S. MARIA DEL RONCI
E LA TAVOLA DEL PASTURA A ROCCAGIOVINE
di Alberto Crielesi
Uno dei cosiddetti “percorsi della penitenza”, tra i più brevi, che si dipartivano dalla chiesetta del Sepolcro di Vicovaro seguiva la strada parallela al Ronci, affluente dell’Aniene, e che portava ad un venerato e solitario santuario mariano, S. Maria del Ronci, nella valletta omonima (1). Questa via impervia, che s’inoltra tra le gole dei Lucretili, era stata nel Medioevo un valido diverticolo a quella tracciata nel fondovalle dell’altro affluente dell’Aniene, il Licenza: molti pellegrini e viandanti l’avevano percorsa per giungere agli antichi castelli farfensi di Spogna, di Macla Felcosa, di Petra Demone per sfociare quindi nella bassa Sabina e giungere così a Farfa o nel Reatino. Abbandonati e andati diruti questi castelli sui Lucretili, la strada del Ronci rimase, stagione favorevole permettendo, soltanto prerogativa di pochi, sia per arrivare con qualche guadagno di tempo ai vicini feudi orsiniani di Roccagiovine, Licenza, Civitella o Percile, sia, i più, per raggiungere da “penitenti” e devoti il romitorio di S. Maria di Ronci.
L’uso di recarsi, collettivamente o individualmente, ad un santuario per compiere speciali atti religiosi, sia a scopo devozionale che penitenziale, era, com’è noto, diffusissimo sin dai tempi antichi del cristianesimo; molti confessori imponevano, come penitenza per i peccati più gravi, di fare pellegrinaggi ai luoghi santi della Palestina, nella Roma dei Martiri, a S. Jacopo di Compostella o, in alternativa, a qualche altro santuario più prossimo. La chiesa di S. Maria del Ronci fu, al pari della più famosa Mentorella e delle cappelle rupestri di S. Michele e di S. Benedetto a S. Cosimato, uno di quei luoghi della media valle dell’Aniene ove venivano indirizzati i penitenti della zona.
L’appuntamento ideale per recarsi nel piccolo e sperduto santuario era soprattutto il primo ed il terzo giorno del mese di maggio, festa della Madonna del Ronci, quando ormai il Follettoso e le altre montagne dei Lucretili avevano perduto le loro caratteristiche di cime innevate, il Ronci non si mostrava più minaccioso con le sue “piene” e la primavera si presentava in pieno rigoglio di vita con tutta la sua esplosione di colori e profumi. In quei giorni tantissime persone arrivavano in processione da diverse strade anche dagli altri paesi limitrofi, come S. Polo, Licenza, Civitella, Roccagiovine, richiamate dalla festa annuale e per godere la piccola fiera di bestiame e di minutaglie che si teneva nello spiazzo a lato della chiesa nell’area di un microscopico cimitero.
Punto di partenza per i singoli o per il drappello di fedeli in special modo provenienti da Vicovaro, Cantalupo, Bardella e da altri siti della Valle dell’Aniene, era, come già accennato, la chiesa di S. Maria del Sepolcro: da qui le “compagnie” di pellegrini o i singoli penitenti, dopo essersi rifocillati materialmente all’ombra dell’ameno porticato e spiritualmente con la messa mattutina nell’attigua chiesetta, iniziavano l’impervio ed aspro “ sentiero della penitenza”.
Lasciata dunque la Via Valeria, i penitenti s’inerpicavano, a piedi nudi e salmodiando, nella piccola vallata deserta del Ronci. Lì, tra il verde e le rocce che incombono sul fiume, si può godere uno spettacolo di magnificenza e di terrore, tanto da farla ritenere popolata da chissà quali demoniache creature e chiamarla Valle dell’Inferno.
