LA TRADIZIONE DELLE ZITELLE O VERGINELLE O SCAPILLATE. IPOTESI SULL’INTRODUZIONE DEL PIANTO DELLE ZITELLE NELLA FESTA DELLA TRINITÀ’ A VALLEPIETRA

LA TRADIZIONE DELLE ZITELLE O VERGINELLE O SCAPILLATE.
IPOTESI SULL’INTRODUZIONE DEL PIANTO DELLE ZITELLE NELLA FESTA DELLA TRINITÀ A VALLEPIETRA

di Giuseppe Bonifazio

Il Pianto delle Zitelle, che si svolge nel santuario della Santissima Trinità di Vallepietra, è talmente noto, ampiamente descritto e analizzato nelle sue molteplici componenti letterarie, religiose e musicali per essere in relazione con la festa della Trinità, che non è certo mia intenzione soffermarmi sugli aspetti acclarati e storicamente documentati, per i quali si rimanda alla numerosa bibliografia. Mi limiterò, quindi, a riportare solo quelle notizie utili a inquadrare e puntualizzare alcuni aspetti del discorso,  per arrivare a formulare attraverso nuove cognizioni una spiegazione sulle ragioni che ne hanno determinato l’esistenza. Se da una parte si sono condotti studi approfonditi e puntuali sulla struttura del testo poetico-melodico, dall’altra le interpretazioni sulle origini e sulle radici del Pianto sono state  diverse e discordanti tra loro, molto disgiunte dalle notizie storiche e dal contesto cultuale.
Il presente lavoro vuole dare un contributo alla ricerca demo-antropologica, anzitutto con il menzionare una serie di fatti ancora sconosciuti e, sulla scorta dei quali, avanzare un’ipotesi interpretativa che possa spiegare perché il Pianto è stato introdotto nella festa.

Il Pianto delle Zitelle a Vallepietra
Sebbene in modo molto riassuntivo, è necessario ricordare che il Pianto delle Zitelle  è una sacra rappresentazione della passione di Cristo che ragazze nubili di Vallepietra cantano con una scarna mimica nella prima mattina del giorno della Trinità (1). Il gruppo di giovinette, di regola in numero di venti, sono vestite di bianco, ad eccezione della Madonna dei Dolori che indossa una tunica nera, ognuna delle quali rievoca con monologhi e in forma per lo più monodica i misteri, recando in mano i simboli e gli strumenti della passione (il calice, le funi, la mano, la colonna, le sferze, le spine, i chiodi, il fiele, la lancia, la croce) e impersonando i protagonisti del cammino doloroso di Cristo (Giuda, Pilato, Ecce Homo, il Crocifisso, la Maddalena, la Madonna, Marta). Ad esse si affianca il coro che introduce il prologo e intervalla i misteri, almeno così fino al 1998, quando una inopportuna trasformazione ha stravolto completamente la tradizionale lauda sacra con l’introduzione di attori maschili, con movimenti scenici di tipo spettacolare su di un palco appositamente costruito e con lo spostamento di parti del testo letterario (2). Lo stesso ha avuto  nel corso del tempo alcune varianti, abilmente ricostruite dall’attento studio di Nicoletta Cocchia (3), ma restando sempre fedele al modello originario, il solo che possa aiutare a comprendere la sua complessa realtà. Verosimilmente dall’inizio e fino al 1968–69 la rappresentazione del Pianto si è svolta nella stretta loggetta della facciata della cappella del santuario, poi con la costruzione in quegli stessi anni del grande altare coperto è stata spostata al suo interno, dove è rimasta fino alla data del 1998.
Nell’Archivio vescovile di Anagni si conserva un manoscritto del 1836 in cui Francesco Tozzi, rettore nel 1683 della chiesa della SS. Trinità e arciprete nel 1707 di Vallepietra, è indicato come autore del componimento che poi sarà noto con il nome di Pianto delle Zitelle. Il documento, ripreso dall’illustre storico Filippo Caraffa, riporta il titolo di “Mistero  della passione di Nostro  Signore Gesù Cristo e del Miserere volgarizzato, copiato dall’originale fatto dalla bona memoria  del signor arciprete D. Francesco Tozzi, morto nel 1725. Luigi Tozzi copista del presente libretto, l’anno 1836” (4). Altre notizie di fondamentale rilevanza, che si riportano integralmente perché elementi importanti del discorso, ce le fornisce lo stesso Caraffa: “In queste relazioni (riferendosi alle visite pastorali del Settecento) non si trova alcun accenno al “Pianto delle zitelle”. Così nella visita pastorale del 1782 fatta dal vescovo Antonimi che venne il 26 luglio, giorno della festa di s. Anna, non si fa il minimo cenno alla celebrazione della festa della santa in quel giorno al santuario e all’eventuale presenza dei pellegrini. È da ritenersi come vedremo, che il  “Pianto delle zitelle”  e la venerazione a s. Anna vi siano stati introdotti a metà del sec. XIX”. E ancora, con spirito veramente critico, Attilio Adinolfi, vescovo di Anagni (1931-1945), scriveva il 15 settembre 1942 al prof. Corrado Mezzana: “Dalle altre relazioni di visite pastorali che ho consultato e letto […] quel che mi ha fatto impressione è che discendendo fino al 1850, pur parlando di messa cantata solenne, all’aperto nella festa della SS.ma Trinità, non si fa il minimo cenno al canto delle zitelle, pure sarebbe stato un particolare locale e caratteristico da notare; così pure non si parla di pellegrinaggi nel giorno di S.Anna”. Conclude quindi il Caraffa, a ragione: “Ritengo molto probabile che il “Pianto delle zitelle” sia stato introdotto dal Graziosi (nominato abate del santuario nel 1856) e questo spiega la costruzione della loggia per opera sua (risalente con la facciata al 1860). Tale ipotesi viene avvalorata dall’amicizia dell’abate con il sacerdote Luigi Tozzi che nel 1836 aveva trascritto il Pianto da un manoscritto originale […] che doveva servire per altro scopo”(5).
Fin qui le conoscenze acquisite e la sua ormai certa datazione. Nonostante ciò resta qualcosa di insoluto; si avverte, cioè, come anche altri autori hanno notato, un che di indecifrabile sulla sua presenza all’interno del complesso festivo tradizionale, perché mancante di una logica giustificazione  per i modi e per i termini in cui è nato. Inoltre, una certa dissonanza  si riscontra proprio tra il testo colto e la sua denominazione, sicuramente di origine popolare, alquanto fuorviante per chi ignora i fatti, ma accettata fin dall’inizio dall’autorità religiosa.

Il fenomeno popolare delle Verginelle o Scapillate o Zitelle nel centro-sud d’Italia
È questo un capitolo di grande interesse, un frammento della nostra storia interamente da esplorare e pressoché dimenticato. Meriterebbe uno studio monografico più approfondito e per quel che ne so non esistono lavori specifici sull’argomento nella sua generalità (6), così come sarebbe molto stimolante indagare maggiormente sulle innumerevoli tradizioni che ruotano attorno alla figura e ruolo delle zitelle all’interno di feste e nell’ambito della società presente e passata.
Non si tratta, come in un primo momento si potrebbe credere, di uno di quei gruppi dell’ associazionismo laicale cattolico che riunisce Confraternite femminili, Figlie di Maria, Pie Unioni, organizzate gerarchicamente con i loro statuti e sottoposte all’autorità ecclesiastica. Il fenomeno delle verginelle-zitelle, pur situandosi all’interno di questo ambito civile e religioso per i suoi risvolti sociali, il valore dato alla virtù della castità e per la grande devozione alla Regina Virginum, se ne differenzia non poco per le sue manifestazioni spontanee e popolari, nell’accezione più autentica del termine, cioè come prodotto del popolo. Esso era diffuso, e in modo molto marginale lo è tuttora, nell’area centro-meridionale, specie in Campania, incentrato su una stessa ritualità abbastanza  codificata  per ottenere dalla Potenza divina una guarigione da un male o una grazia in generale, anche se da luogo a luogo poteva avere delle varianti significative. Le ragazze protagoniste del  rito religioso sono ancora oggi ricordate o conosciute quasi ovunque con il nome di Verginelle, e in diversi centri della Campania anche con quello di  Scapillate, mentre  in alcune zone del frusinate e del Lazio sono chiamate Zitelle. Con ogni probabilità questo complesso di pratiche devozionali e rituali,  molto vivo nell’area che gravita attorno al santuario di Montevergine (Mercogliano), trovò qui favorevoli condizioni per irradiarsi nel corso dei secoli, attraverso interscambi culturali che avvenivano con i pellegrinaggi, nelle regioni vicine e certamente, secondo una mia lunga ricognizione, oltre che in Campania, nel Lazio, nell’Abruzzo, nella Calabria, come si leggerà in seguito.
Orbene, non so quando, ma ragionevolmente secoli addietro, giunse soprattutto dalla Ciociaria    anche nella valle dell’Aniene, dove restano vive testimonianze a Trevi nel Lazio, a Camerata Nuova e a Vallepietra. Anzi, in tempi piuttosto recenti è stato anche osservato e documentato, per cui si può  affermare che il rituale, seppure in modo molto riservato ed episodico, sia ancora presente nel territorio del bacino aniense (7).

