SULLE ORIGINI DELLA CHIESA DI S. GIORGIO DI RIOFREDDO

SULLE ORIGINI DELLA CHIESA DI S. GIORGIO
DI RIOFREDDO

di Nicola Cariello

Il 25 aprile 2006 è stata solennemente inaugurata una nuova ala del museo delle culture “Villa Garibaldi” di Riofreddo. Tra i reperti ora esposti si trova l’antico portale, riesumato e ricostruito, di quella che era un tempo la chiesa di San Giorgio coesistente con l’omonimo monastero. Gran parte del merito del salvataggio e della conservazione del portale spetta alla famiglia Roberti, proprietaria del fondo su cui insistevano gli edifici sacri.
La storia della chiesa di S. Giorgio affonda le sue radici in un passato molto remoto e le sue vicissitudini sono strettamente legate alla sorte del vicino Comune di Riofreddo, il quale, già ab antiquo, ebbe come protettore celeste proprio il santo cui era intitolata quella chiesa. FOTO RUDERI CHIESA
Ad opera di molti studiosi sono stati raccolti ed esaminati un gran numero di documenti relativi alla storia della chiesa-convento di S. Giorgio. Le sue vicende, perciò, sono state chiaramente ricostruite dall’epoca medioevale ai giorni nostri. Possiamo agevolmente seguirne l’interessante evoluzione, ricordando ad esempio gli interventi del miles Rivifrigidi, Landolfo Colonna, signore di Riofreddo nel XIV secolo, o la travagliata amministrazione dei monaci ambrosiani fino alla definitiva soppressione del loro ordine nel 1645. Nel 1756, poi, presso il convento venne perfino rogato uno strumento di conciliazione, detto appunto “trattato di San Giorgio” onde sancire la pace ritrovata tra le comunità di Arsoli e di Riofreddo, i cui rapporti si erano guastati a causa delle intemperanze seguite ad una rissa tra alcuni  abitanti dei due paesi. Il che lascia intendere di quale autorevolezza godesse il monastero, il quale ospitò, fra l’altro, un gruppo di garibaldini  nel 1849 e nel 1888 tecnici ed impiegati dell’impresa Maggiorani allora impegnata nella costruzione della ferrovia Roma-Sulmona.
Ma già dal 1886 la chiesa non era più officiata ed era iniziato lo stato di degrado dell’intero complesso religioso, al quale invano ed a più riprese tentarono di porre riparo pochi uomini di buona volontà, facendo appello alle autorità locali e nazionali. Purtroppo nulla accadde ed oggi la vegetazione spontanea ricopre completamente i ruderi rimasti, conferendo all’ex chiesa-monastero di S. Giorgio un aspetto irreale e quasi romantico.
Per le epoche cui abbiamo fuggevolmente testé accennato è possibile pertanto ricostruire con sufficiente precisione gli avvenimenti sulla base di una documentazione che ovviamente si fa più ricca a mano a mano che ci si avvicina al nostro tempo. Diverse però sono le considerazioni che devono farsi per quanto riguarda l’Alto Medioevo, vale a dire il periodo in cui presumibilmente sorse la primitiva chiesa di San Giorgio, in una località già da allora percorsa da più strade, ma comunque del tutto marginale rispetto ai grossi agglomerati urbani.
Occorre anche riconoscere che nonostante le lacune se non proprio l’assenza di documentazione sono state proposte diverse tesi circa l’origine ed i primi tempi di vita del nostro complesso monastico. Ma è altresì naturale che ogni ipotesi, per quanto suggestiva e verosimile, si basa soltanto su indizi o analogie e non può dare una risposta definitiva.
Premesso, quindi, che è ben arduo allo stato attuale fornire un quadro preciso delle origini della chiesa di S. Giorgio, onde partire da elementi certi pare indispensabile innanzitutto interrogarsi circa la figura del santo stesso cui venne dedicato il tempio.