Qui gli echi della montagna, provocati dalle folate del vento che s’insinua nel canalone, sembrano emulare il bisbigliare delle preghiere degli eremiti e dei penitenti, per poi amalgamarsi col mormorio delle acque sottostanti e col frusciare delle piante che selvaggiamente adornano la valle: quale luogo più idoneo per simboleggiare l’ispido percorso della contrizione e il difficile raggiungere di una pace interiore! Lo stretto fondovalle, serrato tra le balze scoscese, è completamente disseminato di enormi ciottoli acuminati di pietra biancastra, tanto da renderlo estraneo al tentativo di qualsiasi coltura: da qui il nome dato a quello spazio di Spreco. Cerri, elci, cornioli, carpini dappertutto ed esposti spavaldamente al sole, profumatissime ginestre, enormi asparagine, cardi selvatici. Indisturbati, nel loro abituale pascolare, animali allo strato brado, che unici animano lo spazio e… silenzio e silenzio ovunque. Soltanto in alto, passata la Fontana dello Spreco, si notano, come segno dell’umana presenza, appollaiati sui dirupi di calcare, i resti di un castello da tempo dismesso e abbandonato, il Podium Runci, già proprietà dell’abbazia di S. Maria in Monte Dominici, poi solitario tenimentum degli Orsini.
E l’emozione è rimasta pressoché come allora, maggiormente quando, dopo una mezza giornata circa di cammino, alla fine del vallone si vede apparire su una piccola prominenza il biancheggiare delle poche vestigia del romitorio di Ronci. Difatti la chiesa si erge alla fine della Valle dell’Inferno, nel territorio di Roccagiovine, a qualche centinaio di metri dai confini di S. Polo, di Vicovaro, dell’ex castello di Spogna, e proprio alla confluenza d’altre due “vallocchie” con le relative strade di valico: quella di Valle Fura, a sinistra, e quella di Vena Caprara, a destra (2).
La chiesuola del Ronci, la nostra, da non confondere con quella già presente nel Podium Runci, fu sicuramente un edificio medievale a guardia dei confini, nato probabilmente su ruderi precedenti, poi completamente rinnovato, tra la fine del sec. XV e l’inizio del sec. XVI, dagli Orsini del ramo di Roccagiovine e Licenza proprietari del luogo. Così difatti riportano antichi documenti accennando alla sua origine curiosamente analoga a quella della chiesa del Sepolcro, anche questa eretta dalla munificenza degli Orsini, del ramo, però, di Vicovaro, per sciogliere un voto:
“ […] nella estremità del Quarto di S. Maria di Ronci, trovasi una chiesa rurale con varie camere, stalle, granari annessi, abitata da due eremiti che hanno in custodia della chiesa fabbricata dagli Orsini come vedesi la relativa arma gentilizia: detta chiesa rurale non si è potuto sapere in che modo, come e quando fu essa fabricata, ma soltanto per mera tradizione e non so quando si possa dar credito, perché appoggiato soltanto a tradizioni di quei abitanti, venne fabbricata da uno di casa Orsini, che venendo da Roma e trovandosi di notte per quella lunga e cabrosa valle detta dell’Inferno che va a terminare sulla via Valeria fra Tivoli e Vicovaro nella quale scema il fosso sotto il ponte, ebbe cattiva visione, per cui raccomandassi ad un Immagine che esisteva in detto luogo in una casetta, fu libero, facendo voto di fabbricare una chiesa e dare la dote necessaria per il mantenimento di chi custodiva detto locale e manteneva perpetuamente la lampada accesa, giunse felicemente al suo feudo di Roccagiovine, come d’infatti in appresso edificò codesta chiesa detta di S. Maria di Ronci, e la comodò di beni stabili per il mantenimento come sopra si è detto…” (3).
La chiesa, un edificio rettangolare senza abside, nel suo interno ospitava un unico altare, “decenter de necessarius provisum atque ornatum”, come riporta la Visita Pastorale del 1581, su cui era collocata una bella tavola centinata con la Vergine ed il Bambino racchiusi in una mandorla di teste di cherubini, il tutto coronato da una lunetta col busto del Cristo. Un bel dipinto di matrice umbro- laziale degli ultimi anni del XV in cui è da ravvedere con sicurezza la mano del Pastura, il pittore Antonio del Massaro: lo stesso pudico viso e lo stesso sguardo della Vergine, la stessa vispa ed impertinente espressione del Pargoletto, lo stesso panneggio a pieghe larghe, presenti nella Madonna che allatta il Bambino, eseguito dal pittore viterbese per S. Giovanni Gerosolimitano di Tarquinia ed ora nel Museo della stessa città. Ed ancora le stesse acrobatiche posizioni delle teste dei Putti del dipinto di Roccagiovine sono ravvisabili nelle analoghe mandorle che incorniciano la Madonna col Bambino a S. Maria del Riposo di Tuscania e l’Incoronazione della Vergine del duomo di Tarquinia.