Il rito nei suoi elementi essenziali  e  costanti nelle aree di diffusione
Il rituale doveva fondarsi sull’antico principio secondo il quale la purezza delle giovani ragazze (messa in risalto dall’abito bianco), l’innocenza dello spirito, l’azione penitenziale  potessero offrire  le più  benevoli premesse per l’accoglimento delle  richieste votive, in un tempo in cui l’intervento del soprannaturale spesso era percepito come l’unico sostegno per superare le difficoltà della vita, con tutti i suoi rischi.
Quando una persona era colpita da un grave male o da una sventura, i suoi familiari chiamavano un gruppo di giovinette del posto, già deputate al compito, affinché andassero a chiedere per conto dell’ammalato la grazia presso il santuario o la chiesa di preferenza, specie in occasione della festa religiosa. Tuttavia, in caso di improvviso bisogno si partiva immediatamente e con qualsiasi tempo; nessuna si sottraeva all’ufficio di impetrare l’intervento soprannaturale per la salvezza di una persona. Il numero delle Verginelle variava da un luogo all’altro, anche se ricorrente era il 7, oppure il 12, e si trattava, come il nome lascia ben capire, di ragazze giovani e illibate. Iniziavano in alcuni posti in età molto giovane, generalmente 12-15 anni, ma in altri anche a 18-20 anni, comunque potevano svolgere la loro funzione fino a quando non si sposavano. Poi erano rimpiazzate da altre ragazze che si prestavano con il consenso della famiglia, ben disposta per l’onore che riceveva e per un certo aiuto economico che ne derivava. Spesso accompagnate da un familiare o da una donna “esperta”, quasi sempre nubile, partivano vestite di bianco dalla casa dell’ammalato o dalla chiesa parrocchiale per recarsi in preghiera al luogo di culto designato. Il rito non solo non prevedeva mai la partecipazione del sacerdote, ma addirittura era gestito al di fuori della sua competenza e a volte conoscenza. Durante il tragitto a piedi, che poteva essere breve o molto lungo secondo la distanza del luogo sacro da raggiungere, recitavano in genere il rosario e le litanie e cantavano inni. Giunte a destinazione compivano riti di ingresso che prevedevano di frequente atti penitenziali, come camminare in ginocchio fin davanti all’immagine sacra, continuando a cantare, a dire preghiere e  invocazioni. Dopo la richiesta di grazia da parte della persona interessata, uscivano seguendo altrettante ritualità e dal familiare committente ricevevano, il più delle volte, una ricompensa in denaro, ma anche prodotti alimentari o di altro genere.
Molto probabilmente l’uso di chiedere la mercede o di dare la ricompensa in denaro ancora in una fase storica avanzata poté trovare giustificazione con le precarie condizioni economiche del tempo e con l’aiuto a incrementare in qualche modo la dote delle ragazze. Il cerimoniale, come sempre accade nelle manifestazioni popolari  che per la loro natura autonoma e dinamica fuoriescono dalla liturgia del culto ufficiale, si è arricchito nel tempo di altre forme rituali, di segni tendenti a decifrare presagi fausti ed infausti, di oggetti dal  potere salvifico, di timori e paure al limite della superstizione.

Le Verginelle o Scapillate di Montevergine
È opportuno dedicare spazio alle Verginelle del santuario mariano di Montevergine (8), e più in generale dell’Irpinia, perché quasi sicuramente questa area fu un importante centro di diffusione del rito. Qui giungevano in pellegrinaggio da vastissime zone della Campania innumerevoli pellegrini con gruppi di Verginelle al seguito e qui, più che altrove, è sorta una straordinaria letteratura orale che ne attesta la vitalità e l’originalità creativa (successive comparazioni hanno rafforzato questo convincimento). A Mercogliano (Av), situato alle pendici del santuario, la partecipazione delle Scapillate prevedeva due momenti diversi d’intervento: il primo, con la richiesta della grazia; il secondo, con il ringraziamento. In altri luoghi, però, si verificava un solo viaggio penitenziale e il ringraziamento aveva altre modalità, più private. Le giovani indossavano un uguale vestito bianco e lungo con il velo in testa e si facevano crescere i capelli molto lunghi appositamente per il rito (da qui il nome di Scapillate) e cinti sulla fronte da un nastro celeste o, come a Zungoli (Av), da una corona di fiori campestri. La partenza avveniva dalla camera da letto della persona ammalata o guarita, cambiando la preghiera in caso di richiesta di grazia o di ringraziamento. Il percorso era fatto a piedi scalzi, d’inverno anche sulla neve, e il numero variava da sei in su (altre testimonianze lo hanno fissato a 7 o a 9) secondo le abitudini del paese o le possibilità economiche del richiedente. Le Scapillate, dall’età  di 20-25 e 30 anni, si componevano in due gruppi o cori: il primo, in cui la Verginella di centro portava la croce, se si trattava di impetrazione cantava: “Maronna ‘e Montevergine / E nui venimmo per grazie”; il secondo gruppo rispondeva, sempre cantando: “fancella, Maronna mia / e fancella  pe pietà”. Se invece si trattava di ringraziamento, il primo gruppo cantava: “Maronna ‘e Montevergine, / ca mpietto porti grazie”, e il secondo rispondeva: “sta grazia che nce hai fatto / Ti venimmo a dingrazià”. Ripetuto il tutto per tre volte, si avviavano per Montevergine, per riprendere la loro preghiera in prossimità del santuario e fino dentro la chiesa. Prima dell’ingresso, salivano in ginocchio l’antistante “scala santa” e allo stesso modo procedevano fin davanti all’immagine della Madonna, dove cantavano le stesse strofe ancora per tre volte e la persona interessata chiedeva la grazia. Poi veniva offerto loro il pranzo e “incassavano la pattuita mercede”. La diversità di paga dipendeva anche dalla distanza della località di partenza dal santuario, come recita una strofa di un canto di Vitulano (Bn): “E nui simo le berginelle / E venimo da longa via, / pe vedè sta faccia bella: / fance grazie, o Maria” (9).
Scrive don Placido Tropeano, con un’affermazione iniziale che poco convince: “Dapprincipio le Scapillate erano le giovinette appartenenti alle stesse famiglie che si portavano in pellegrinaggio a Montevergine; ma, col passare del tempo, quasi in tutti i paesi le ragazze più intraprendenti dai tredici ai diciotto anni si organizzarono in gruppi di preghiera, quasi compagnie di ventura con apposita divisa e tariffa, assoldate dall’una o dall’altra persona per portare alla Madonna di Montevergine la propria preghiera di impetrazione e di ringraziamento”. E aggiunge: “Qualche volta le persone interessate seguivano il corteo delle scapillate. Se era una donna, all’ingresso della chiesa bisognava assistere impotenti ad una scena quanto mai antigienica e ripugnante: si inginocchiava insieme alle verginelle, poi si piegava bocconi a terra e strisciava la lingua sul pavimento fino a raggiungere i piedi dell’altare” (10). Secondo alcune donne di Mercogliano, le stesse Scapillate si univano a compiere questo “ripugnante” comportamento e la tradizione è rimasta in uso fino a 50 anni fa (11). Il santuario verginiano non era il solo luogo dove si attuava questa forma devozionale, nella stessa Mercogliano le Scapillate venivano portate nella chiesa di Sant’Antonio da Padova, e altri centri cultuali di attrazione erano: Santa Filomena a Mugnano del Cardinale (Av), la Madonna dell’Annunciazione a Prata Principato Ultra (Av), i Santi Cosma e Damiano ad Arpaise (Bn), San Pellegrino ad Altavilla Irpina (Av), dove il rito ancora resiste in modo sorprendente,  e, di sicuro, in altri luoghi ancora.

Localizzazione del fenomeno e sua  ricognizione al di fuori di Montevergine

Questa prima ricognizione su vasta scala è di certo assai parziale, perché molto più numerosi  dovevano essere i centri interessati da questa pratica religiosa popolare, anche se in tanti si è persa del tutto o quasi la memoria.
Data l’assenza  di notizie al riguardo, non credo sia inutile riferire, almeno per alcuni paesi (vedi di seguito) dove è stato possibile reperire le maggiori informazioni, i risultati  della ricerca. Non sempre però il ricordo dei testimoni è stato così sicuro e preciso, anche nella collocazione spazio-temporale degli avvenimenti, per cui possono esserci alcune approssimazioni o particolari incompleti, pur nel rispetto sostanziale della verità storica.
Accanto ai dati strettamente storico-religiosi, l’indagine ha messo in luce tante storie personali e vicende umane dolorose di genti un tempo contadine e povere, sempre esposte alla precarietà economica ed esistenziale; genti che  nel tempo sacrale della festa, attraverso complessi cerimoniali, ricercavano quell’aiuto divino per affrontare le fatiche e i dolori della  vita.
Certamente il fenomeno dei grandi pellegrinaggi non può essere racchiuso entro quest’orizzonte umano, seppure importante, perché tante altre voci, moti dell’anima e bisogni si esprimevano nei lunghi cammini verso il Mistero divino, e molte altre componenti sociali, ludiche, psicologiche ne facevano parte. Ma ciò va oltre il tema oggetto di questo studio.
