di Pietro Terenzi
La dichiarazione di armistizio dell’8 settembre 1943, ore 20, l’ho ascoltata alla radio appena tornato da Roma, dove avevo riscosso l’ultimo stipendio della mia breve carriera impiegatizia, iniziata il 15 gennaio 1943 e terminata il 19 luglio dello stesso anno a motivo del bombardamento di Roma (abitavo al quartiere Prenestino e la mia casa non era più agibile). Avevo 17 anni, e dal comunicato che avevo appena ascoltato, ho compreso benissimo, insieme con un mio coetaneo, il valore delle condizioni di armistizio: “senza condizioni” come riferimento al progetto futuro delle nostre vite. Dopo due giorni dalla dichiarazione, all’imbrunire, si è fermata, per un po’ di tempo a Orvinio, una parte di autocolonna dell’esercito italiano. Si poteva comprare tutto: maglie e scarpe militari, divise, moschetti, proiettili, etc. ed in compenso cercavano abiti civili. Poi l’autocolonna si è rimessa in movimento in direzione di Rieti. Il giorno successivo ho saputo che la stessa autocolonna si era fermata non lontano da Orvinio su una strada comunale, sterrata, bianca che conduceva al comune di Pozzaglia, (a quel tempo senza uscita). Il giorno successivo, però, è passato, sempre verso Rieti, un camion dei tedeschi con a bordo, sul cassone, 17 militari. Dopo appena tre o quattro ore sono cominciati a ripassare, verso Roma, i mezzi dell’esercito italiano guidati da militari tedeschi. Questo andirivieni, si è ripetuto anche il giorno dopo, fino all’esaurimento del recupero dell’intera auto colonna. Per questa circostanza, debbo ritenere che l’occasione, appena descritta, abbia dato modo, ai tedeschi di conoscere il territorio, la posizione e la ricettività del comune di Orvinio. Posto sulla sommità della via orviniense (allora strada bianca), proveniente dalla statale salaria ed in prosecuzione della quale (verso sud), si poteva continuare con la via licentina (asfaltata) sino all’imbocco con via Tiburtina Valeria. Una direzione nord-sud senza toccare i grandi centri. Subito dopo tutti gli spazi utili per posti auto, esistenti nel paese e dintorni, furono protetti da grandi teli di iuta che non lasciavano intravedere nulla dall’alto. In sostanza, il paese era stato prescelto come presidio addetto alla riparazione dei mezzi di trasporto gommati, usando i locali, molto ampi, adiacenti al castello. e la vaccheria del castello, posta al di fuori del paese, come centro di macelleria. La disciplina del movimento dei mezzi era ferrea. Non si consentiva mai di tenere, in sosta, mezzi di trasporto “allo scoperto”. Nel frattempo la campagna intorno a Orvinio si era riempita di soldati prigionieri fuggiti dal vicino campo di concentramento di Fara Sabina. Si arrangiavano a dormire nelle stalle e aiutavano anche i contadini nell’attività agricola. Poi, il 23 settembre venne costituito il governo della Repubblica Sociale Italiana che provvide, subito dopo, al richiamo alle armi di tutti i giovani fino alla classe 1924. Nessun giovane di Orvinio risponde all’avviso di chiamata. E tutti si dettero alla clandestinità nelle varie stalle esistenti nel territorio.
Io ed altri amici, di classe non richiamata, eravamo incaricati di portare i viveri agli amici “clandestini”. Usavamo un secchio di latta, da 10 chili, già utilizzato dai commercianti per la vendita di conserva a peso, oppure alici sotto sale, con un manico applicato, riempito con “sagne fatte in casa condite” coperte con carta oliata, e sopra qualche chicco di granturco. Non esistevano controlli in quanto i tedeschi erano occupati solo nell’attività del presidio. Anzi nel centro di macelleria collaboravano anche persone di paese, perché, oltre la paga, ricevevano scarti di grasso, prezioso materiale, con il quale si poteva realizzare, in famiglia, sapone da bucato grezzo. Prodotto, che all’epoca, era quasi inesistente. quindi il valore del prodotto era molto elevato.
Fra i militari tedeschi del presidio e la popolazione del paese non sorse alcun conflitto.AC’era il massimo rispetto reciproco. Anzi, nell’autunno/inverno 1943/1944 si verificò una notevole crisi di prodotti alimentari in rapporto alla popolazione dimorante che era di gran lunga superiore, in numero, rispetto a quella degli anni precedenti, mentre la forza di lavoro si era notevolmente ridotta, in quanto impegnata nel conflitto in atto. Per tali motivi l’amministrazione comunale con l’aiuto e la collaborazione del comandante del presidio riuscì a completare un acquisto di grano nella regione Marche, e trasportarlo a Orvinio con due camion prestati dallo stesso presidio. Nella primavera del 1944 le condizioni del fronte di Montecassino cambiarono ed il presidio militare del paese iniziò a smobilitare ed a trasferirsi. II movimento dei mezzi di trasporto, specialmente verso nord, era notevolmente difficoltoso per i continui mitragliamenti aerei, di conseguenza, lo spostamento con i mezzi poteva essere effettuato solamente di notte. durante il giorno le campagne ed i boschi e lo stesso paese erano pieni di truppe tedesche che molto spesso erano costrette ad arrangiarsi per sostenersi. Tra gli abitanti di Orvinio, quelli che potevano si trasferirono in campagna dove era più sicuro vivere. I miei genitori furono costretti a rimanere in paese perché in casa, come sfollata dal bombardamento di Roma, c’è una zia non trasportabile in campagna. Io e le mie sorelle eravamo ospiti in una stalla dei nostri vicini di casa.