Il Cristo invece, con la testa leggermente inclinata segnata da un’espressione mesta e malinconica, rivive egualmente nelle altre opere del Pastura, come nel viso del Battista, nella pala della Natività tra i Ss. Giovanni e Bartolomeo eseguita per i coniugi Guizzi nel 1488 e destinata S. Maria della Verità ed ora nel Museo Civico di Viterbo.
L’impronta marcatamente pinturicchiesca ci spinge a collocare la tavola di Roccagiovine negli anni di poco posteriore al 1492, data d’inizio della seconda esperienza romana del Pastura quando, in sodalizio col Pinturicchio, fu coinvolto nella prestigiosa commissione dell’Appartamento Borgia. E nella corte papale al Vaticano il Pastura conobbe i suoi committenti, gli Orsini del ramo di Roccagiovine-Licenza, domicelli dei due omonimi centri nella Valle Ustica, Giovanni e i suoi figlioli Roberto e Onofrio, ed a questi ultimi due è da addebitare maggiormente l’incarico al pittore viterbese. Uomini di certa valenza culturale e politica, Roberto aveva sposato Giulia figlia di Ulisse Orsini di Mugnano e di Bernardina di Angelo Farnese, mentre Onofrio fu Segretario di Alessandro VI e poi Protonotario Apostolico nel pontificato di Leone X.
Sempre a questi Orsini, emuli in munificenza dei consanguinei del ramo di Bracciano, si deve l’edificazione della cappella dedicata a S. Anna nel monastero di S. Cosimato che, eletta a tomba di famiglia, accolse nel 1528 le spoglie di Giulia “moglie di Roberto Orsini Signore di Licenza e Roccagiovine, madre d’Ulpio e d’altri dodici figli nati dallo stesso matrimonio, eccellente per bellezza del corpo e doti d’animo, che qui giace nel sepolcro dei suoi né insieme né lontano dal marito” , così come ricorda un’epigrafe fatta apporre dal vescovo di Tivoli, Mario Orsini, in ricordo della sua antenata, durante i restauri del 1628 (4). Alla pieve sul Ronci, gli Orsini avevano assegnato come rendita per il suo mantenimento, una piccola vigna limitrofa, strappata all’aridità del suolo, ed un pezzo di terreno lavorativo a Vicovaro.
Nella Visita Pastorale del 1681 del Vescovo di Tivoli Galeazzo Marescotti, è ricordata come di proprietà di Giulio sempre del ramo degli Orsini di Licenza–Roccagiovine che, come precisa il Relatore, ne avevano da sempre lo jure patronatus.
Il romitorio era allora curato da certi Giovanni Luciani e Stefano Simeoni, entrambi di Roccagiovine, che vestivano i panni “dell’Ordine degli Eremiti di S. Francesco”, il primo, con le “patenti di romito” firmate dal cardinale Santacroce, il secondo senza alcun’autorizzazione scritta. Nella chiesa vi era l’obbligo di 18 messe perpetue annue per le quali era stato lasciato un censo di 12,5 scudi l’anno e la rendita di un castagneto. Nelle Risposte al Questionario del Vescovo Marescotti del 1681, così c’informa ulteriormente Don Cesareo Luciani, allora arciprete di S. Nicola a Roccagiovine:
“ […] sotto la medesima parrocchia ci sono l’infrascritte chiese, cioè la cappella avanti il palazzo delli signori Orsini padroni di detto luogo. La chiesa di S. Maria delle Case, e la chiesa di S. Maria de Ronci, tutte sono ut me intenno, juspatronato di detti Signori, e le gode il signor Giulio Orsini, il detto signore nella chiesa di Santa Maria delle Case, e nella chiesa di Santa Maria de Ronci ci tiene l’eremiti, alli quali il sud. Signore ha assegnato i beni di detta chiesa, da quanto tempo in qua godino dette chiese intenno che ha stato antiquo, e per quanto so le gode pacificamente che obblighi siano in detta chiesa non li so…” (5).