1- Gallo (Ce)
Informatrici : Rosa Rocchio e Maria Assalone,  quest ’ultima  Verginella da bambina.
Fino ai tempi della II guerra mondiale, 12 Verginelle, accompagnate da una donna che le guidava nelle orazioni, compivano un giro in due chiese del piccolo paese in preghiera e cantando (12). Partivano dalla chiesa madre dell’ Annunziata, dove si “diceva la litania per la vita”, e poi, sempre con canti e orazioni, si recavano nella chiesa di san Simeone, dove vi era un simulacro della Madonna delle Grazie; infine tornavano nella chiesa dell’Annunziata e con un triplice inchino baciavano tre volte il pavimento, dicendo: “Madonna quanto sei bella / Io per vostro amore / Mi inchino e bacio in terra”. Per l’occasione, si cantava la seguente canzone alla Madonna, trascritta così come mi è stata riferita da Rosa Rocchio: “O Regina di ogni grazia / che da voi vogliamo grazia / tu che sei madre di grazia / o Regina di ogni grazia. / Grazia grazia Madre mia / per pietà mamma Maria / tu risguarda i figli tuoi / Mamma mia fa quanto puoi. / Io mai da qua mi parto / se la grazia non mi hai fatto / io mai mi partaria / facci grazia Maria. / Me ne parti che ben contenta / ca la grazia è certa a me / me ne parto risoluta / ca la grazia l’hai avuta. / Di partire me ne dispiace / da te Madonna sia lodata / via da te Madonna / per quanto sei bella. / Tutti gli angeli t’adorano al cielo / e noi peccatori in terra / tutti gli angeli t’adorano al cielo / e noi peccatori in terra / e Maria per vostro amore / mi inchino e bacio in terra / e Maria per vostro amore / mi inchino e bacio in terra. / Regina mia del cielo / di divina maestà / la grazia che io cerco / tu Maria me la concedi / e fammela per carità. / Per l’amore che tu ricevesti / dalla Santissima Trinità / cala gli angeli dal cielo / e ti veni a visitar / una corona divina / recitami la litania / una corona divina / recitami la litania”. Ogni ritornello era ripetuto due volte, prima dalla donna e poi da tutte le Verginelle.
La donna, dopo aver chiesto la grazia, immergeva un fiocco di lana nella lampada accesa “dell’olio di Gesù” e lo portava a casa  dell’ammalato per fargli il segno di croce sulla sua fronte. Il gesto veniva ripetuto da tutte e 12 le Verginelle. Il rito era concluso e dopo aver ricevuto la paga, che a quei tempi era di 5 lire,  rientravano a casa. Per vedere se la richiesta di grazia stava avendo buon esito, si osservava la luce della lampada (delle candele, a Prata Principato Ultra): se questa brillava più del solito o restava accesa, era buon segno; se si spegneva, il malato era destinato a morire. Si diceva: “Se non lo fa per il corpo, lo fa per l’anima”, comunque non veniva mai perduta quella preghiera, serviva  o per la vita o per la morte. Prima era frequente ricorrere alle verginelle, “ora è cambiato, chi crede, chi non crede, chi sta malato corre all’ospedale”.
Tra le strofe ricordate che qui si cantavano, si riportano, come esempio esplicativo sulla diffusione del rito, i seguenti versi molto significativi, perché sono quelli di Montevergine, ma  evidentemente incongruenti  per il luogo dell’azione rituale, dal momento che il tragitto da percorrere era molto breve: “Siamo 12 verginelle / Siamo venute da longa via / Pe’ vede’ sta faccia bella / Facci grazia Maria”. Si può solo dedurre che il testo sia stato veicolato da  un’oralità  appartenente ad un altro territorio e assimilato in una fase successiva.
2- Crosia (Cs)
Informatrice: Francesca Seminario (13).
Un familiare della persona bisognosa raduna, secondo i suoi desideri, dalle 5 alle 12 Verginelle, generalmente di età compresa tra i 10 e 15  anni, per andare a sciogliere un voto nella chiesa  prescelta. Le giovinette devono stare tutto il giorno digiune, bevendo solo un po’ di limonata, tè o caffé. Durante il tragitto e in chiesa, dove restano per l’intera giornata, cantano, recitano rosari e litanie; davanti alle immagini sacre accendono le candele, ascoltano la messa e fanno la santa comunione. Alla fine, la persona interessata chiede la grazia. Nel tardo pomeriggio, quando si ritorna dalla chiesa, le Verginelle si recano con le candele accese a casa del malato, ma prima di entrare le devono spegnere e queste si conservano per essere riutilizzate in chiesa in un secondo momento. Come ricompensa della loro intermediazione, ricevono una buona cena.
Non vi è un solo luogo di culto dove andare a chiedere la grazia, così come non sempre le Verginelle si portano nella chiesa della Madonna della Pietà o in quella di san Michele o in altra chiesa di  Crosia. Spesso si va anche al di fuori dello stesso paese, come nella chiesa di san Cataldo a Cariati (Cs) o in quella della Madonna Assunta in cielo a Rossano (Cs): dipende dal tipo di promessa fatta. A volte il viaggio di andata avveniva a piedi, come fece la signora Filomena Madeo (nata nel 1894), che nel 1940 portò le Verginelle a Cariati. La signora Filomena, perché suo figlio che viveva a Torino era stato colpito dal tifo, fece voto di andare a piedi nudi per un anno intero se suo figlio si fosse salvato. Ricevuta la grazia, restò scalza dal primo maggio 1941 al primo maggio 1942. Infine, non è infrequente che da altri paesi vicini (Cropalati, Longobucco, Calopezzati) arrivino gruppi a Crosia con le ragazze al seguito. Il fenomeno, nel 1994, era ancora abbastanza presente nell’area della Sila greca e zone limitrofe.
3- Tornareccio (Ch)
Informatrici: Delia Carozza, Giovanna Costantini (anni 83), Adele Furia (anni 70), queste ultime due Verginelle da bambine. L’età è riferita agli anni delle interviste.
Sette Verginelle, molto piccole di età, dai 5 ai 10 anni, con una donna si recavano in tre chiese del paese, recitando in ognuna il rosario (14). Partivano dalla chiesa maggiore di santa Vittoria, poi andavano a quella di san Rocco e infine alla chiesa della Madonna del Carmine (15). Qui, tutte insieme chiedevano la grazia alla Madonna e al termine suonavano una campanella posta vicino ad un altare. Facevano visita all’ammalato, ricevendo un’offerta libera che poteva essere in denaro o in alimenti. “Sì, sì, una lira, due lire, tre lire, allora si parlava di questi soldi, ma anche un piatto di farina, una bottiglia d’olio, di vino, un po’ di fagioli, patate”.
“Famme le Verginelle pe’ chiede’ la grazia alla Madonna”, domandava la famiglia, e “più piccole erano, più erano gradite”.  “Di chi so’ ‘ste Verginelle?”, si sentiva ripetere al loro passaggio, e ogni  loro giro annunziava un dolore familiare,  un’angoscia nascosta. “L’ospedali non c’erano, prima lu medico non c’era, pe’ questo era tutta robba di preghiere, si rimetteva tutto ai santi. Dopo che è venuta l’abbondanza non s’è fatto punto chiù, mo quando sta male qualcuno si porta all’ospedale”. In questo santuario si sono succedute tante storie tristissime e miracolose, tutte pregne di una grande e straordinaria umanità. Una in particolare mi piace riportare, raccontatami dalla viva voce di Giovanna Costantini. “Pure mia mamma – dice -  ha ricevuto una grazia. Avevo una sorella di 13 anni, aveva nu cavacciu alla gola (un rigonfiamento maligno), allora la dovevano operare. Il dottore, siccome era una clinica privata, viene una macchina apposta per andarci. Allora ‘na sera il dottore dice: Filomena, domani andiamo a operà . Gli disse: Dotto’, non li tengo i soldi. Si mise in cerca la sera, senza risolvere nulla, e noi ci siamo messe a letto. A mezzanotte mamma è uscita di casa, dove era andata non lo sapevamo. Si mise a piangere in faccia alla porta della chiesa e ha detto: Madonna o famme la grazia o famme murì la figlia. La mattina è uscito il sole, disse mamma: Rita, adesso viene il dottore […]. Mamma non lo tengo più. Non ce lo aveva più. È venuto il dottore, la mattina: Dottò, non vengo perché mia figlia è guarita. – È possibile? – Allora fai la visita. Non le ha trovato niente. Dice: Come hai fatto pe’ ave’ ‘sta grazia? Disse:  Nessuno mi ha voluto imprestare i soldi, so’ andata alla Madonna a cercare la morte della figlia o la guarigione”.
4- Venere (Aq)
Informatrice: Sandra Cerasani, Verginella da bambina, di anni 78 (16).
