che chiaramente non è possibile.
L’abate deve essere eletto dalla maggioranza dei fratelli o dalla parte più sana; per poter adempiere al compito del duplice insegnamento, deve essere scelto in base alla santità della vita e alla sua sapienza nelle cose spirituali. La santità della vita comporta che sia “casto, sobrio, longanime” e osservante della S. Regola; per poter insegnare come Cristo, senza allontanarsi dai suoi insegnamenti, deve essere profondo conoscitore della legge divina; “deve sempre considerare quale carico si è assunto, servire e aiutare i fratelli” e che deve rendere conto un giorno del proprio ministero. Deve odiare i vizi, ma amare i fratelli e comportarsi in modo da essere più amato che temuto. L’amore deve soprattutto guidarlo nella correzione unitamente alla prudenza e alla accortezza, affinché il vaso che si vuole restaurare non si rompa o la canna incrinata non si spezzi. E nelle stesse disposizioni che deve dare per la vita della comunità, deve regolarsi con discernimento e discrezione, imitando l’esempio del santo patriarca Giacobbe, quando diceva “se affaticherò troppo le mie pecore, moriranno tutte in un sol giorno”.
Mi sono un po’ dilungato, ma con scrupolosa fedeltà ai testi, sulla concezione dell’abate benedettino, affinché, nel confronto con la concezione dell’altro legislatore, sia evidente la diversità e si possa emettere un sicuro giudizio.
Il Maestro invece sembra aver dimenticato il tema del cap. 2, cioè che l’abate nel monastero ha il posto di Cristo; anche lui torna a parlare dell’abate nei due lunghi capitoli 92 e 93, e nel più breve 94, nei quali stabilisce il criterio o modo della sua scelta. A differenza di S. Benedetto solo poche righe vengono dedicate alla sua funzione educativa, “governare le anime adattandosi ai diversi temperamenti”, nel discorso di investitura dice solo: ”ricevi, fratello, la legge di Dio; con essa agli osservanti tu devi procurare la vita eterna, ai negligenti prospettare l’eterno castigo”; poi un richiamo alle responsabilità e al giudizio di Dio, che giudicherà sulla esatta osservanza della Regola. Il resto dei capitoli è tutto dedicato alla nomina e all’insediamento nella carica: la cerimonia dell’insediamento conferma la tendenza del Maestro allo spettacolo, il modo invece della scelta è tale che, già in contrasto con quelle poche righe sulla funzione educativa dell’Abate, è così singolare che “dovette sembrare aberrante anche ai suoi tempi (p. Vogué): va infatti apertamente contro l’umiltà,  che è fondamentale per chi deve insegnarla e alla stessa vita monastica per non dire cristiana: prescrive “l’abate dica spesso ai fratelli che dovrà il Signore (il Maestro immagina che il Signore gli abbia dettata la Regola, ndA) la dignità a colui che abbia incitato a farlo con la sua santa condotta. Quando dunque l’abate vedrà tutti i fratelli anelanti per questa sete di onori, scruti con occhio attento chi risulta più bravo in questa gara di osservanza” (R.M. cap. 93 verso la fine).
Quale e quanto profonda sia la sua coscienza della funzione educativa, si può dedurre dal suo comportamento nei casi nei quali è costretto a infliggere la scomunica più grave cioè la separazione completa dalla vita della comunità: ”il colpevole”, se il rimprovero e l’esortazione non hanno avuto effetto, “se al 3° giorno, all’ora nona non abbia voluto dare soddisfazione all’abate, messo in prigione, venga battuto a vergate fino al sangue e, se vorrà l’abate, venga espulso dal monastero” (R.M. cap. 13).
Assai diverso è in questi casi il comportamento dell’abate di S. Benedetto: se l’abate personalmente  deve interrompere ogni contatto diretto con il punito per non togliere efficacia, già  all’origine, alla punizione, però non lo abbandona; ma dispone che “anziani sapienti fratelli” (seniores sapientes fratres) in apparenza trasgredendo la severa disposizione (quasi secreta) di rivolgergli la parola, lo assistano “affinché non soccomba alla tremenda tristezza e lo inducano alla sottomissione”( R. B. c. 27); se persiste nel suo atteggiamento ribelle, l’abate ricorra al mezzo più efficace (quod maius est) cioè alla preghiera sua e di tutta la comunità, affinché il Signore, che può tutto, operi la salvezza del fratello malato (c. 28 ); se resiste anche alla ispirazione divina, l’abate, che come medico sapiente è ricorso a tutti i mezzi per ottenere la guarigione, usi alla fine il bisturi (ferrum abscissionis) espellendolo dal monastero, affinché “una pecora infetta non contamini tutto il gregge” (R. B. c. 28).
L’abate deve amare tutti i fratelli ugualmente, senza nessun personalismo, “almeno che qualcuno non lo abbia trovato migliore nell’opere buone”: il Maestro non conosce nemmeno la parola amore, anzi ha verso il fratello un atteggiamento di diffidenza, preoccupandosi solo di non rimanere vittima della sua furbizia (cap. 69: “dei fratelli infermi”).
Credo che non occorra nemmeno dire che solo nella R. B. si ritrova il modello delineato nel 2° capitolo comune: p. A. de Vogué  ha sintetizzato tutto questo affermando che, se ci interroghiamo quale sia l’abate nelle due Regole, dobbiamo rispondere che è uguale; se invece ci domandiamo come agisce, dobbiamo rispondere che ognuno si comporta a suo modo, naturalmente non si spinge fino ad affermare che solo San Benedetto ripropone il modello del c. 2, ma non credo che abbia motivi per dissentire (10).

Conclusione
Allora, se anche le idee della parte comune sono di S. Benedetto, bisogna ammettere la sua completa indipendenza dal Maestro. Questo non esclude che tutta o parte della R. M. sia anteriore, anche se è ancora da dimostrare: se si portano infatti motivi per affermarla, ve ne sono altri, forse più convincenti, che la rendono improbabile.
Comunque se, affermata l’indipendenza di San Benedetto a qualcuno ancora interessa la ricerca, potrebbe avere buone motivazioni, l’importante è che non si continui a diffondere una teoria infondata e cessi la gara tra chi trovi più difetti in questa Regola, unica e sempre ammirata,  arrivando persino alla distorsione delle sue disposizioni: recentemente il superiore di una piccola comunità religiosa, voleva sapere se era vero che S. Benedetto proibisce la lettura del libro dei Re!

1-S.GregorioMagno,Dialoghi,n.36.
2-Regola del  Maestro, traduzione italiana a cura di M. Bozzi-Grilli, Vol. 1, introduzione , p. 9.
3-P. A. Genestout, La Regle du Maitre et de S.Benoit, in R A M  21, 1940.
4-Acta, Celebrazioni benedettine 1999-2001, p. 125, Subiaco.
5-P.A. de Voguè, La Comminauté et l’abbé , pp. 28-29.
6-B. Ciocari, La Regola di S. Benedetto non dipende da quella del Maestro, in Aequa, n. 18/2004, p. 16.
7-G. Penco,  S. Benedicti Regula, p..XXXIX., Firenze 1970.
8-Traduzione italiana R. M. op. cit. , vol. 2, p. 18.
9-P.Vogué, La Regle de S. Benoit, Commento, vol. 1 p. 54, Les editions du cerf , Paris 1972. J.Mc Cann, The rule of  the master .
10-P.Vogué, Commento dottrinale Regola di San Benedetto, traduzione italiana, Edizioni Messaggero, Padova, Monaci di  Praglia, p. 109.