Nel 1734 anche Roccagiovine ed il suo territorio fu venduto dagli Orsini: l’acquirente, Vincenzo Nunez, dopo esser entrato in possesso il 2 Agosto 1734 del terzo del feudo di pertinenza di D. Camillo Borghese (Atti Gabrielli – De Cesari) completò l’acquisto il 10 gennaio 1737, quando comprò i rimanenti due terzi da Suor Maddalena (Diana Orsini), “monaca di Tor de’ Specchi”, erede di Maria Olimpia Orsini, ambedue figlie di quel Giulio, citato dal Marescotti, e di Modesta Marchetti (6). Del feudo di Roccagiovine il Nunez prese ufficialmente possesso il 16 gennaio 1737 tramite il suo amministratore Don Simone Fanti di Vicovaro, come riportano gli Atti di Pasquale Arcangeli di Cantalupo. Ed a Vincenzo, già illustre rinnovatore di tanti edifici a Cantalupo (Mandela), si deve il restauro della chiesa di S. Maria del Ronci: fu in quei paraggi di tempo difatti che fu ripristinato il tetto, il portale e, secondo la testimonianza d’alcuni anziani che lo videro prima del suo completo abbandono, affrescato l’interno. Da allora l’aspetto della chiesa con la sua sacrestia, le sue mansiuncole per gli eremiti ed il piccolo cimitero rimase pressoché immutato.
Nel 1843 la chiesa era ancora curata da due romiti e questo sino a qualche decennio dopo, quando l’edificio rimasto incustodito, tramontate ormai da tempo le vie della penitenza, sostituite da altri rituali di redenzione più “moderni”, dimenticate la festa di maggio e la sua fiera annuale, essa iniziò a decadere ed a minacciare rovina. Fu in quelle circostanze, esattamente nel 1856, che fu traslata dall’eremo di Ronci la Tavola della Vergine col Bambino e portata processionalmente nella parrocchiale di S. Nicola a Roccagiovine ove venne assemblata in una moderna cornice dono, quest’ultima, di due possidenti terrieri molto influenti in quel periodo nel piccolo centro, Alessandro e Giuseppe Rufini.
A questo trasporto a Roccagiovine è legata una curiosa leggenda locale: i vicovaresi, attaccati alla devozione della Vergine del Ronci, tentarono di portare l’Immagine a Vicovaro sottraendola così ai roccatani, ma la coppia di buoi che trasportava il dipinto si fermò di botto per l’improvviso peso, come se la Tavola fosse divenuta di piombo. L’inspiegabile fenomeno, ritenuto un monito divino, fece loro abbandonare il proposito. Ne sono rimasti, però, alcuni ricordi e leggende come certe piante inclinate, genuflesse si dice, al passare dell’Immagine e nella popolazione un modo di dire per descrivere ciò che paradossalmente diventa di colpo inamovibile: “Impiummarsi come la Madonna de Runci”.
1- Sull’argomento cfr. A. Crielesi, “Due brevi vie della penitenza”, in Lunario Romano, 1999, Vol. XXVII, pp.160-184.
2- Ivi, p. 170
3- Ibidem.
4- Cfr. A. Crielesi, Il complesso conventuale di S. Cosimato presso Vicovaro, Roma, 1995, pp. 102-105; Idem, Le Fraternità del TOR a Vicovaro: S. Maria del Sepolcro e S. Cosimato, Roma, 1998, pp. 39-40.
5- A. Crielesi, “Due brevi vie della penitenza”, op. cit., p. 172.
6- Cfr. A. Crielesi, Mandela, già Cantalupo e Bardella, Mandela, 1999, pp. 64-65 e pp. 82-83.