Il rito delle Verginelle anche qui cessò subito dopo l’ultima guerra. Sette ragazze di 8-12 anni con una donna “emancipata”, cioè istruita nelle preghiere, salivano al santuario della Madonna del Buon Consiglio posto su di una vicina collina e, durante l’andata, recitavano tre rosari, le litanie e cantavano inni alla Madonna. (17). La grazia era chiesta dalla donna, e le bambine si univano a lei con la preghiera. Prima di scendere, si strofinava un fazzoletto alla statua della Madonna con il Bambino, “come per pulirla”, e lo si portava all’ammalato, che lo metteva dentro al letto. La famiglia di costui le ricompensava con cinque o dieci soldi o con mezza lira, secondo la disponibilità della famiglia  e “a quei tempi mezza lira valeva mezza lira, le sette ragazze dovevano essere pagate”. Si diceva che “dalle ragazze si poteva ottenere più le grazie e i parroci non c’entravano a queste cose”. La chiesa, prima, era molto differente, perché il terremoto del 1915 l’ha distrutta totalmente; si è salvata solo la statua della Madonna che stava in una nicchia (18). “Noi a quella Madonna ci tenevamo una devozione, in tempo di guerra siamo andate a chiedere le grazie perché i mariti nostri stavano fuori, come è successo a me, è successo a tante altre, era una fissazione, però noi abbiamo chiesto la grazia, la Madonna ci ha detto di sì” (19).
5- Cittareale (Ri)
Informatrice: donna anziana, testimone.
Le notizie, in questo caso, sono scarse, ma lo stesso utili per comprendere ancor più l’area di diffusione (20). Un familiare accompagnava il gruppo delle Verginelle, composto da 5 a 10 ragazze, e durante il tragitto per giungere alla chiesa della Madonna di Capodacqua (21) recitavano il rosario e altre preghiere. L’ingresso e l’uscita avvenivano per l’intera navata in ginocchio. Si accendevano le candele davanti alla Madonna e insieme chiedevano la grazia, alla fine prelevavano un po’ di olio dalla lampada del SS. Sacramento e lo portavano all’ammalato. Una ricompensa come sempre  congedava le bambine. Il rito, a detta dell’informatrice, si sarebbe protratto fino a tutti gli anni Settanta del secolo passato.
6- Settefrati (Fr)
Informatrici: Rocca Z., Gina S., Maria Filomena A. (22).
“Era ancora buio quando uscivano, le sentivo che cantavano un canto appassionato… se andavano alla Madonna di Canneto allora nominavano la Madonna di Canneto, quando andavano a san Donato, nominavano san Donato, quando andavano a Gallinaro nominavano san Gerardo”. Così, con tanta nostalgia, le ricorda la signora Maria Filomena, insieme alle altre due anziane. “Mamma  diceva:- Senti, senti stanno arrivando le Verginelle! Vedi, quelli so’ ricevuta la grazia dalla Madonna, oppure so’ ite a chiede’ la grazia, o sta malato il marito o sta malato un bambino. Era un voto che facevano alla Madonna”. Tre Verginelle (23) con la testa velata di bianco precedevano il gruppo di persone che si recavano in pellegrinaggio in questi centri cultuali, recitando il rosario e le litanie. La ragazza di centro portava un crocifisso coperto da un velo, che  avvolgeva  anche le mani ed era fermato ai polsi con un nastro. Alla Madonna di Canneto si andava a piedi e spesso scalzi,  le donne che avevano le Verginelle portavano in testa i “cofanelli”, cesti fatti con i vimini, per trasportare cibo e bevande da offrire alle giovani una volta terminato il compito, in località Capodacqua, presso il santuario (24). Prima di entrare, eseguivano i tre giri rituali attorno alla chiesa e in ginocchio arrivavano davanti alla Madonna. Non infrequente era la pratica di strisciare la lingua per terra e abbandonarsi a intense richieste di grazia, strillate da chi era nel bisogno. L’uscita avveniva in piedi, camminando all’indietro e intonando il canto: “Evviva Maria / nell’ermo Canneto / un popolo lieto / evviva gridò”.
Alla sorgente del fiume Melfa, “dove è apparsa la Madonna”, con un fazzoletto si raccoglievano “le stelline” (pagliuzze dorate di minerali metallici) e si portavano all’ammalato perché ritenute di buona fortuna, anche se “subito dopo svanivano”. Le ragazze al solito erano pagate, e alla Madonna si regalavano tanti doni: “chi ci portava l’oro, tante cose”.  Alla Madonna di Canneto la tradizione è rimasta sicuramente fin verso gli anni 1955-’56 (25) e tutte le persone intervistate sono state concordi nell’affermare che quasi esclusivamente dalla campagna di Settefrati  provenivano i gruppi con le Verginelle, molto più numerosi il 18 agosto per accompagnare la salita della “Madonna  Bianca” dal paese al santuario, giorno d’inizio della festa. Discordante, invece, è stata l’età indicata delle giovani: due ricordano che avevano 12-15 anni e altri due testimoni dai 24 ai 30 e più anni. -E le Verginelle di allora dove sono? – chiedo. Non ci stanno più qua – dice Gina. – Sono andate in America e qualcuna è ancora viva: Antonietta sta a Boston e Colomba a Stamford. Anche  mia cugina Emiliana vive a Stamford, qui ce ne sono tanti di Settefratesi”.
7- Trevi nel Lazio (Fr)
Informatrici: Maria Rosaria Abbate e Agnese Giansanti, entrambe Verginelle da bambine (26).
Con questo e con il prossimo paese entriamo nel territorio della Valle dell’Aniene, fortemente legato al culto della SS. Trinità che si venera nel santuario di Vallepietra. A Trevi, dove si usa ancora il termine  Verginella, “quando c’è qualche persona malata, oppure ha bisogno di qualche grazia, prendono 12 ragazze, giovani senza sposa’ e vanno a prega’ alla vicina chiesetta della Madonna del Riposo” (26). Le ragazze di 10-12 anni (ma anche di 15-20 anni: “basta che non sono sposate”) sono accompagnate da una donna (28) e recitano il rosario: all’andata si dicono i misteri doloroso e gaudioso, e al ritorno il mistero glorioso. Durante la sosta nella chiesetta si recitano le litanie e le preghiere della novena della Madonna di Pompei per “chiedere la grazia a favore di…”.  La famiglia del malato fa un’offerta in denaro alle ragazze secondo le possibilità. “Prima la miseria ce ne stava tanta, la povera gente non si poteva compra’ manco i lacci pe’ le ciocie. Noi andavamo lì per ottenere qualcosa senz’altro, perché il nostro cuore chissà quante cose desidera. – Madonna mia vedi com’è, come non è. A me tante volte mi ha ascoltato”. La signora Giansanti aggiunge: “L’altr’anno, il 1993, un bambino è stato operato al cuore e la famiglia ha voluto fare le Verginelle”. L’altra informatrice afferma: “Ce ne stanno ancora tante in separata sede che ci vanno pure, pure senza fa’ sapé”, alludendo chiaramente alle bambine.
8- Camerata Nuova (Rm)
Informatrici: Rosalba S. e Maria A., quest’ultima Zitella da ragazza (29).
Fino al gennaio 1859 il piccolissimo paese era situato sulla cresta di un monte della catena dei Simbruini ad una altezza di 1220 metri, completamente isolato e terra di briganti, al confine tra Lazio e Abruzzo. Un incendio distrusse le misere case, risparmiando però la chiesetta della Madonna delle Grazie, perché posta un po’ fuori l’abitato (30). Nel decennio successivo, dopo innumerevoli tribolazioni, fu costruito il nuovo paese in una posizione  più favorevole  e molto più in basso, ai limiti della Piana del Cavaliere. Anche se è trascorso molto tempo da quei tragici eventi tutti gli abitanti hanno mantenuto un costante rapporto con il vecchio luogo di origine e in particolare con la Madonna delle Grazie che si venera nella chiesetta scampata all’incendio (31). “Sette zitelle, non sposate, piuttosto giovani, se possibile che non sono nemmeno fidanzate, dovrebbe essere così”, da sole o guidate da un familiare si inerpicano per il pendio scosceso e boscoso verso la chiesetta sopra nominata, raggiungibile con circa un’ora di cammino. Durante la salita, recitano il rosario e le litanie fino a che non giungono dentro la chiesa. Poi escono al di fuori, e, rivolte verso il vicino convento montano della Madonna dei Bisognosi, continuano a pregare. Al rientro, alcune accendono le candele, altre iniziano a spazzare il pavimento con la scopa e altre ancora rassettano la chiesa, gettando fuori tutta la sporcizia. Si dispongono in ginocchio al centro dell’unica navata e la più piccola, all’inizio della fila, invoca la Vergine per la grazia, mentre retrocedono senza voltare lo sguardo alla Madonna con il Bambino. Prima di prendere la discesa, suonano vigorosamente la campana della chiesa, i cui rintocchi riescono ad arrivare nel sottostante paese di Camerata Nuova. Giunte in paese, entrano nella chiesa parrocchiale per un’ultima preghiera e ad attenderle fuori vi è un familiare che le ricompensa con un’offerta in denaro.