Il santo
É subito da specificare, allora, che la Passio Georgii, la cui redazione più antica è contenuta in un palinsesto greco (il numero 954) della Biblioteca Nazionale di Vienna, venne pubblicata nel 1858 dal Detlefsen, che la datò agli inizi del V secolo. Bisogna però anche aggiungere che il Decretum Gelasianum (1) la classifica tra le opere apocrife. In seguito comparvero altre passiones, che la arricchirono di nuovi contenuti e la resero sempre più popolare, per cui venne tradotta in copto, armeno, ge’èz (2) ed arabo.
Secondo la narrazione agiografica, in sintesi, Giorgio di Cappadocia, ufficiale dell’esercito imperiale, si confessa pubblicamente cristiano e per questo viene torturato e messo a morte non prima di aver compiuto una serie di miracoli. Il fatto sarebbe avvenuto all’epoca di Daciano, imperatore dei Persiani, ma a volte si allude a Diocleziano e talvolta ad un certo Daziano, probabilmente governatore romano della Spagna, diventato famoso come “il drago degli abissi” per la sua caccia feroce ai Cristiani. Per quel che riguarda l’anno del martirio gli studiosi oscillano tra il 284 ed il 303.
Il culto di San Giorgio conobbe subito una straordinaria diffusione: nel VI secolo già esisteva a Gerusalemme un monastero a lui dedicato e ben presto venne venerato in Giordania, in Iraq, in Etiopia ed in Georgia (che proprio da lui prese il nome). Ma in Egitto, dove gli furono dedicate moltissime chiese, la fantasia popolare arricchì vieppiù il racconto delle sue gesta e fece nascere la leggenda della fanciulla liberata dal drago, forse – ad avviso degli studiosi – ai tempi delle prime crociate, per una errata interpretazione di un’immagine dell’imperatore Costantino che si trovava allora a Bisanzio. Anche in Italia, già dal VI secolo, S. Giorgio conobbe una grande popolarità: a Roma, Ravenna, Ferrara e Napoli specialmente fu oggetto di particolare venerazione. All’epoca delle Crociate tale culto si diffuse ancora di più nel Regno Franco ed in Gran Bretagna e vennero anche istituiti numerosissimi ordini cavallereschi intitolati al santo guerriero. Così pure moltissime città (da Mosca all’Aquila) lo hanno eletto patrono già da secoli.    FOTO SANTO DRAGO BASSORILIEVO
Tenuti presenti questi dati (3), per quel che concerne la nostra regione la prima interessante notizia ci viene fornita dal Liber Pontificalis in relazione alla biografia di papa Zaccaria (741-752). Di origine greca, accorto diplomatico, questo pontefice era riuscito a trovare un accordo sia con i   Longobardi che con i Bizantini e a Roma aveva dato un impulso decisivo all’edilizia sacra.
“Il beatissimo papa – si legge nel Liber Pontificalis – trovò nel sacro Patriarchìo il santissimo capo di San Giorgio conservato in uno scrigno, nel quale rinvenne altresì un foglietto scritto in greco che dichiarava essere quella appunto la testa del santo. Al che il beatissimo papa, tutto contento e soddisfatto, da lì, insieme con il popolo di questa città di Roma, fra canti sacri ed inni, la fece portare nella sacra diaconia a lui (S. Giorgio) dedicata, che si trova a Roma, nel secondo rione, ad Velum aureum; dove l’Onnipotente, sia  lode al suo nome, si degna di operare straordinari miracoli per il tramite dello stesso santissimo martire” (4).

Un culto universale
Benché sia da tenere presente che papa Zaccaria si vantasse originario della stessa regione, la Cappadocia, della quale si diceva nativo San Giorgio e che la chiesa “al Velabro” sia situata nel quartiere bizantino di Roma, la cosiddetta ripa graeca (5), non si può insistere fino all’estremo sulla pretesa assoluta grecità del culto di quel santo (6), diffuso invero dall’Oriente all’Occidente. Nell’VIII secolo la Chiesa non conosce divisioni; Roma sta faticosamente acquistando la sua autonomia, ma si sente ancora parte dell’Impero bizantino, il papa può essere un greco e greci possono essere i religiosi che dalle regioni orientali dell’Impero si trasferiscono in quelle occidentali. Così come può accadere il contrario, stante la pur flebile unità politico-religiosa (7). Roma, d’altronde, fin dal IV secolo, è meta di pellegrinaggi da ogni parte d’Europa e il mondo mediterraneo rappresenta comunque un’unità. Inoltre, l’espressione “ordine basiliano” o “di S. Basilio”, usata  già nel secolo XI per indicare i monaci di origine greca dell’Italia meridionale, risulta impropria o, meglio, errata (8). Occorre aggiungere che anche i Benedettini erano particolarmente devoti al culto di S. Giorgio e che nel privilegio di papa Pasquale II concesso al monastero di Subiaco il 2 aprile 1115 si fa riferimento esplicito ad una chiesa di S. Giorgio ad Affile, appartenente a quel cenobio (9).
Tutto ciò per comprendere, se pure sommariamente, la complessità della questione legata alle origini del S. Giorgio di Riofreddo. Il quale, inoltre, viene citato più volte in documenti del Regesto Sublacense dei secoli IX-X come appartenente ai Benedettini di Subiaco, benché sia più che legittimo avanzare dubbi circa l’autenticità di tali atti.
Insomma: intorno a questo santo da leggenda si stratificano racconti che lo presentano come un cavaliere “ante litteram”, mentre gli agiografi successivamente spiegheranno che il drago contro il quale egli lotta sarebbe il simbolo del morente paganesimo. Per una sorta di inversione dei valori religiosi, infatti, all’affermarsi del Cristianesimo gli dei pagani erano stati trasformati in demoni (10) ed il paganesimo stesso era simboleggiato da un drago dalle cui fauci si levavano lingue di fuoco dirette a distruggere le anime dei Cristiani. Ad avvalorare definitivamente questa storia compare anche il capo di S. Giorgio, miracolosamente conservato in una cassa proprio nella sede del papato. Non bisogna dimenticare che ancora nel secolo VIII erano vivi – e sarebbero sopravvissuti a lungo – sotto forma di manifestazioni superstiziose, molti relitti del vecchio paganesimo, che la Chiesa combatteva alla radice.
In sostanza, quindi, la dedica a S. Giorgio di chiese, come quella di Riofreddo, denuncia un’antichità che potrebbe essere messa agevolmente in relazione ad una polemica difesa del Cristianesimo soprattutto in località eccentriche, dove i miti pagani erano più duri a morire.  Federico Hermanin, in un noto articolo (11), sulla base di alcuni riscontri architettonici, assegnava all’edificio un’età non più tarda dell’VIII secolo, citando in particolare un bassorilievo con figura forse di monaco in atteggiamento di preghiera con le braccia levate,  considerata, per la sua fattura, una rozza immagine “che va posta nella serie delle rare sculture barbariche dell’VIII secolo”. FOTO BASSORILIEVO ORANTE