Il 2 giugno ’44, recatomi al paese, vidi un ufficiale tedesco uscire, da solo, dalla chiesa parrocchiale di Orvinio, con l’aria di un turista che si guardasse tutt’attorno. Si avviò verso il castello e compiuti dieci passi incrociò un militare tedesco che dormiva sulla soglia di una casa. alla vista dell’ufficiale il soldato scattò in piedi e sull’attenti presentò il saluto militare. Poi, scappò verso di me facendo chiari segni con le mani che nel luogo in cui si trovava quell’ufficiale, il bombardamento aereo sarebbe stato quasi certo. La conferma che quel turista fosse il Maresciallo Kesserling, comandante delle forze tedesche nel Mediterraneo ed in Italia, l’ho avuta, anche dai fasci di fili telefonici che scendevano dal castello e si noltravano nel bosco di castagne di “Montecampuni”, dove il Maresciallo, era solito dimorare durante il giorno. Il 4 giugno si verificò un ennesimo intervento dei militari in ritirata. Al tentativo di saccheggio di un maialino, i proprietari reagirono, disarmando e ferendo i militari; costoro tornarono indietro e chiesero aiuto ai commilitoni in sosta lungo la strada, i quali reagirono violentemente con le armi. Vi furono due vittime civili e qualche ferito lieve. La mattina del 6 giugno 1944, alle prime luci dell’alba, si udirono dei forti boati. I tedeschi, nel timore di essere inseguiti dalle forze alleate lungo le stesse strade da essi percorse, fecero saltare tutti ponti nella parte più alta delle montagne, in modo da salvaguardarsi la fuga verso nord. Orvinio, allora servito da due sole strade, rimase completamente isolato dal resto del mondo ed anche al buio per mancanza di energia elettrica. Sulla piazza del paese dove esisteva un crocevia la via orviniense (bianca) denunciava un consumo di almeno 10 centimetri di strada.
Tutti i renitenti alla chiamata rientrarono in paese; i prigionieri di guerra fuggiti dal campo di concentramento di Fara sabina raggiunsero, in qualche modo, e con ogni mezzo, gli eserciti alleati e posero fine alla loro clandestinità. Rientrarono a piedi altri militari che l’8 settembre aveva bloccato a sud d’Italia. In cielo non volteggiavano più i “caccia”, ma passavano rumorose le fortezze volanti dirette verso gli obiettivi del nord. La vita del paese continuava anche senza strade e senza luce elettrica. Si verificò, però, un avvenimento eccezionale: Antonio, un ragazzo di 6 anni, subì la rottura del femore. Il medico condotto provvide, con l’aiuto di un suo collega, a tenere l’arto sotto tiro (con l’utilizzo di un ferro da stiro nel quale si metteva la brace dentro), ma c’era comunque la necessità di portare il ragazzo ferito urgentemente in ospedale. Il posto più vicino era Tivoli, (30 Km.) e la strada era interrotta per via dei ponti fatti saltare dai tedeschi in ritirata. Il ragazzo non poteva cavalcare né tanto meno camminare. doveva rimanere solamente disteso. Pietro e Maria, i genitori di Antonio, non potevano contare che su loro stessi: abituati alle fatiche dei campi ed a quelle di tutti i giorni, come portare il pane al forno oppure l’acqua a casa con la conca, pensarono bene di affrontare insieme il lungo viaggio che avrebbe dovuto procurare la guarigione al figlio. Si fecero accompagnare con un carretto fino al primo tratto della strada interrotta e là caricarono il figlio sdraiandolo sulla tavola che solitamente usavano per portare il pane al forno. Così si avviarono verso la salvezza: Maria si pose la tavola in testa! Ovviamente il viaggio doveva essere interrotto continuamente a causa della stanchezza; Pietro, allora, si rendeva utile aiutando Maria ad appoggiare la tavola in terra per riposare un po’. Il cammino alla volta dell’ospedale di Pietro e Maria pareva quasi ripetere l’episodio famoso di “Giuseppe e Maria”, che con l’aiuto dell’asinello, cercavano di salvarsi fuggendo verso l’Egitto, la motivazione narrata dal Vangelo di Matteo, in fondo, è la stessa, “la salvezza del figlio”. Antonio, il figlio, si salvò e riprese, benché lentamente, a camminare. Pietro e Maria continuarono la loro vita di sempre, anzi con più lena. La famiglia divenne più numerosa. Così come hanno vissuto sempre insieme, insieme sono morti nel mese di maggio del 1997, a distanza di alcuni giorni l’uno dall’altra. Antonio, invece, si è creato felicemente la sua famiglia.