Per i presagi, bisogna fare attenzione al loro modo di essere perché: “durante che vanno o stanno alla chiesa, può darsi che so’ allegre, ridono, scherzano, pur che ci sia una cosa grave di mezzo, si dice che è segno buono, che va bene. Se invece dopo queste si agitano, stanno con la paura, si dice che può darsi che questa persona va male, muore”. Un familiare aggiunge: “Secondo la tradizione questo spirito dovrebbe essere dato dalla Madonna stessa, cioè nonostante la grazia che vanno a chiedere, devono sentirsi sollevate, che gli piace di scherzare, ridere con le compagne”. Di ben altra natura sono i segni premonitori descritti dal De Nino quando dice, sempre in riferimento alle Verginelle: “l’infermo guarisce, se le fanciulle, nell’andare, videro buoi; muore, se si abbatterono in qualche prete” (32). Conseguenze nefaste potevano accadere anche alle stesse ragazze. A Prata Principato Ultra “dicevano che se il malato guariva loro stavano bene, se moriva questo malato, che non avevano la grazia, diceva che cadevano tutti i capelli a queste Scapillate” (33).
Il rito, come si svolge a Camerata, si presta ad alcune considerazioni. La chiesetta doveva essere per forza il luogo privilegiato della richiesta ancor prima dell’incendio, altrimenti non si spiega perché giovani ragazze hanno dovuto per quasi un secolo e mezzo continuare ad affrontare un non facile cammino per la montagna e in qualsiasi tempo; inoltre la presenza di usanze molto arcaiche, come lascia intendere l’azione lustratoria, inducono a dare un sicuro spessore temporale alla cerimonia  cameratana, che di certo vi giunse, come per Trevi, dal vicino santuario di Vallepietra (34).
9- Le altre zitelle di Vallepietra (Rm)
Informatrici: Settimia De Santis, Solidea De Santis, Zitelle del Pianto e Marietta De Angelis, Domenica De Santis, Zitelle del rito di grazia. Presenti, inoltre, Angela Aquilani, Lorenza Palmieri, Angela Rotondi, Maria Missimei, Rosa Necchi, tutte anziane. Solo Rosa R.  è di mezza età (35).
Il santuario-grotta della SS. Trinità (36) si trova sul fianco orientale del Monte Autore a 1337 mt. e fino agli anni ’60 era raggiungibile solo a piedi con quasi due ore di cammino dal paese di Vallepietra. Bisognava  arrampicarsi per una ripida mulattiera e superare un dislivello di ben 500 metri, poi una strada ha collegato abbastanza agevolmente il luogo sacro, raggiunto ogni anno da più di mezzo milione di persone, provenienti da vaste zone del Lazio e Abruzzo. I numerosi fedeli  di ogni paese si riuniscono per l’intero pellegrinaggio nelle cosiddette Compagnie, che hanno nel vessillo trinitario il loro costante punto di riferimento di fede e di aggregazione. La stragrande maggioranza delle Compagnie laziali per arrivare al santuario deve passare per il paese di Vallepietra, mentre le Compagnie abruzzesi transitano per il paese di Cappadocia, sul  versante opposto.
Il rito delle Zitelle a Vallepietra assunse caratteristiche alquanto peculiari, dalle dimensioni e dai risvolti non facilmente definibili nel tempo. Anzitutto è emerso che le Zitelle si prestavano quasi esclusivamente per i pellegrini che nei giorni della festa chiedevano la loro intermediazione; di rado, invece, era voluta dagli abitanti di Vallepietra per la loro consuetudine a recarvisi di persona. Pur tuttavia, molte Compagnie (di sicuro le stesse che andavano alla Madonna di Canneto) si portavano dai paesi di partenza le Zitelle ed anzi proprio in alcuni di questi (37) il fenomeno  sembra non del tutto scomparso.
Nel passato, quando le difficoltà del viaggio erano notevoli  per l’assenza di strade e per le  distanze da percorrere interamente a piedi e alquanto rischiose e faticose per le  giovani Zitelle, certamente i fedeli dovettero ricorrere largamente a questo personale femminile specializzato esistente in loco. I pellegrini provenienti dalla Ciociaria e dalla provincia di Latina da sempre sono ospitati generosamente, nei giorni antecedenti la festa, nelle case dei Vallepietrani per riposare dopo il lungo viaggio e trascorrere la notte. Molte relazioni e amicizie sono nate nel corso degli anni e, oggi come ieri, ci si ritrova puntualmente nel giorno solenne della Trinità. In questa occasione, una Compagnia o una persona si rivolgeva ad una conoscente per cercare 8-10 (spesso 15 o 20)  ragazze non sposate (ma “pure 2, secondo la famiglia come poteva pagà”) per andare al santuario a ringraziare o a impetrare l’aiuto delle Divine Persone. “Portavano in dono queste Zitelle alla Trinità”, affermano le informatrici. E ancora: “Questo era un voto per la Trinità”. Si radunavano davanti la chiesa parrocchiale e al seguito del committente, che spesso intonava le preghiere, iniziavano a cantare l’inno della trinità . Se vi era una esplicita richiesta, indossavano l’abito bianco e portavano in mano le candele, altrimenti no e, anzi, verso gli ultimi anni si limitarono ad andare  solo con il velo bianco in testa. Giunte al torrente Simbrivio, cominciavano la recita del rosario, del credo e delle litanie fino al santuario. Quando attraversavano un corso d’acqua era tradizione, come d’altronde  per tutti i pellegrini, gettare i sassi dal ponte gridando le parole: “Abballe i peccati mée” (giù i peccati miei) ed “Evviva la SS. Trinità”, e qui effettuavano un rito di purificazione con ben altri e più profondi intenti. Giunte nella grotta, compivano i tre giri rituali, passando davanti all’immagine prodigiosa e uscendo in piedi sempre senza voltare le spalle (38). Al termine, il familiare implorava l’intercessione divina e le ragazze si univano e si stringevano coralmente alla vibrante voce rivolta alla Trinità affinché accogliesse la supplica o il ringraziamento. Una volta pagate, le Zitelle erano libere di tornare in paese.
Chi non si è mai incontrato, il giorno della Trinità, dentro il piccolo delubro con le folle di devoti che sfilano con le proprie fragilità fisiche ed esistenziali davanti all’immagine trinitaria, specie nel recente passato, difficilmente può arrivare a comprendere come lì avveniva una richiesta di grazia e più in generale la cultura che la esprimeva. “Prima la grazia si chiedeva strillando, forte, strillavano forte, forte, piangevano e strillavano, pure tu strillavi insieme a loro”- racconta una intervistata. E un’altra informatrice incalza: “La persona che ci portava piangeva, si inginocchiava davanti all’immagine, gridava:- Grazia Santissima Trinità! Pure noi ci si commuoveva, eravamo piccole, giovinotte , signorine”. “Il familiare chiedeva la grazia e noi appresso” – conclude un’altra informatrice-; ricordo che veniva con la lingua per terra stracinoni la gente per terra, sia alla chiesa del paese che al santuario” (39). Dopo questa estenuante prova emotiva, le ex- Zitelle ricordano: “Noi tornavamo giù con la speranza che ci pigliava un’altra Compagnia, perché allora c’era bisogno, ecco allora te faceva comodo anche una lira, mezza lira, quello che era”. La signora Marietta aggiunge: “Una volta ci siamo andate anche quattro volte in un giorno, ci chiamavano e ci riandavamo lo stesso, noi avevamo pure bisogno allora” (40), e accadeva anche di partire di notte o con un temporale e con l’unica illuminazione delle candele.
Il compenso, intorno agli anni Sessanta del secolo trascorso, era di 100–200 lire, ma poteva avvenire anche con prodotti alimentari. Per soddisfare la numerosa richiesta dei fedeli di Sezze, Terracina, Anagni, Fondi (41), ad esempio, c’erano perfino più gruppi di Zitelle, a volte in competizione tra loro. La forte esperienza di solidarietà lasciava il segno nell’animo dei partecipanti e si istaurava nel tempo una lunga e stretta amicizia fatta di gratitudine e di profondo rispetto. Non passava anno che i pellegrini riconoscenti andassero a salutare la ragazza e la famiglia che li avevano aiutati nel bisogno. Forse  non è nemmeno da escludere che il comparato extraliturgico in una fase più remota trovasse proprio in questa cerimonia una sua ragion d’essere (42).
La tradizione è rimasta abbastanza viva a Vallepietra fino agli anni 1970–71, periodo coincidente con il completamento della strada che collega il santuario. La crescente motorizzazione, la comodità del viaggio divenuto più breve e il tramonto della civiltà contadina  hanno ben presto contribuito a  far declinare il ruolo delle Zitelle-prefiche di Vallepietra, a tutto vantaggio di quelle che ora potevano essere condotte senza difficoltà dai paesi lontani. Oggi non restano che casi sporadici e     forme molto residuali e alterate di quell’antico mondo culturale, come il caso di un uomo che due anni fa ha chiesto ad una donna sposata di Vallepietra se gli recitava una preghiera al santuario. Alla risposta affermativa, le ha donato due bottiglie di vino; dal che la signora ha aggiunto: “Allora t’appiccio pure ‘na cannela”. “ Meglio ancora ”, ha concluso l’uomo (43).