Basiliani o Longobardi?
La località in cui sorge la chiesa-monastero di S. Giorgio si trovava proprio al confine tra Longobardia e distretto bizantino romano, dove si incrociavano le giurisdizioni del vescovo di Tivoli e di quello marsicano nonché i diritti dell’Abbazia di Subiaco. Una zona, pertanto, di transito e di scambio, dove era più facile si creassero conflitti ma anche nuove esperienze culturali, con tutte le contraddizioni del caso. Per la prima costruzione di S. Giorgio (la successiva rifondazione romanica del XII secolo non risulta controversa) ci si è richiamati, infatti, nello stesso tempo sia ad influssi “basiliani” che a interventi “longobardi” ovvero “barbarici”. Tutte allusioni prive però di documentazione certa.
Si è già accennato alla posizione dei monaci italo-greci. Ma per ciò che concerne le costruzioni “longobarde” giova citare quanto scrive Alessandra Melucco Vaccaro (12) in relazione alla produzione marmoraria romana altomedioevale: “Carl van Essen che, in tempi relativamente recenti, ha tracciato il profilo del problema, ha ricordato che non fu facile sottrarre questa produzione alla sommaria etichetta di “longobarda” che un altro olandese, il van Marle aveva ancora una volta utilizzato per essa e per tutto quello che era stato creato in Italia tra il 575 e il 1000”. Discorso che si può estendere da Roma al Lazio ed all’Italia in genere.
È preferibile allora parlare globalmente di “età longobarda” semplicemente quale dimensione storico-culturale, tenendo presente che alla base del linguaggio artistico altomedievale è riconoscibile un processo di stilizzazione che ha origine nell’ambiente cristiano orientale per ricevere comunque a livello provinciale un suo carattere peculiare ed irripetibile. E soprattutto occorre rammentare l’attività delle botteghe locali il cui apporto è stato il più delle volte incalcolabile. Per non parlare delle tecniche di riuso, che consentirono nuove creazioni utilizzando i materiali di monumenti esistenti in loco.
Per ciò che concerne, in particolare, il suddetto bassorilievo, rinvenuto, a quanto pare, nell’interno dell’architrave della porta che dal nartece conduce alla chiesa, è più che probabile che si tratti di un’immagine di “orante”, rappresentazione molto diffusa nell’arte paleocristiana: basti considerare che tali figure già appaiono nelle catacombe in epoca imperiale. Spesso, inoltre,  l’orante si trova raffigurata al centro dei bassorilievi che ornano i sarcofagi cristiani.
A proposito della semplificazione, quasi sfiorante la rozzezza, che caratterizza le opere di età tardo-romana, non sembra corretto parlare di declino della tecnica ovvero di imperizia, classificandole  puramente come “barbariche”. L’artista altomedievale non si preoccupa dell’equilibrio tra contenuto e forma, obiettivo ideale dell’arte classica. Egli è tutto intento a trasmettere un messaggio preciso e la sua opera trascura i dettagli formali, ai quali ha sostituito altri valori. Peraltro dal nuovo modo di comunicare e dalla coraggiosa rottura con il passato nascerà un nuovo stadio della storia artistica, in cui l’arte diventa veicolo per la propagazione di certe dottrine (13). Attraverso la via della semplicità estrema si tenterà di ottenere in pratica i massimi risultati.
In conclusione, durante l’età altomedievale si diffonde,  con tutto il suo apparato leggendario, il culto di San Giorgio, nel quadro dell’impegno del Cristianesimo contro le usanze pagane ancora vive in certi ambienti rurali. La costruzione degli edifici sacri fa parte di questo programma di diffusione popolare: anche la decorazione è intesa come mezzo di educazione delle masse. Le quali partecipano a tale processo, che non viene imposto ex abrupto dall’intervento di elementi estranei alla collettività, come suggerirebbe l’idea dei longobardi o dei monaci greci.
Il monumento nasce ad opera di artigiani ed entra a far parte della vita del contado, che lo considera come una parte (importante) dell’esistenza quotidiana. Esso vivrà a lungo. Almeno finché le mutate condizioni storiche e sociali non porteranno ad una diversa organizzazione della comunità, alla modifica di confini e di giurisdizioni ecclesiastiche, al passaggio della proprietà nelle mani o di un ente religioso quale il monastero benedettino o del signore laico.
E questa sarà già un’altra storia.