Funzione e connotazione delle “prefiche bianche”
Abbiamo visto un mondo appena scomparso, ma che sembra lontanissimo nel tempo, quasi leggendario e commovente nella sua capacità di elaborare valori e riti  per affrontare la  quotidiana insicurezza dell’esistenza e arginare collettivamente la crisi individuale del cordoglio e della sciagura.
Emerge da esso in tutta evidenza l’importanza del ruolo che svolgevano queste giovani ed ignare ragazze all’interno della società agro-pastorale e, in senso lato, preindustriale dell’Italia centro-meridionale, in un tempo in cui si era praticamente abbandonati a se stessi, senza cure adatte e un sistema sanitario efficiente. Si ricorreva con grande fede ai santi, al soprannaturale, seguendo riti e   cerimonie tramandate da generazioni.
Una donna di Roccaspinalveti (Ch), che aveva portato suo figlio epilettico alla festa di san Donato a Celenza sul Trigno per la benedizione, si affidò “alla volontà del santo” perché “allora chi te li dava i dottori! “. Era il 1969 (44). Solo un esempio, ma al di là della reale presenza ospedaliera e sanitaria distribuita nel territorio nazionale, le parole lasciano ben intendere quale fosse per larghi strati della popolazione, anche in tempi recenti, il rapporto con le strutture pubbliche della sanità e la percezione della natura del male.
Le Verginelle svolsero l’importante compito di lenire sofferenze psico-fisiche del malato in stato di estrema necessità, che anche in esse riponeva la speranza della salvezza, mediante la loro santa intercessione presso Dio. L’angoscia familiare veniva alleviata perché condivisa con altre persone,  non si rimaneva da soli ad affrontare il dolore, una fitta rete di rapporti sociali univano ogni singola persona alla comunità. A differenza di oggi, in cui lo sradicamento e la solitudine urbana sono quasi la regola. Affidare ad altri una richiesta di aiuto voleva dire restare in fiduciosa attesa, coltivare positive aspettative, benefiche per la salute generale del sofferente. Oltre a ciò, le giovinette, svolgendo un riconosciuto e apprezzato ruolo pubblico, venivano a collocarsi in una nuova posizione sociale e ricevevano particolari attenzioni e  riguardi da parte degli adulti. Erano portate a compiere veri e propri riti di iniziazione e di aggregazione. Specialmente nella società passata la castità, come valore in sé e poi come condizione necessaria ed indispensabile per poter intercedere presso la Potenza, era centrale nell’educazione del bambino/a e si doveva conservare fino al matrimonio, che, sebbene un sacramento, interrompeva quel rapporto privilegiato con il sovrannaturale (45).
Senza entrare nel labirinto della sacralità dei numeri e della loro vasta casistica, ci soffermiamo   solo su quei numeri ricorrenti, non a caso il 7 e il 12, riscontrati in diversi paesi, tra cui Trevi nel Lazio e Camerata Nuova. Si potrebbero formulare diverse interpretazioni per spiegare la loro adozione, ma forse ci si può orientare verso l’iconografia mariana  e nello specifico  la Madonna dei sette dolori (46) e la Vergine con la corona di 12 stelle, che rappresentano il numero delle 12 tribù di Israele.
Non ovunque si indossava l’abito bianco al tempo delle  testimonianze relative ai centri esaminati, forse per un certo deterioramento della tradizione o forse per le notevoli difficoltà economiche che c’erano tra le due guerre e oltre, quando era un problema farsi un capo di abbigliamento.
Invece le ragazze ricevevano sempre il compenso. “Prendevano a pagamento delle ragazze che le portavano a pregare con loro”, si sente ripetere costantemente e senza alcuna esitazione dalle informatrici. Per la nostra sensibilità di oggi, questo comportamento può generare un po’ di sconcerto o meraviglia, ma prima non era così. Il Baratta ha dato il significato di elemosina all’elargizione  di un’offerta quasi sempre in denaro e ciò è anche plausibile in una determinata fase storica, dal momento che c’era vero bisogno di aiutare concretamente le giovinette che  avanzavano nella vita. Ma oltre a questo, bisogna considerare quale era la mentalità e la vita pratica ed economica delle masse rurali, incentrata sul do ut des, sul dare e avere, anche all’interno degli stessi santuari. Obbligati a pagare ogni cosa per ottenere quel poco da vivere, era impensabile per i contadini chiedere senza offrire nulla in cambio. Da qui le offerte, le preghiere, gli atti penitenziali, incentrati nel lungo viaggio a piedi verso la Potenza, per ottenere  maggiormente l’aiuto invocato e  trovare forme di riscatto.
Se i fatti accertati lasciano pochi dubbi sulla dinamica di diffusione del rito, almeno nella sua espansione verso le regioni centrali d’Italia, resta tuttavia da chiarire quando si è formato nel modo come lo conosciamo nell’area dell’Irpinia e del Meridione e quali possibili riferimenti storico-culturali abbia.
Per il momento ci è concesso dire solo che appare evidente la sua notevole profondità temporale per le stratificazioni di elementi magici ed  arcaici, per il grande irradiamento che ha avuto e per il suo carattere fortemente popolare, che lo collega a quell’antico mondo mediterraneo di cui non finiamo mai di ascoltare gli echi. Lungi dal pretendere di dirimere la questione, che richiederebbe ben altro spazio e fatica, si possono comunque avanzare considerazioni di carattere generale.
In ogni tempo l’uomo ha cercato in tutti i modi di allontanare la fine della vita, creando rimedi empirici, miti e cerimonie per combattere la morte. Il mondo popolare, in particolare, ha elaborato una tale ricchezza di strumenti simbolici e rituali che anche nella società moderna sono incredibilmente vivi. Come non vedere analogie, sebbene antitetiche, con le figure delle antiche prefiche e con il ricorso ad un palese simbolismo protettivo nei confronti della crisi?
Il gruppo femminile specializzato al servizio di una famiglia dietro compenso, il ritualismo che anche qui si esprime nel “pianto vitale”, sono elementi di contatto fin troppo evidenti, così come  quelli per scongiurare il fatale evento. A differenza delle lamentatrici funebri che si strappavano e tagliavano i capelli, loro se li facevano crescere in modo esagerato, segno di lunga vita, spengono le candele prima di entrare in casa, per non essere di malaugurio, spazzano la chiesa con funzione chiaramente apotropaica e suonano vigorosamente la campana per esorcizzare che  non sia a morto, sono raggruppate in numeri dal valore sacrale, compiono la circumambulazione nei santuari per “rinchiudere in un cerchio il potere benefico promanante da un luogo o da un oggetto sacro” (47). Come il popolo aveva elaborato sistemi e tecniche per affrontare la morte, così dovette crearne altri per prolungare la vita. Di più ora non si può dire e azzardare. Però, un rito di altre Verginelle vestite di bianco, ma vicine al matrimonio, che nella città di Solofra (Av) andavano a deporre durante le feste un cero alla Madonna per chiedere la grazia della maternità, offre ulteriori spunti di riflessione sulla complessità del fenomeno e sulla sua vicinanza con la mentalità e ritualità del mondo antico.  Da tempi lontanissimi alle donne è stata riconosciuta una prerogativa magico-religiosa di collegamento con la dimensione religiosa ed esoterica; basti pensare ancora alle vergini vestali di Roma, alle maliarde che presso i romani esercitavano i sortilegi, alle streghe medioevali, e addirittura alle verginelle dei riti satanici, secondo il racconto di padre Prospero Maroni, vissuto nel Seicento. Scrive il Maroni: “Quelli che fanno le malie, e sacrificano le creature ragionevoli, o gli animali al demonio, o pure l’invocano domandandogli grazie, inginocchiandosi, accendendo candele o altri lumi […] servendosi in ciò di Verginelle” (48).

Perché il Pianto colto a Vallepietra
Da quanto emerso, si evince che prima del “Pianto colto” vi doveva essere il “Pianto popolare” delle Zitelle-Verginelle che “piangevano e si commuovevano” di fronte all’immagine della Trinità con chi supplicava  la grazia. Era già il Pianto delle Zitelle!
Il tempo ha steso il suo velo di oblìo e se ne è persa la memoria. Il fatto che questo misconosciuto cerimoniale non compaia nelle visite pastorali, più che altro attente ai problemi di ordine pratico-amministrativo  e alla descrizione dei luoghi di culto, è facilmente spiegabile se consideriamo la sua irruzione poco liturgica nella solennità della festa. Se poi si pensa che nel giorno di maggiore affluenza, con il via vai dei pellegrini e di gruppi con le Zitelle che sostavano il più possibile dentro la cappella per farsi ascoltare dalla Trinità, inevitabilmente si generava non solo disagio per tutti, ma un vero e proprio tourbillon di invocazioni gridate e urlate, si può ben capire quale atmosfera   regnasse nel piccolo sacello.
Ciò dovette indurre l’autorità della Chiesa ad intervenire per riportare la celebrazione religiosa verso forme più controllate e ordinate, affidando alle Zitelle di Vallepietra un altro ruolo pubblico, ritenuto più consono alla loro formazione cristiana e alla festa della Trinità. Ecco, allora, che il Graziosi  rispolvera un vecchio manoscritto del Seicento  trascritto dal Tozzi  per essere cantato nel giorno di festa nella loggetta della cappella. In questo modo non solo l’enorme pressione dei  pellegrini in entrata si arrestava, ma ora le Zitelle di Vallepietra, che  riassumevano  per tutti l’antica funzione di tramite, davanti ad una moltitudine di persone elevavano un canto lamentoso a Gesù Cristo nel momento della Passione, con la Madonna in nero che esprimeva tutti i dolori di una madre per il Figlio morto. La vera grazia non sta nella guarigione del corpo, ma nella salvezza dell’anima per mezzo della vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Il messaggio non poteva essere più chiaro.
A conforto di questa analisi viene in mente quanto De Martino ha scritto in Morte e pianto rituale.   Vi fu, parlando della Chiesa, anche una sua azione pedagogica più interiore e religiosamente impegnata mercè la efficacia storica della figura della Mater Dolorosa nella scena della Passione. In perfetta coerenza con la solenne affermazione della vittoria di Cristo sulla morte e con la polemica sulla lamentazione pagana “e più oltre [...] la rappresentazione drammatica del suo cordoglio oggettivava in un cordoglio esemplare, illuminato di pazienza. e di speranza, gli infiniti cordogli terreni di un mondo vulnerato dalla morte, esposto al rischio della crisi e ancora incline a ricadere nei modi della lamentazione pagana” (49).
Probabilmente a Vallepietra l’autorità religiosa intervenne allo stesso modo per disciplinare una espressione della religiosità popolare divenuta troppo clamorosa e stridente con la celebrazione liturgica.
Il rito tuttavia non terminò, forse fu solo meglio gestito e regolamentato con discrezione, oppure in parte scoraggiato  e costretto al riserbo, altrimenti non si spiega come mai dai viaggiatori, fotografi, studiosi, ricercatori tra Ottocento e Novecento non ci sia giunta notizia. Né dallo stesso clero è mai trapelato qualcosa. Non sappiamo e poco importa! È invece importante che qui giungano ancora gli stanchi pellegrini per trovare il sollievo del corpo e dello spirito e per ascoltare le note dolenti del Pianto delle Zitelle.

1- La tradizione vuole che non siano sposate, appunto Zitelle, e così era nel passato. In epoca più recente, questa prescrizione a volte è venuta meno per motivi contingenti o per carenza di personale femminile disponibile. Nella prima metà del Novecento e oltre, come risulta da documentazioni e fotografie, l’ora d’inizio del  Pianto era fissata alle 8 di  mattina, così nella festa del 26 maggio 1929. In un momento successivo, la rappresentazione è stata anticipata alle  prime luci dell’alba (nel 1976 era  alle ore 5) e poi, con  l’introduzione dell’ora legale, si è consolidata alle ore 6. Da sempre, al termine della sacra lauda, le Compagnie  ripartono immediatamente per i paesi di provenienza.
2- Non si vuole essere a tutti i costi conservatori per un immobilismo fine a se stesso, però non si comprende perché non si è mantenuto l’antico schema del Pianto e solo in aggiunta una sua  rivisitazione.
3- n. cocchia, Il Pianto delle Zitelle, ovvero i misteri della passione di nostro Signore Gesù Cristo. Un canto religioso della comunità di Vallepietra, in  f. f. bernardini (a cura di), Nessuno vada nella terra senza luna. Etnografia del pellegrinaggio al santuario della Santissima Trinità di Vallepietra, Provincia di Roma – Assessorato alla Cultura e alle Politiche Giovanili 2000, pp. 43-54.
4- f. caraffa, Vallepietra dalle origini alla fine del secolo XIX, Lateranum Roma 1969, p. 233. Per le notizie sulle visite pastorali, si veda anche l’interessante lavoro di a. ciangherotti, Lettura diacronica di un culto antico attraverso la rilettura dei testi e delle visite pastorali dal XVI al XX secolo, in  f. f. bernardini (a cura di), op. cit., pp. 21-29.
5- f. caraffa, op. cit., pp. 240-248-249. In quest’ultima pagina si riporta anche la fondata ipotesi  sull’origine del culto a s. Anna verso fine Ottocento, avanzata dall’arciprete di Vallepietra Salvatore Mercuri. Durante questa ricorrenza si è cantato per un certo tempo il “Pianto delle tre  Zitelle”, secondo quanto si apprende, dietro segnalazione del prof. Aldo Innocenzi, dal volumetto di m. escobar, Manifestazioni religiose a Roma e nel Lazio, EPT di Roma, Arti Grafiche Terenzi s.r.l. 1975, p. 45.
6- Nel santuario di Montevergine le uniche pubblicazioni che trattano l’argomento Verginelle, in modo generico e circoscritto al cenobio verginiano, sono quelle riportate in nota di don Placido Tropeano, direttore della Biblioteca del Monumento Statale di Montevergine e di padre Raffaele Mario Baratta.
7- La documentazione fotografica e filmica del rito al di fuori della festa della SS.ma Trinità  è del 12. 8.1991. E’ vietata qualsiasi riproduzione del presente articolo e delle fotografie a corredo senza autorizzazione dell’Autore.
8- Le origini del santuario di Montevergine risalgono agli inizi del XII secolo. Il cenobio verginiano, fondato da S. Guglielmo da Vercelli, estese la sua influenza in tutto il Mezzogiorno e divenne uno dei centri spirituali più importanti della Campania. Oggi, più di un milione di pellegrini durante l’anno viene a venerare la  Mamma Schiavona.
9- r. m. baratta, Montevergine, tradizioni e canti popolari religiosi, Montevergine 1973,  pp. 71-73-159.
10- p. tropeano, Montevergine nella storia e nell’arte, Napoli Arturo Berisio Editore 1973, pp. 225-226.
11- Alcune testimonianze di donne anziane sono state raccolte a Mercogliano il 30 agosto 2006.
12- Le interviste con le due donne anziane sono del 13.6.1993 e del 13.6.1994.
13- L’intervista è del 19.7.1994. La signora Francesca, figlia di Madeo Filomena, dopo essere stata operata a Rossano, ha fatto voto di portare le Verginelle alla chiesa della Madonna Assunta di questa città, per ringraziarla della completa guarigione. Il viaggio di andata e ritorno da Crosia avvenne in treno.
14- L’ultima donna a condurre le Verginelle fu Olimpia Monaco, nata il 24.4.1864 e morta il 21.1.1954, come mi hanno riferito il figlio Silvio Carozza e la nipote Delia. Qui la tradizione  si mantenne fino agli anni successivi alla II guerra mondiale. Le interviste sono del  29.7.1992 e del 7.8.1993.
15- Il santuario della Madonna del Carmine di Tornareccio è stato un importante luogo di pellegrinaggio per le popolazioni di una vasta area dei Frentani. “Questa è stata  una Madonna miracolosa” si sente ripetere. In passato schiere di diseredati venivano a piedi, anche scalzi, dormivano in chiesa e per la grazia ricevuta lasciavano i vestiti che portavano indosso e donavano soldi e oggetti d’oro. Chi chiedeva una grazia si portava “Con la lingua stracinuni in terra alla Madonna” e  uno batteva con il bastone sul pavimento per indicare la  linea da seguire per giungere sotto la statua della Vergine. Il racconto di fondazione narra che la Madonna apparve sopra un albero a due bambine che pascolavano i maiali (nel dipinto dentro la chiesa sono invece raffigurate due pecorelle) e ha chiesto che lì fosse costruita una chiesetta.
16- Le interviste si riferiscono al 29.7.1992 e all’8.5.1994. Una donna del suo tempo che accompagnava  le Verginelle era sua zia Giselda Zavori .
17- La Madonna, che qui si venera con il titolo del Buon Consiglio, è quella che nel 1467. Questa, a seguito dell’invasione  musulmana dell’Albania, rivelò di voler trasferire una sua immagine con il Bambino da Scutari in Italia. Il quadro miracolosamente giunse in volo a Genazzano (Roma), dove tuttora è conservato. Il santuario abruzzese da sempre è particolarmente frequentato dagli abitanti di Piscina e di San Benedetto dei Marsi, ma  qui vi giungono anche da zone più lontane.
18- Fino agli anni della seconda guerra, era tradizione svestire dentro una provvisoria “chiesa di legno”, chiamata  nell’intervista “baracca”, i bambini che ricevevano una guarigione e lasciare gli abiti come ex-voto, a volte anche con doni in oro. Il santuario nuovo è stato costruito alla fine degli anni ’40. Per l’interpretazione del dono dei vestiti si veda: e. giancristofaro, Tradizioni popolari d’Abruzzo, New Compton Editori, 1995, p. 110 e g. lutzenkinchen, Il male di San Donato, in Mal di Luna, Paperbaks saggi/148- Newton Compton  editori, Roma, 1981.
19- Per questi due paesi dell’Abruzzo, vedi g. finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, 1894, ristampato da Edikronos, Palermo 1981, p. 83. L’Autore riporta, senza specificare, soltanto la seguente frase in merito alla grazia: “Si bada se la fiaccola della lampada fatta accendere per questo sia tranquilla o agitata, traendo buon augurio nel primo caso, e cattivo nel secondo”.
20- L’intervista è del 2.8.1998.