(1) Il cosiddetto Decreto di Gelasio è uno scritto dogmatico latino, probabilmente risultato della fusione di due documenti, il primo della fine del IV secolo ed il secondo della fine del V. Attribuito a papa Gelasio I (492-496), é diviso in cinque parti, l’ultima delle quali tratta dei libri degli eretici e degli scismatici rifiutati dalla Chiesa.
(2) Nome indigeno della lingua anticamente usata in Etiopia, da tempo morta ed attualmente in uso solo nella letteratura religiosa.
(3) Tratti dalla pubblicazione ufficiale dell’Istituto Giovanni XXIII-P.U.L. “Bibliotheca Sanctorum”.
(4) Il Patriarchìo o Palazzo Lateranense era allora la sede del Capo della Chiesa di Roma, mentre la chiesa ad Velum aureum (oggi San Giorgio al Velabro) faceva parte di una diaconia ovvero un istituto di assistenza caritativa e religiosa.
(5) E’ la zona compresa tra il Palatino e l’Aventino, dove sorge anche la basilica di Santa Maria in Cosmèdin, che era detta in schola graeca.
(6) Perfino nella tradizione islamica S. Giorgio ha il titolo di “profeta”: il racconto delle sue gesta risale a Wahb ibn Munabbih (728-733) e riproduce la versione siriaca della più antica redazione della leggenda.
(7) Si veda, in proposito, quanto scrive F. Burgarella (Presenze greche a Roma: aspetti culturali e religiosi, in “Roma fra Oriente e Occidente” cit. in bibliografia). Elemento portante della cultura greca nella nostra regione erano i monasteri formati da comunità di monaci provenienti dalle zone bizantine e per circa 70 anni, da Sergio I a Zaccaria (685-752) i papi furono di origine greco-bizantina.
(8)  Più esattamente vanno detti italo-greci i monaci di cultura e lingua greca che vissero ed operarono in Italia. Erano in realtà autoctoni, cioè italiani, nati e formatisi nelle province d’Italia soggette all’Impero bizantino, benchè spesso migranti in regioni latine e longobarde. Solo nel 1579, per opera di papa Gregorio XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585), come continuazione storica del monachesimo bizantino nell’Italia meridionale, venne istituito l’Ordine basiliano italiano di Grottaferrata.
(9) Il culto era diffuso anche nella vicina Pontia (Arcinazzo Romano).
(10) “Sono questi gli spiriti immondi, autori di tutti i mali che avvengono e di essi il diavolo stesso è principe “ (Lattanzio, Divinae Institutiones, II, 14, 5). E S. Giovanni Crisostomo, a proposito di riti magici ed amuleti, rammenta che al fedele è consentita una sola azione efficace: il segno della croce (cfr. A.A. Barb, La sopravvivenza delle arti magiche, in “Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV”, ecc., cit. in bibliografia).
(11) F.H., La chiesa e il monastero di San Giorgio presso Riofreddo, cit. in bibliografia.
(12) A. Melucco Vaccaro, Le botteghe dei lapicidi: dalla lettura stilistica all’analisi delle tecniche di produzione, cit. in bibliografia.
(13) È bene specificare che di frattura tra l’arte classica e quella paleocristiana di può parlare soltanto per quanto riguarda il programma iconografico, in quanto l’arte cristiana, dal punto di vista stilistico segue l’esempio di quella pagana antica, che in epoca tardo-imperiale già manifestava un’evidente rifiuto dei canoni classici. Il carattere ingenuo, primitivo ed arcaico non è il risultato dei “Barbari” del Nord Europa, ma l’effetto di una graduale trasformazione interna già rilevabile nell’arte tardo-antica pagana. In più l’arte paleocristiana assumerà caratteri peculiari per adattarsi agli ambienti delle varie province alle cui popolazioni intendeva indirizzare il proprio messaggio.

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