21- La Madonna di Capodacqua viene celebrata il giorno stesso della festa della SS. Trinità. La mattina presto, da tutto il circondario si muovono verso la chiesa gruppi di persone precedute da numerose ragazze vestite di bianco, che via via  vanno a ingrossare una lunga e candida processione, sventolante  stendardi e simboli della Vergine.
22- Le interviste sono del 26.8.2006.
23- La signora Gina, a differenza delle altre, ricorda oltre al numero 3 anche il 6 e il 9.
24- Vicino il paese di Settefrati a 1020 mt. sorge il santuario dedicato alla Madonna nera di Canneto. Nei pressi sgorgano le sorgenti del fiume Melfa e vi era un tempio dedicato alla dea Mefiti. La costruzione del santuario è legata anche in questo caso al racconto di un’apparizione della Vergine ad una pastorella per chiedere che lì venisse costruita una chiesa. Il periodo centrale della festa va dal 18 al 22 agosto, giorno in cui la statua della Madonna bianca scende dal santuario per  far ritorno a Settefrati. Nel periodo festivo decine di migliaia di fedeli arrivano da vaste zone del Lazio, della Campania, del Molise, dell’Abruzzo.
25- L’operaio Socci Lorenzo ha lavorato a Canneto con la teleferica per portare carbone e traverse per le ferrovie dal 1947-1948 fino al 1963 e ricorda molto bene che le Verginelle venivano con le Compagnie ancora alla metà degli anni Cinquanta.
26- L’intervista è del 4.4.1994.
27- La donna ricorda che “Il mercoledì prima dell’Ascensione alla Madonna del Riposo si facevano le Rogazioni. C’era la processione e dicevano le preghiere per avere il raccolto, frutti buoni, l’acqua. In tempo di guerra tutte le sere vi si andava a recitare il rosario”. La chiesetta fu eretta alle porte del paese nel 1493 per una duplice grazia ricevuta dalla Vergine, una delle quali fu liberazione dalla peste del 1476.
28- Due donne che “portavano” le Verginelle si chiamavano Pascuccia e zia Amalia.
29- Le interviste sono del 16.4.1979, del  luglio 1991 e del 26.10.1991.
30- Il famoso incendio avvenne il 9.1.1859, e costrinse l’intera popolazione ad una  fuga precipitosa. Ma un secondo devastante  incendio, avvenuto nel settembre 1863, distrusse definitivamente ciò che era  rimasto o si stava ricostruendo e quel luogo fu abbandonato per sempre. Oggi, restano vistosi ruderi, che prendono il nome di Camerata Vecchia. La chiesa di santa Maria delle Grazie riporta sull’architrave della porta d’ingresso la data del 1626 e figura  nella relazione della visita pastorale del 1672, eseguita dall’abate Cosimo Capponi, come “sita fuori del castrum”. Vedi anche m. merlino, e. di maro, La storia, l’incendio di Camerata e la sua ricostruzione, in Aequa n. 26, anno VIII, luglio 2006, pp. 13-24.
31- Ogni anno, nel giorno di Pasquetta i paesani salgono a Camerata Vecchia per festeggiare la Madonna delle Grazie e pranzare all’aria aperta.
32- a. de nino, Usi Abruzzesi, vol. II, Adelmo Polla Avezzano, 1879.
33- Si riportano le parole dette dalla signora Capone Mariannina, intervistata a Prata Principato Ultra il 9.4.1994.
34- Artemio Tacchia, per il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, ha redatto in data 19.11.1997 una dettagliata scheda sulla  chiesa-santuario di Santa Maria delle Grazie di Camerata Vecchia, nell’ambito del progetto “Santuari del Lazio”. Alla voce, “Altre cerimonie”, scrive: “Uno dei parenti interessa una donna del paese che raduna 7 ragazze non sposate. Queste, pure con la neve (il santuario si erge a 1220 mt.), si recano al santuario, recitano il rosario, dicono preghiere poi gridano con urla la richiesta della grazia per il malato grave (di solito tumore). A volte a gridare è la più piccola. Poi pregano ancora e all’uscita cantano un inno alla Madonna. Non sono presenti i parenti. Le ragazze, poi, vengono ricompensate con denaro dalla famiglia del malato. L’ultima volta di questo rito, nell’ottobre 1997”.
35- Le interviste sono del 9.7.1994, del 3.8.1994 e del 22.8.2006. Molto importante è stata la testimonianza della  signora Rosa R., nata nell’aprile 1950, sia  perché è stata una delle ultime Zitelle a svolgere questo ruolo di mediatrice, sia perché  la sua fresca  memoria ha potuto fornire ulteriori particolari e conferme. Ha iniziato all’età di 10–11 anni e ha svolto ininterrottamente per un decennio il ruolo di Zitella-prefica, fino a quando si è sposata.
36- Sono molte le pubblicazioni sul santuario e sulla festa della SS. Trinità, per cui si rinvia ad esse                                              per ogni  approfondimento. La leggenda di fondazione narra di due buoi che durante un’aratura precipitarono dal colle della Tagliata nel sottostante burrone e furono trovati dal contadino in ginocchio davanti all’immagine della Trinità, apparsa miracolosamente.
37- La tradizione delle Zitelle più che nel paese di Boville è rimasta, seppure affievolita con il passare del tempo, nelle campagne e frazioni vicine e particolarmente in quella di san Lucio. Ancora nel 1999, una ragazza, che ebbe un incidente stradale, volle portare alla Trinità 11 Zitelle per lo scampato pericolo. Il numero, comunque, non è fisso. Quando si andava a piedi  per coprire la distanza di andata e ritorno occorrevano 6-7 giorni di viaggio.
38- Alcune ricordano che al piazzale venivano date alle ragazze le candele da lasciare davanti all’ altare; altre però sono state di parere contrario.
39- Si vedano, al riguardo, le foto scattate negli anni 1920-1923 da Luciano Morpurgo in a. m. di nola, o. grossi, Memoria di una festa, Edizioni Quasar, Roma 1980. Di Nola si è sempre contrapposto all’analisi storico-religiosa di A. Brelich, indicando un’origine medioevale del santuario vallepietrano e del culto che qui si sviluppò. Egli afferma: “Nessuna credibilità merita il superficiale saggio di Brelich A., un culto preistorico vivente nell’Italia centrale, in SMSR, XXIV-XXV, 36-59, che si fonda su una pesante confusione fra il culto della Trinità e presunti residui di culti materni e dell’acqua”. Vedi, a. m. di nola, Il bambino e la festa, Edizioni RAI 1991, p. 75.
40- Settimia De Santis, nata il 1918 e negli anni Trenta Zitella nella sacra lauda, ricorda quando per guadagnare qualche offerta in denaro, insieme ad altre compagne, si esibiva la notte della festa davanti ai pellegrini dentro le case di Vallepietra, cantando lunghe parti del  Pianto  richieste dagli stessi forestieri.
41- La signora Rosa R. cita soprattutto questi centri, aggiungendo, senza  specificare, altri  paesi del frusinate.
42- Sia presso il santuario della SS.ma Trinità che in quello della Madonna di Canneto avveniva il rito del comparatico tra bambini o tra adulti, utilizzando l’acqua della fonte che scaturisce nei pressi dei due luoghi di culto. La cerimonia comprendeva l’uso di formule e di gesti codificati dalla tradizione.
43- Artemio Tacchia aveva già messo in evidenza che le donne “per la fiducia che suscitano, fungono spesso da  ‘ambasciatrici’ verso la Trinità; a loro si affidano denaro, preghiere, richieste di grazie”. Inoltre riferisce la tradizione di “raccogliere l’acqua sacra e riportarla in paese ai malati o ai fedeli che la bevono con devozione”. Vedi a. tacchia,  Mura sante e mura beate: il pellegrinaggio di Marano Equo, in f. f. bernardini (a cura di), p. 141, op. cit. Anche la Simeoni rileva che “Nel film di Giacomo Pozzi-Bellini (1939) si ha spesso la sensazione che vi siano più donne che uomini o comunque che le donne siano protagoniste quanto o più degli uomini, così come appare nelle fotografie di Luciano Morpurgo”. Vedi p. e. simeoni, Essere donna essere uomo nella valle dell’Aniene, Edilazio 2006, p. 40.
44- L’intervista è del 7 agosto 1993.
45- “Lo stato di verginità è più perfetto di quello del matrimonio; meno sublime del religioso; ma può essere fecondissimo per la gloria di Dio e pel bene del prossimo”, in La Vergine Cristiana, nella famiglia e nel mondo, sue virtù e sua missione, Paris 1908, G. Beauchesne & C. éditeurs, p. 4.
46- La Madonna è raffigurata con 7 spade che le trafiggono il cuore. I dolori sono: la profezia di Simeone, la fuga in Egitto, smarrimento di Gesù, incontro con Gesù che va a morire, crocifissione, agonia e morte di Gesù, la lanciata, deposizione dalla croce e sepoltura di Gesù.
47- a. m. di nola, Lo specchio e l’olio, Laterza 1993, p. 111.
48- p. toschi, Lei ci crede?, Eri Edizioni, 1968, p. 109.
49- e. de martino, Morte e pianto rituale, Boringhieri 1975, pp. 336-339.